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Usi e costumi

La vita a Sassari

Le occupazioni della maggior parte della popolazione di Sassari riducevansi alle faccende della vita campagnuola, le quali assorbivano tutte le altre.

I passatempi della vita sassarese verso la fine del secolo XVIII e nella prima metà del secolo XIX, possiamo desumerli dalle notizie risultanti dai molti documenti citati e, per i tempi meno lontani da noi, dalle descrizioni fatteci dai nostri vecchi.

La domenica mattina le donne si recavano in chiesa per la Messa e di là direttamente a casa. Nel pomeriggio le signore, quando non andavano in campagna, facevano una breve passeggiata sul colle dei Cappuccini, o verso San Pietro; i popolani, all’incontro, uomini e donne, si riversavano negli orti vicini, fuori delle cinque porte, per farvi merenda, con pane e le gustose lattughe, o fichi, secondo la stagione.

Nei giorni feriali gran brulichio di persone d’ogni ceto in Piazza (Corso) e specialmente nei tratti dal Piano di Castello alla piazzetta di Santa Catterina (piazza Azuni, ndr) e da questa fino alla chiesa di Sant’Andrea. I manovali disoccupati facevano ressa nei pressi della Casa Comunale o nei crocicchi di via Turritana e Capo di leoni (vicino al mercato, ndr); i zappatori si riunivano in gruppi fuori Porta Utzeri, fuori Porta Rosello o fuori Porta S. Antonio, aspettando che i proprietari delle vigne e degli oliveti venissero a richiedere l’opera loro.

Spettacolo sovrano erano per i popolani le corse dei cavalli e i fuochi di artifizio e attrattiva irresistibile le frequenti processioni religiose, specialmente quella della Settimana Santa e del Corpus Domini.

Per le classi più elevate vi erano le rappresentazioni al Teatro, i balli in carnevale e qualche spettacolo eccezionale all’aperto al quale partecipava anche il popolo.

Di tanto in tanto, come un diversivo per rompere la monotonia del vivere, un’esecuzione capitale al Pozzo di rena, o altrove, con tutto il solenne apparato della forca, a cui tutti accorrevano come al più interessante spettacolo.

Nel carnevale vi erano anche le solite mascherate, le solite satire pungenti e le solite letture di vita al prossimo, funestate talvolta da qualche brutta scena di sangue.

A maggio la funzione clamorosa di S. Gavino, tutta a beneficio e pompa dei Consiglieri comunali, che banchettavano in Portotorres, e a mezzagosto la spettacolosa e popolare festa dei Candelieri.

In autunno il chiasso festoso delle vendemmie; a Natale e all’Epifania le gobbule, cantate per le vie e alle porte delle case private.

Questa, in complesso, la vita cittadina dei sassaresi, semplice e modesta ma non troppo quieta, talvolta, per le lotte di cui tanto abbiamo parlato.

Cride e Ordinazioni

Dalle Ordinazioni e cride dei Viceré, dei Governatori o del Municipio, si possono rilevare gli abusi che si commettevano dalla popolazione. Ne citeremo alcuni.

1531 (27 Marzo). – Con Crida del Viceré Cabrero, recante questa data, si pubblicano a Sassari le seguenti disposizioni: – Chi bestemmia Dio e la Santissima Sua Madre sarà condannato: la prima volta a un mese di prigione, la seconda ad essere bandito dalla terra per sei mesi e Ls. 5 di multa e la terza volta gli sarà clavada la lingua. Nessuno potrà tener concubina sotto pena di Ls. 25 di multa. Chi trarrà la spada contro chiunque sarà punito con inchiodargli la mano, se non leverà sangue – e se leverà sangue gli sarà reciso il pugno. Nessuno osi tirare a verga, né ferire con essa o con balestra, pena della vita. Tutte las donas enamoradas (rameras) devono abitare in luogo pubblico, sotto pena di essere azotadas (frustate) ed è proibito a chicchessia di tenerle presso di sé, sotto la pena stessa. (Questa Crida ci dice che nel 1531 continuavano moltissimi degli abusi e dei vizi che si erano verificati a Sassari due secoli addietro, per i quali erano state ordinate le stesse punizioni, contenute negli Statuti del 1294).

1580 (29 Agosto). – Si pubblica in Sassari un Pregone che stabilisce pene pecuniarie, arresti in casa, i griglioni ecc. contro la donna che ardiva tagliar capelli o vestiti ad altra donna, strascinarla, o metterla a nudo (?). Anche nel Codice del 1294 vi è un articolo che condanna l’uomo o la donna che taglia capelli o treccia ad una donna. Pare fosse una vendetta molto in uso a quei tempi! Denudare una donna e tagliarle i capelli era la più bassa delle umiliazioni che si potesse infliggerle.

1591. – Editto Viceregio contro colui che in una rissa ponesse mano alla spada o al pugnale, sotto pena di avere inchiodata la mano in luogo pubblico.

L’abuso dunque continuava. Anche nei secoli posteriori si verificarono queste spavalderie; l’Usai nota che il 7 Febbraio 1714 Don Sebastiano Berlinguer, nella scrivania del Palazzo Reale, sguainò la spada per dare una piattonata a Francesco Tomas Fundoni. Fortunatamente Don Sebastiano si rifugiò in chiesa, altrimenti gli avrebbero inchiodato la mano.

Mode e lusso

Il Cossu ci dice che nel 1333 la città di Cagliari fece un’Ordinanza, confermata dal re Don Alfonso, con la quale si proibiva l’uso smodato di cose preziose negli abiti delle donne, proibizione che fu estesa a tutta l’Isola nelle Corti di Antonio Cardona del 1545, con lo scopo di reprimere il lusso nel vestire. Malgrado questi ordini, gli Stamenti nel 1688 notarono che si spendevano somme ingenti negli abiti, e si chiese una Prammatica conforme a quella pubblicata in Madrid nel 1684. Con Pregone del Viceré e col parere della R. Udienza, si prescrisse l’uso delle sete a poche classi di persone, fissando anche per queste una moderazione, con lo scopo di non far uscire il danaro dall’Isola, nella quale mancava l’industria della seta. Anche nel Parlamento del 1544 si chiedeva, che, essendo molte persone di modesta fortuna cadute in miseria per voler vestire e spendere al di là del loro grado e condizione, fosse stabilito in Sardegna il buon ordine vigente nella Spagna ed in Napoli, dove le vesti dovevano adattarsi alla condizione delle persone.

Rapimenti e matrimoni

Oggi i matrimoni sono difficili, ed i genitori perciò si adattano alla rinunzia di molti sogni, pur di maritare le figlie, ma nei secoli passati si era troppo rigorosi al riguardo. Spigoleremo sull’argomento qualche notizietta da libri e carte d’Archivio.

1641. – Si domandava nel Parlamento: «Che fosse posto impedimento al matrimonio di chi, per avere in moglie una fanciulla, adoperava il consueto (?) mezzo violento di baciarla in pubblico, che si applicasse la stessa legge, ancorché la fanciulla insultata acconsentisse alle nozze e si sancisse pena di morte al violentatore, oltre la confisca di tutti i beni, metà dei quali doveva essere devoluta al Governo e metà alla famiglia della donna baciata… E lo stesso valga, quando la fanciulla sedotta andasse in casa dell’uomo, o d’altri, per effettuare il matrimonio, malgrado il divieto dei genitori».

1642 (Parlamento). – Dal Sindaco di Sassari, Don Angelo Manca Zonza si chiede: «Che in riparo agli inconvenienti e scandali che tutto dì nascono dai matrimoni contratti da figli e figlie senza il consentimento dei genitori, venga decretato che, succedendo tali casi, i figli siano ipso jure diseredati, ed in nessun tempo possano pretendere alimenti, o la legittima dei beni dei loro genitori. Inoltre, che nessuna donna possa venir forzata a maritarsi, sotto pena di morte agli autori di simile delitto, avendo l’esperienza dimostrato gli infelici successi e gli scandali che nascono da siffatti matrimoni». Tutto ciò prova però che tali casi si verificavano con molta frequenza.

1732 (27 Marzo). – Il Sovrano scriveva al Viceré: «Siccome per via dei matrimoni si andò estinguendo nelle due fazioni imperiale e spagnuola l’opposizione che fra esse regnava, dobbiamo credere ugualmente proficuo di procurare di abolire le fazioni col mezzo dei matrimoni per unirli così nell’attaccamento alla mia Corona». Dal che risulta che il Governo Reale non rifuggiva da alcun mezzo che giovasse ad affezionarsi i popoli Sardi.

1737 (11 Gennaio). – Si scrive al Viceré da Torino perché si invitino i forestieri a domiciliarsi in Sardegna per l’incremento del commercio (come altra volta erasi praticato per disposizione del Governo di Spagna) e fra le altre cose si consiglia loro di contrarre matrimonio con una donna sarda.

1810. – Verso quest’anno il P. Napoli scrive: «Le donne sarde stanno in chiesa separate dagli uomini e non ardiscono alzar gli occhi. Dio liberi toccar la mano ad un uomo. Quando hanno ospiti in casa, esse quasi mai compariscono, né mai vanno a tavola con essi. Beata rozzezza, che Dio voglia si mantenga sempre!».

1824 (10 Settembre). – R. Editto del re Carlo Felice su provvedimenti in rapporto ai matrimoni. In esso leggesi: «Siamo informati che in vari luoghi dell’Isola siasi introdotto l’abuso di permettere la celebrazione degli sponsali fra persone di età non matura e quello più grave di tollerare la coabitazione degli sposi e delle loro future spose, con offesa della pubblica onestà, con pregiudizio del buon costume e contro i sacri canoni».

E stabilisce quanto segue: «Nessun notaio deve ricevere atto o dichiarazione per minorenni; di nessun effetto civile saranno gli sponsali contratti in via privata. Si raccomanda ai parroci di sorvegliare, facendo osservare che è vietata la troppa frequenza e le visite dello sposo ad ore indebite; si affrettino i matrimoni, senza indugio, entro tre soli mesi e siano puniti i colpevoli di abuso di coabitazione fra sposi, previo sommario giudizio e rimossa ogni supplica ed appello, ritenendoli come inquisiti di concubinaggio».

Mangiare e bere

A Sassari nei tempi antichi si mangiava e si beveva abbondantemente: i viveri costavano poco e quando erano cari si ricorreva anche al Governo perché li facesse ribassare di prezzo, o li provvedesse.

1570. – In seguito al lamento per la mancanza di carne il Viceré Coloma rilasciò un Decreto in data del 29 Aprile, ordinando al Governatore ed ai Consiglieri di Sassari di fare un’incetta di 4000 montoni in tutte le incontrade del Capo, incaricando gli ufficiali delle rispettive giurisdizioni di ripartirli tra i vassalli, facendoli pagare al prezzo stabilito dalle Reali Prammatiche, tanto intieri che squartati e nessuno doveva fare altrimenti si la gracia regia tenia cara.

La tariffa pubblicata il 24 Aprile 1596 dal Viceré aveva i seguenti prezzi stabiliti dall’autorità: montoni con due denti, soldi 7 cadauno; quelli con quattro denti, 22 soldi; quelli con 6, 22 soldi.

Nello stesso anno (18 Luglio) si ordinava che non s’imponessero gabelle sulle fave, né su altri cereali, poiché un aumento di prezzo avrebbe significato miseria y fam del poble, ed era necessario che la vida fos barata (Toda).

1650 (2 Gennaio). – Il vino costava in quest’anno una miseria, e con cinque centesimi uno poteva ubbriacarsi. La città di Sassari ricorse in quest’anno contro i Ministri patrimoniali che volevano imporre un diritto di 6 reali per ogni botte di vino che s’imbarcava a Portotorres. Il Viceré, Cardinale Trivulzio, rispondeva dando tutte le soddisfazioni possibili. Erano numerose in Sassari, e molto frequentate, le botteghe dove vendevasi vino, ed era uso antichissimo, conservato fin dopo il 1848, di apporre sulla bottega un fascio di edera fresca, per indicare il luogo sacro al nettare di Bacco. L’usanza non era sassarese certamente; anche i romani, al tempo dei Cesari, mettevano alla porta delle rivendite di vino l’edera, come insegna o mostra.

1764. – Scrive il P. Napoli che in quest’anno di carestia era tale il consumo che si fece a Sassari di palmizi, fatti venire da Sorso e da Sennori, che le foglie coprivano le strade sino all’altezza di un palmo (!!). E aggiunge di aver saputo da Ufficiali del Magistrato Civico che fu calcolata a più di scudi 2000 la somma spesa per acquistarli. Il P. Napoli calcolò alla sua volta che si erano divorati in Sassari non meno di 600.000 palmicci.

Ma queste sono bombe della forza di quelle sparate dai francesi contro Cagliari nel 1793 e da lui contate coll’orologio alla mano!

1765. – Scrive lo stesso P. Napoli: «Verso questo anno, quando ero giovanotto, ho conosciuto vendersi il grano da 7 ad 8 reali ogni starello, la carne a sei danari la libbra, il formaggio a mezzo reale e il vino a 6 o 7 soldi il quartuccio. Ora tutto è incarato, il che proviene in parte dalla diminuzione dei generi, sia per i furti o per il cattivo raccolto, sia per l’interesse ed avarizia cresciuta a dismisura, mandando fuori Regno quanto possono per averne più lucro e in parte dal lusso nelle vesti e nelle mense, volendo le persone nobili e benestanti non solo, ma persino gli artigiani, barbieri e facchini, sfoggiare nei pranzi. Oh quanto erano più parchi i nostri maggiori! Non si trattava di portate neppure nelle case più nobili, le quali solevano avere sei o sette piatti tutto al più (?!) ed avevano una serva per cuciniera, né si servivano di trattori o cucinieri pubblici, dei quali cinquant’anni fa ve n’erano due soli in tutta Cagliari; due sole botteghe di caffè e sorbetti, poche di saje e di pannine, e nessuna di galanterie e chincaglierie: ora (1810) siamo zeppi di botteghe e botteghini d’ogni genere!».

A proposito della Scala di Ciogga egli osserva (un po’ malignamente) che essa prese tal nome «da una specie di lumache piccole e bianche chiamate ciogga minudda, della quale abbonda oltre modo tutto quel monte, e di cui se ne raccoglie una prodigiosa quantità, specialmente nelle vigne perché i sassaresi ne sono molto ghiotti e le mangiano cotte semplicemente con acqua e sale». Il buon frate non aveva capito che la strada tutta in salita a spirale, aveva preso il nome dalle giravolte della chiocciola e che le lumachine non c’entravano per niente.

Dopo le lumachine ed i palmizi, ed anzi più delle une e degli altri, i popolani sassaresi sono divoratori di lattughe, poiché realmente queste sono a Sassari freschissime, acquose, gustosissime.

Cibo preferito per tradizione, dai sassaresi, è il cavolo. E’ con esso che si fa la più ghiotta e tradizionale vivanda; quella famosa cavolata, nella confezione della quale concorre largamente, ed anzi unicamente, il maiale, sia colle sue cotenne, il suo lardo, la sua carne, le sue orecchie, le sue zampe, il suo muso, come con la saporitissima salsiccia sarda, di un profumo e di gusto particolare. Ed è tale la ghiottoneria dei sassaresi per siffatta pietanza ch’ebbero ed hanno perciò il soprannome di magna caula, come i cagliaritani hanno quello di pappa zippulas.

Specialità dei sassaresi sono le frittelle (li frixoli) che si fanno per carnevale, le formaggelle (li casciadini) per Pasqua, le papassine per Tutti i Santi.

E fra i dolci anche tutte le specialità delicatissime delle Monache, principalmente le panagliette, i biscotti soffici e leggeri, e i sospiri di pasta di mandorle.

Uno dei passatempi mangerecci attribuito anche alle popolane sassaresi, fu quello delle sementi di melone e di anguria, che consumavano in grande quantità, stando alle finestre, o sulla soglia delle porte, specialmente nei giorni festivi.

Nel Bollettino mensile di statistiche di Milano dell’Aprile 1834, un certo Danzi pubblicò un articolo contro i costumi sardi, che suscitò le ire dei sassa-resi e provocò fiere risposte da parte di Gioachino Umana,di Luigi Abozzi e d’altri.

Il Danzi tra le altre cose aveva scritto che i fichi, le lumache e le lattughe erano per i sassaresi cibi prelibati, che con un cagliarese (2 centesimi di piemonte) l’uomo dotto se ne saziava, che in Sassari non vi erano bettole e si faceva poco uso di caffè, invece del quale si preferivano le lattughe; che, infine, la città abbondava di molti insetti alati e non alati, e che gran parte degli abitanti era affetta dalla scabbia. E scusate se è poco. Ma queste e simili calunnie ed esagerazioni, erano comuni in quel tempo, specialmente da parte dei forestieri, che forse non avevano fatto buoni affari nell’Isola.

Usanze a spizzico

Che la pulizia, tanto in Sassari quanto in tutta la Sardegna, lasciasse molto a desiderare nei tempi passati, è un fatto reale, quanto comune, però, a quasi tutte le città d’Italia e anche dell’estero: Roma, Napoli, Marsiglia, Barcellona ne davano l’esempio. Le case dei signori sassaresi, dalla fine del secolo XVIII ai primi del secolo XIX erano in massima parte molto semplici e modeste; alquanto sfarzose erano soltanto le stanze o sale destina-te ai ricevimenti, ma l’ordine e la pulizia lasciavano molto a desiderare nel resto dell’abitazione.

I portoni di molte case borghesi, per la vicinanza della stalla, erano poco decenti, ed il mosto ed il vino che si trasportavano nelle cantine, dalle quali si estraevano più tardi per la vendita al minuto o all’ingrosso, contribuivano a sporcare gli ingressi delle case e delle vie.

Siffatta condizione però era comune a molte altre città e non avrebbe dovuto sembrare così eccezionale da dar motivo alle esagerazioni nelle quali incorsero molti stranieri, che vennero nell’Isola e pubblicarono le loro impressioni.

Fra gli altri citerò le lettere di viaggi all’estero stampate da un certo Bicernsteaehl, professore di filosofia in Upsala (Svezia) e dirette al Bibliotecario di Stoccolma.

Queste lettere vennero tradotte dallo svedese in tedesco e dal tedesco in italiano. Una, in data del 2 Settembre 1773, ha il titolo: Notizie di Sardegna: ignoranza, barbarie e sporchi costumi degli abitanti.

Questa lettera è quanto di più basso si possa immaginare, ed io non voglio raccogliere le sconcezze contenutevi; dirò solo che fra le molte enormità, l’autore scrive che nelle primarie case di Sardegna, specialmente nel contado, non si trovavano sedie; che le nobili Dame si mettevano spesse volte a sedere in terra alla foggia degli Arabi; e che esse erano estremamente sporche e brodolose (?).

Le lettere del Professore svedese, pervenute tradotte in Sardegna, provocarono da un capo all’altro dell’Isola le ire di tutti e specialmente delle dame, che il bugiardo scrittore faceva passare per luride zingare. Io ho sott’occhio otto lettere che ribattono le calunnie contro i sardi, lettere scambiatesi da Cavalieri, Dame, parroci, abati, le quali lettere (alcune stampate) circolarono per l’Isola, senza però i nomi degli autori. Sono tutte scritte dall’Ottobre al Dicembre del 1786, da un nobile di Bosa, da un professore, da una Donna Lucia di Sassari, dal Capitano di un Reggimento sardo, da un negoziante d Alghero al Console di Francia in Cagliari, dal parroco di Aritzo a un Canonico di Oristano. Tutti costoro si sfogavano a vicenda, ponendo in ridicolo il bugiardo professore di Svezia.

Continuo qualche spigolatura relativamente alle usanze del tempo, risultanti da deliberazioni del Magistrato Civico.

1840. – Anche dai cani (compagni indivisibili dell’uomo o randagi per le vie) i sassaresi erano tormentati. Nel Giugno di quest’anno il Municipio pubblicò un manifesto che ordinava ai cittadini di esporre un recipiente con acqua nelle vie, o sulla soglia esterna delle porte delle case a pian terreno, in servizio (?) dei cani, onde prevenire qualche funesto accidente.

Durò infatti per molto tempo in Sassari l’erronea persuasione che i cani diventassero idrofobi quando non trovavano acqua da bere. Immagini il lettore l’aspetto originale della città con tutte quelle conche, scodelle, pignatte, ed altri recipienti disposti lungo le vie, in servizio dei cani vaganti!

1849. – Era antica credenza in Sassari che per allontanare i fulmini, durante un temporale, bastasse sparare un’arma da fuoco dalla finestra. E l’abuso durò tanto, che il 23 Aprile del 1849, per ordine dell’Intendente, il Municipio pubblicò un manifesto, che proibiva gli spari dalle finestre per scongiurare le scariche elettriche, avvertendo che gli stessi spari non facevano, anzi, che attirare i fulmini!

Gli spari d’armi da fuoco, oltre quelli di petardi e altri mortaretti e ordigni esplosivi, semplici ma altrettanto rumorosi, erano mezzi indispensabili per esprimere il giubilo e l’esultanza per avvenimenti lieti e importanti, primo fra tutti la Resurrezione di Gesù Cristo, salutata con interminabili salve al primo suono a Gloria delle campane il Sabato Santo.