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Al tempo dei giudici (dal 1020 al 1275)

Il Villaggio

Affermano gli antichi storici, che il paese di Sassari ebbe la prima origine nel rione di Sant’Apollinare, e propriamente intorno alla fontana pubblica, battezzata col nome di Pozzo di villa: pozzo esistente fino al 1850, e battesimo conservato fino ai nostri giorni.

Ammessa siffatta origine, è probabilissimo che la chiesetta di San Nicola fosse situata all’estremità del villaggio; dietro la quale, come vuole la tradizione, esisteva il famoso bosco di elci e di ginepri, che in seguito diede il titolo all’antica Madonna del Bosco o del Popolo, la quale anche oggidì si venera sull’altare maggiore della Cattedrale.

Così pure è verosimile, che altre chiesette esistessero a brevissima distanza dal paesello, fra le quali quella di S. Donato, che vuolsi appartenesse a un monastero di Benedettini. A mano a mano che il paese andava ampliandosi verso mezzogiorno, quelle chiese (destinate a diventare parrocchie) vennero raggiunte e incorporate nell’abitato.

A circa 300 metri dal paese (nel sito oggi occupato dalla Caserma militare) esisteva un vecchio castello, menzionato in carte antiche col nome di Castro Sassi; il qual castello vuolsi dall’Angius costrutto dai Giudici turritani del principio del Secolo XI, per servir loro di rifugio nelle frequenti incursioni dei Saraceni – oppure di villeggiatura nei mesi dell’estate e dell’autunno, quando le febbri malariche infierivano nella città di Torres – se è vero (di che io dubito) che i Giudici in essa avessero una reggia prima dell’anno 1000. Non è neppure improbabile che la villa di Tàtari fosse allora un borgo del Castello, come borghi di castelli furono certamente Ardara, Osilo ed Esporlatu.

È certo che Sassari, nel Secolo XII, e forse anche nel precedente, era una semplice villa retta dal suo proprio maiore, né forse da essa dipendeva alcuna villa.

Menzione di Sassari

La prima menzione che si fa di Sassari è nella Cosmografia dell’Anonimo di Ravenna e nella Geografia di Guidone. Costoro affermano, che nel 600 di Cristo, e forse prima, esisteva il paese di Saceri, o di Sacercin, denominazioni, la cui radice parmi tradisca la scrittura di qualche ameno antiquario catalano.

Scrisse il Roncioni, che nel 1012, sbarcati i Saraceni nelle spiaggie del Logudoro, sotto il comando di Musato, distrussero la città di Torres, presero d’assalto e batterono la città di Sassari, e desolarono la Romangia, la Fluminargia e la Nurra. Il Besta, ed a ragione smentisce questa storiella, osservando che Sassari, nel 1000, non era che una modesta villa in confronto di Torres, città importante, prescelta a sede metropolitana alla fine dello stesso secolo.

Dal mio canto ripeto, che pur ammettendo la importanza della sede metropolitana, credo che Torres fosse allora già distrutta, come dirò in seguito.

Quanto a Sassari non dobbiamo dubitare che fin d’allora fosse un centro abbastanza ragguardevole, ricco di vigne, di terre seminate a grano, e di bestiame. I suoi dintorni erano feracissimi; e giustamente rileva il Besta, che il Giudice Mariano favorì e diede sviluppo al commercio, come risulta da un documento del 1082, nel quale è detto, che era tanto cresciuto il movimento di Torres, da richiedere la presenza di due Maiores de Portu. Questo movimento, secondo me, faceva capo a Sassari e non a Torres, – a meno che non si voglia ammettere, che i preti della Basilica, con a capo l’Arcivescovo, facessero i mercanti di granaglie, di cacio e di lana; come lo fecero più tardi i monaci Vallombrosani e Camaldolesi. Sappiamo che Mariano, appunto nel 1082, fece donazione all’opera di Santa Maria di Pisa della chiesa di S. Michele di Plaiano, con tutte le terre adiacenti, saltos, vineas et servos; e sette anni dopo (nel 1089) si ha la menzione di una lite, relativa a un molino che la chiesa pisana possedeva in Tanage. Fin dal secolo XI, dunque, c’era un grande movimento commerciale nel Logudoro, ed erano i pisani, più ancora dei genovesi, che cercavano di sfruttare le terre del Logudoro, una parte delle quali erano state concesse all’opera di Santa Maria di Pisa. Da ciò la influenza dei pisani, giustamente rilevata dal Solmi.

Nota il Tola, che Sassari nel 1113 venne accresciuta da Costantino I delle due Plebi di S. Maria e di S. Nicolò in Solio. Nel Condaghe di S. Pietro di Sirchi (1112-1220) si fa più volte menzione della villa di Thathari e di alcuni suoi abitanti. In un atto di concessione del 1131, fra una trentina di servi della Corte di Bosove, è menzionato un Jordi de Sassaro. In carta del 1135 (di Uberto arcivescovo di Pisa) leggesi Sancti Nicolai de Thathari; ed è chiaro che questo nome fu tratto da carte scritte in sardo. In epistole di Gregorio IX, del 1236, la città è chiamata Saçari; nelle carte del secolo XIII, testè rinvenute dal Ferretto, leggesi Sassaro; negli Statuti in sardo del 1295: Sassari; ed in quelli latini: Sassari, Sassaro, Sassaris. Ciò per dirvi, che il nome primitivo della città (imposto certo dai pisani e genovesi) era Sassaro, chiamata fino ad oggi Tàtari dai sardi in generale, Zazzeri o Sazzeri dai cagliaritani, Sassari dai sassaresi, Sacer dagli aragonesi e spagnuoli, e Saceri dai moderni latini. Si fa pur menzione di Sassari in un atto del 25 Luglio 1202 stipulato a Vercelli.

Nel 1217 i Visconti di Pisa cacciarono molti corsi dalla loro isola, e vuolsi che venissero in Sassari, abitando in una via, che fu battezzata fino ad oggi, col nome di Via dei Corsi.

Intorno a quei tempi, o poco dopo (secondo Solmi) la villa di Sassari era riuscita ad aprire nuovi sbocchi ai suoi prodotti, mercé i mercanti pisani e genovesi che vi accorrevano numerosi e vi si stabilivano; ed in seguito, avendo essa assoggettato le ville e le terre circostanti, venne assunta al grado di Curatoria, sempre sotto il dominio dei Giudici turritani. Questa Curatoria, certamente, dovett’essere quella di Fluminaria, a cui più tardi si aggiunsero la Romangia e la Nurra.

Risulta dunque che nella prima metà del secolo XIII la città di Sassari era un centro d’importanza e di numerosa popolazione.

Fin dal 1212 regnava Mariano III, quel Giudice turritano che, secondo il Vico, soggiornò parecchie estati a Sassari. Anche gli arcivescovi ci venivano spesso, ed io credo vi passassero la maggior parte dell’anno. Abbiamo una carta del 1231, notificata il 31 Maggio in Curiae Plebi S. Nicola di Sassari, alla presenza dell’arcivescovo Piacentino.

Ci dice il Solmi, che nel 1222 era già costituito il Comune di Portus de Torres, e rileva che Sassari nel 1230 aveva il suo Curatore, o rappresentante del Giudice, quantunque i pisani vi fossero prevalenti, forse favoriti dai larghi possessi che vi teneva l’opera di Santa Maria di Pisa. Lo stesso Solmi osserva, che i pisani avevano costituito i Consoli, a nome dei mercanti e del comune di Pisa; ma non è improbabile che siffatti Consoli fossero la continuazione dei due majores de portu del 1089, menzionati dal Besta. Dal mio canto non avrei difficoltà ad ammettere, che Sassari si governava allora con leggi pisane, poiché sappiamo che Pisa aveva una collezione di leggi municipali fin dal 1161.

La città andò sempre progredendo e crescendo d’importanza, tanto che Gregorio X, in un’epistola del 1272, la chiamava città insigne e quasi capo del Giudicato turritano. A quei tempi, e molto prima, si dava al Giudicato l’appellativo di Torres, o volgarmente quello di Sassari, come più volte scrisse lo storico Tronci.

I Giudici in Sassari

Non intendo parlare dei Giudici istituiti in Sardegna fra l’VIII ed il IX secolo, il cui governo si attribuisce allo spontaneo sviluppo dell’antica magistratura bizantina, dopo che la Sardegna si trovò sciolta da ogni effettiva soggezione dell’impero di Oriente. L’oscurità in cui giace la loro storia è appena rotta dallo sprazzo di luce gettata dalle lettere di S. Gregorio Magno, alle quali succedono più dense le tenebre. Voglio unicamente parlarvi dei Giudici sardi della seconda maniera: di quelli comparsi nei primi anni del secolo XI, che voglionsi istituiti dai pisani, o meglio dai pisani restaurati in nuova e miglior forma. Gli antichissimi Giudici, al di là dell’anno 1000, erano sparsi nelle diverse regioni di una stessa provincia, e forse la loro autorità si riduceva a quella dei nostri pretori di mandamento, o di semplici conciliatori. Di essi non abbiamo alcun documento: forse perché non sapevano leggere, né scrivere!

Sconfitto Musato nel 1016 (scrive il Besta) si affermò la costituzione dei Giudicati in quattro dinastie formate dalla famiglia dei Lacon-Zori e Lacon de Gunale, la quale mantenne per lunga pezza le traccie dell’unità originaria nell’identicità dei nomi e degli agnomi. Atterrati i templi pagani, sottentrò il fervore religioso, ed i Giudici si diedero a fondar chiese e monasteri. Il primo che ne diede l’esempio fu Barisone, il quale nel 1063 fece venire i frati benedettini, o di altra regola.

Se nell’antica Torres codesti Giudici abbiano avuto una residenza o reggia, non è accertato da documento alcuno; e così pure non sappiamo se in quei secoli tenebrosi esistesse Sassari, e da quale gente fosse popolata.

Il Vico (nel 1639), ed in seguito l’Angius, il P. Pistis e qualche altro, assicurano che i Giudici turritani stanziassero un tempo in Sassari; ed è probabile che ciò sia vero, quantunque sembri strano che nessun atto di donazione sia a noi pervenuto in proposito, mentre numerosi sono gli atti stipulati in Ardara, dove ai tempi di Adelasia si recarono i legati del papa, gli ambasciatori di Federico II, e forse lo stesso Enzo, suo bastardo.

E dell’antichità di Ardara nessuno può dubitare; né io so come una reggia siasi voluta stabilire in Torres, dove la tradizione, i Condaghi, e qualche storico, fecero morire Comita I, Costantino II, e Comita II. Forse vi morirono di febbre malarica, essendosi fermati a tener corona nel solito locale; ed infatti leggesi che il secondo morì colà quasi improvvisamente.

Torres, secondo me, era già un luogo distrutto nel Secolo XI, né vestigia alcuna di reggia vi si notò da nessun moderno né antico storico. Il nome di Torres (come quello di Arborea e Gallura) sarà rimasto alla sola regione fin da tempo remoto. La reggia, o palazzo dei Giudici (a cominciare dall’anno 1020) non era che in Ardara e nell’antica rocca del Goceano. Divido quindi l’opinione del Bonazzi, il quale vuole che la parola Logudoro sia una corruzione di Loac de Turres (luogo di Torres).

Sulla spiaggia di Torres (a mio parere) non esisteva verso l’anno 1000 che la sola chiesa di S. Gavino, attorniata da un gruppo di casette, tra le quali quella modesta, destinata all’Episcopio: null’altro. La spiaggia era deserta, e più tardi i pisani vi costrussero qualche casetta per comodo del commercio, come in altro capitolo diremo.

Gli stessi vescovi e arcivescovi non potevano starci che a disagio, ed io credo che passassero in Sassari la maggior parte dell’anno, specialmente nella estate e nell’autunno. Abbiamo notato un atto del 1231, notificato in curia della plebania di S. Nicola alla presenza dell’arcivescovo Piacentinus; ed è certissimo che quando il papa Eugenio IV autorizzò la traslazione della sede, con bolla del 1441, gli arcivescovi stanziavano in Sassari da parecchi secoli. In Torres passavano forse il Maggio e l’Ottobre per le due solenni funzioni di S. Gavino, ricorrenti (non so se a studio, o a caso) in quei due mesi destinati alle villeggiature in riva al mare. E’ chiaro che temevano la malaria, e l’assalto dei saraceni (come lo dimostrano le fortificazioni aggiunte alla basilica di San Gavino).

Nulla noi sappiamo dei Giudici sardi prima del 1000 (la storia non ci trasmette neppure un nome); ma dopo il suddetto anno Ardara solamente ebbe il vanto di essere stanza e reggia dei Regoli Turritani.

La leggenda, trasmessaci per mezzo dei Condaghi, a noi dice: che il primo Giudice Barisone, detto pure Comita, verso la metà dell’XI secolo, movendo con le sue genti da Ardara sua patria, per far costrurre in Torres una basilica in onore di S. Gavino, sostò nella villa di Kerchi, a breve distanza dalla menzionata città. Pare dunque che in Kerchi, e non in Torres, egli avesse una casa propria. La villa d’Ardara, all’incontro, trovasi menzionata in molte carte antiche come Cabu de su Regnu de Logudoro. E a questo proposito divido il parere del Simon, il quale crede che i Giudici abbandonarono Torres per sfuggire agli assalti dei saraceni, i quali invadevano le spiaggie, ma non penetrarono mai nell’interno dell’isola.

Dal Condaghe di S. Pietro di Silki (che registra gli atti dal 1118 al 1250 circa) risulta in modo certo, che i Giudici in quel tempo facevano la vita dei zingari, piantando le tende nelle principali ville, per tenervi le Corone, od adunanze. E Corone i Giudici convocarono con frequenza nella chiesa e monastero di San Michele di Plaiano, nella pievania di S. Nicola di Sassari, nelle ville di Querqui, Curcas, ed altre. Non erano i litiganti che accorrevano al tribunale per chiedere giustizia, ma bensì il tribunale ambulante che si recava presso i litiganti per giudicare le loro cause. I re d’allora (che pur disimpegnavano l’ufficio di giudice o di Conciliatore) si rassegnavano a fare i girovaghi, pur di soddisfare i propri sudditi. E poi si dice che i Sovrani del medioevo non erano democratici! È vero che compravano e vendevano gli schiavi, ma ciò era permesso anche dalla Chiesa, perché i frati, incuranti del Vangelo, facevano altrettanto, come si rileva da molti documenti.

Non risulta da carta alcuna che la città o villa di Sassari fosse soggetta intieramente al Giudicato turritano; ma che fosse sotto la sua giurisdizione non è a dubitare. È però certo, che i Giudici (a cominciare da Comita II) si recavano a Sassari per diporto, in buon accordo coi sassaresi, per la influenza dei signori di Genova; i quali vi possedevano terre e castella, in seguito al matrimonio della figlia di Barisone con Andrea Doria nel 1180, e dopo quello di Manuele Doria con una figlia di Comita, avvenuto trent’anni dopo.

Nel Condaghe di S. Pietro di Silki si fa menzione di una corona tenuta verso il 1120 da Costantino in S. Nicola de Thathari – ma non si accenna a palazzo dei Giudici ivi esistente. Di palazzo di Giudici in Sassari si fa menzione in due documenti: in un’epistola di Gregorio IX del 1236, in cui si parla di palazzi reali distrutti dalle fondamenta dai ribelli sassaresi; e in un documento del Baille del 1253, in cui si fa menzione del Regio palazzo di Enzo, in cui avevano stanza i Consoli pisani. Ne riparleremo in seguito.

Se realmente nel 1236 si distrusse un palazzo regio in Sassari, basterebbe per spiegare la ragione per cui Ubaldo Visconti (dopo l’assassinio del suo cognato Barisone) sottoscrisse due atti: uno nella chiesa di S. Pietro di Silki, e l’altro vicino alle mura della città, verso mezzogiorno. Sappiamo pure che Ubaldo non morì a Siligo (come disse, o fecero dire al Fara) ma morì in Sirchi.

Questa circostanza potrebbe trarci a due ipotesi: o a Sassari Ubaldo non venne perché il palazzo era distrutto e i sassaresi non lo volevano; o una reggia dei Giudici esisteva realmente in San Pietro di Silki, come lo fa supporre la denominazione di Lu regnu, data anche oggidì al sito occupato dalla villa Cocco Lopez |compresa forse nella regione Campulongu, di cui parlano le cronache sarde).

Ad ogni modo, ammesso pure che i Giudici in Sassari avessero una casa propria (come nelle ville in cui tenevano corona) ciò non vuol dire che vi avessero una reggia fissa. Forse vi occupavano un palazzo di proprietà dei Doria o dei Malaspina, passato in seguito al Comune.

Altra buona ragione della venuta dei Giudici a Sassari, parmi quella di abboccarsi cogli arcivescovi che vi stanziavano a lungo, specialmente nell’estate. Vi si trovava, come abbiamo altrove notato, Piacentino nel 1231, e forse prima di lui Opizzone, nativo di Genova.

Il condaghe, che parla di Andrea Tanca, narra che costui (nel periodo che si suppone fra il 1064 e il 1073) soleva passare parte dell’anno fra la reggia di Ardara e l’altra esistente presso S. Maria di Campulongu, sito in cui più tardi vuolsi sorgesse l’attuale chiesa di S. Maria di Betlem. Si noti però che il problematico Andrea Tanca è supposto da Baudi di Vesme uno dei quattro figli di Barisone, il quale avrebbe regnato per pochi mesi, molto tempo dopo (verso il 1199). Vincenzo Dessì colloca la regione di Campulongu al di là di Ittiri, non so in forza di quale documento. La recente nuova notizia, che Ubaldo Visconti morì in Silki e non in Siligo, darebbe ragione al Condaghe sull’ubicazione di Campulongu, posto a brevissima distanza da Sirchi, in su Rennu. Più che una vera reggia dei Giudici turritani, lu Rennu (o Regno) era forse una stazione di villeggiatura estiva od autunnale.

Certamente viene spontanea una domanda: – ma perché i Giudici in quel tempo (dopo l’abbandono di Torres), anziché costrurre la propria reggia in Sassari (il centro più popoloso nel Giudicato) hanno preferito di costrurla nella villa d’Ardara, la quale non era che un umile borgo del Castello?

Una ragione ci doveva essere; e questa, secondo me, potrebbe ricercarsi nel fatto che Sassari, fin dal principio del secolo XIII, godeva di una certa libertà ed indipendenza, poiché in essa dominavano, con alterna vicenda, ora i pisani ed ora i genovesi – gli uni e gli altri mossi dall’ingordigia della mercatura, che dava loro lauti guadagni e ricchezze considerevoli.

Un po’ per la prevalenza del partito pisano (a cui doveva la lingua, le usanze ed il libero regime), un po’ per la prevalenza di quello genovese (dopo la parentela dei Giudici coi Doria), la città di Sassari non viveva che in continui conflitti col Giudicato turritano, sdegnando di sottomettersi intieramente alle leggi di quei Giudici, che avevano per sudditanza una rozza e ignorante popolazione sarda, resa schiava da tutti i dominatori.

E forse in questo sdegno potrebbe ricercarsi la ragione per cui i sassaresi d’allora (come quelli di oggidì) chiamano sardi gli abitatori di tutte le ville del Logudoro… compresa pure quella di Ardara, inalzata all’onore di reggia e dimora dei Giudici turritani.

Tralasciando tutti gli altri Giudici della prima e seconda maniera, ci fermeremo brevemente su Comita II e i suoi discendenti, poiché solamente per essi la città di Sassari ha l’accesso nella storia: – storia molto tenebrosa, nella quale pertanto non mancano sprazzi di luce per farcene almeno rilevare la importanza in linea generale, se non nei particolari. E questa luce la dobbiamo alle nuove e sapienti ricerche del Casini, del Besta, del Bonazzi, del Solmi, e specialmente di Arturo Ferretto, che ci ha rivelato preziosissimi documenti nel passato anno 1904.

Comita e Mariano

Il Giudice Comita II, nemico dei pisani, era succeduto al fratello (e non nipote) Costantino, nel 1199, (non nel 1191, come erroneamente supposero gli storici, fra i quali il Tola). Baudi di Vesme crede probabile che, dopo la morte improvvisa di Costantino, abbia regnato per parecchi mesi un terzo fratello, forse quell’Andrea Tanca che i moderni storici rifiutano. Come un Thanca sia entrato nella famiglia Lacon, noi non lo sappiamo, né sa spiegarselo il Besta: io lo spiego coi bastardi che penetrarono con frequenza nelle dinastie dei Giudici, tutti peccatori per eccellenza!

Verso il 1200 i pisani si erano impadroniti del Goceano, e in seguito spinsero vittoriosi la marcia nel Logudoro. Comita, impensierito, venne a trattative, accettò i patti, e finì per giurare fedeltà ad essi, rendendosi vassallo dell’arcivescovo e del Comune di Pisa. Per assicurare la pace rinunziò in favore del marchese di Massa, Giudice di Cagliari, al condominio nell’Arborea, parte della quale possedeva. Indi diede in sposa al figliuolo Mariano (che aveva assunto al regno insieme a lui) la giovinetta Agnese, figlia del detto marchese, la quale gli portò in dote lo stesso Goceano e altre terre del Logudoro, cadute da parecchi anni in mano dei pisani.

Ma l’accordo fu di breve durata; poiché alla preponderanza più sana sottentrò la influenza dei genovesi, i quali avevano abbandonato il partito imperiale per darsi a quello papale.

Nel 1211 venne sottoscritta una convenzione fra Comita e il suo primogenito da una parte, e i Consoli del comune di Genova dall’altra. I primi due giurarono di proteggere i genovesi, permettendo che i Consoli avessero nel regno turritano stabile residenza per poter giudicare nelle liti proprie. I secondi si obbligavano di proteggere i sudditi di Comita e di Mariano nel commercio, di fornir loro armi ed armati, e di non far pace coi pisani senza il loro consenso.

Costantino, fratello di Comita, aveva sottoscritto altra convenzione di simil genere con Genova, nel 1191.

Tutte queste notizie ci vengono date da Baudi di Vesme in un recente suo studio su Guglielmo di Massa e l’Arborea. Continueremo ora la narrazione, spigolando da altri documenti. Ai lettori coordinare le date, che in diversi punti a me sembrano molto discutibili.

Abbiamo altrove menzionato una convenzione stipulata a Vercelli nel 25 Luglio 1202. Essa riguardava il futuro matrimonio di Maria, figlia del Giudice Comita, con Bonifacio marchese di Saluzzo. Una delle condizioni era questa: che se Bonifacio fosse morto prima di sua moglie, i parenti del marchese di Saluzzo erano obbligati di ricondurre la vedova in Sardegna, nel Giudicato Turritano, nella villa che chiamano Sassari, oppure in Bosa (in judicatura turresanae, in villa quae dicitur Sacer, vel Bosa).

Il Tola, che riporta il documento, dichiara di dubitare della sua autenticità per due ragioni: la prima, perché le cronache sarde tacciono di questo matrimonio; la seconda perché le parole Sacer e judicatura turritanae accennano a tempi recenti, mentre nelle carte antiche leggesi sempre Sassaris e Judicatus Turritanum.

Arturo Ferretto, non solo ammette questo atto (che riporta in sunto) ma ci dà un nuovo documento interessantissimo, tolto dall’archivio di Stato di Genova. In un atto del 6 Gennaio 1210, redatto nel palazzo di Nurchis (?) Nicolò Doria, alla presenza dell’Arcivescovo Biagio di Torres, dello zio Daniele Doria figlio di Andrea, di Comita de Naza (?), di Mariano Pinna e di Pietro de Zur (De Thori?) prometteva al Giudice turritano Comita II, che suo figlio Manuele avrebbe tenuta per moglie legittima Jurgia (Giorgia) figlia del detto Giudice; e in caso contrario l’avrebbe diseredato; che se fosse morto prima il detto Manuele, il suocero avrebbe restituito la nuora nel porto di Bosa, o in quello di Torres.

Noti il lettore la condizione imposta da Comita per la restituzione della figliuola Giorgia nel porto di Bosa o di Torres – identica a quella contenuta nell’atto del 1202 concernente l’altra sua figlia Maria, sposata otto anni ad-dietro al marchese di Saluzzo. In quest’ultimo atto si dice che la vedova doveva essere ricondotta nella villa di Sassari o di Bosa – segno evidente che al porto di Torres veniva pur dato il nome di porto di Sassari, come risulta da altri documenti. (Vedi il mio articolo Portotorres, nell’Album di Costumi sardi, pubblicato nel 1901).

Come spiegare il dubbio del Tola sull’autenticità del documento del 1202, che pure ha la parvenza di genuino nella sostanza?

È vero che le cronache sarde non parlano che di una sola figlia di Comita (Maria), ma è curioso il nome dell’altra figlia Giorgia, che nei Condaghi è indicata come sorella di Comita I: colei, cioè, che costrusse il castello e la chiesa di Ardara. Prova questa, che nei Condaghi sardi è sempre un fondo di verità, come acutamente rileva il Besta, ed anche Benedetto Baudi di Vesme. Il Bonazzi, all’incontro, è più scettico, e dice il Condaghe fattura dei secoli XV o XVI; ma io non posso crederlo del tempo dei Fara, cioè dello storico, del suo babbo notaio, e del suo nonno. Il documento, tutt’al più, sarà stato alterato dai copisti.

Piuttosto esprimo un dubbio maligno. Il dire nell’atto del 1210 che Manuele avrebbe tenuto la figlia Giorgia come moglie legittima, potrebbe significare che prima la possedeva senza la benedizione della chiesa – cose d’altronde comuni, nella reggia dei Giudici sardi.

A Comita II (morto secondo il Besta fra il 1217 e il 1218) succedette il figlio Mariano: colui che soleva passare l’estate in Sassari – (imitando il suo omonimo predecessore, figlio di Andrea Tanca, che passò l’intiero anno in Santa Maria di Campulongu).

Questo principe rinnovò la convenzione fatta dai Consoli di Genova nel 1216 – giurando cioè protezione ai genovesi, con reciproci favori nel commercio, e di non far pace coi pisani senza il suo consentimento. Oltre di ciò era stabilito, che i giudici turritani avrebbero speso in Genova lire 20 mila all’anno, dividendo a metà coi genovesi la intiera Sardegna, o quei giudicati che con l’aiuto dei genovesi sarebbero riusciti a conquistare. Evidentemente erano tutti veri affaristi e barattieri, disposti a succhiare i sudditi sardi, salvo poi ad inalzare chiese e monasteri per implorare il perdono dei loro brutti peccati!

Queste due convenzioni (molto significanti dopo la parentela coi Doria per i matrimoni delle figlie di Barisone e di Comita) non furono certamente estranee ai malumori, ai litigi ed alle sommosse, che susseguirono senza interruzione, tra pisani, genovesi, sardi, e sassaresi incrociati con gli uni e con gli altri.

Il Giudice Mariano ebbe tre figli: – Adelasia, che nel 1219 andò sposa a Ubaldo Visconti, possessore del Giudicato di Gallura, col quale da qualche tempo era in guerra; – Barisone, destinato a succedergli nel 1233; – e Benedetta, che andò sposa in Catalogna al Conte di Ampurias, morto senza successione.

Lasciando in pace quest’ultima, noi ci occuperemo brevemente degli altri due. Aggiungo solamente, che risulta da documenti, pubblicati di recente dal Ferretto, che il Giudice Mariano ebbe anche una figlia naturale che andò sposa a Nicolò Doria verso il 1231; e da queste nozze nacque quel Branca Doria parricida, messo all’Inferno da Dante Alighieri, e di cui parleremo più avanti.

Barisone III

Questo principe succedette al padre Mariano nel 1233; ma siccome era un fanciullo dodicenne (o decenne secondo il Besta) venne affidato alla tutela dello zio, e gli fu costituito un consiglio di reggenza, al quale soprastava la sorella maggiore Adelasia. Egli regnò solamente tre anni, poiché nel 1236 venne trucidato in una rivolta ordita dai sassaresi, sdegnati per il suo mal governo.

Varie sono le opinioni degli storici sulla causa vera di questo barbaro assassinio; poiché il cadavere di Barisone fu fatto a pezzi, e dato in pasto ai cani – come rilevasi da un documento di cui parleremo fra poco.

Le cronache antiche affermano, che Barisone morì dopo un regno di tre anni e tre mesi, trucidato dai ribelli mentre fuggiva verso la villa di Sorso, nella cui chiesa di S. Pantaleo venne seppellito. Il Bonazzi, e con più reticenza il Besta, supposero che autori del misfatto fossero i Doria, poiché la villa di Sorso era compresa nel territorio posseduto da quella potente famiglia genovese.

A me pare discutibile simile supposizione. La trama del delitto apparteneva al partito pisano in Sassari; e se è vero che in Sorso il cadavere venne seppellito, noi non dobbiamo escludere che l’assassinio sia stato commesso nelle vicinanze di quella villa, e precisamente nel monastero di San Michele di Plaiano, dove con frequenza si tenevano le Corone, e dove i Giudici riparavano fiduciosi. Non bisogna dimenticare che quelle terre appartenevano alla Romangia, donata un secolo innanzi a Itocorre Gambella, tutore e confidente del minorenne Gonnario – di quel Gonnario, amico dei pisani, che fu sì largo dispensatore di terre e schiavi per ricompensare i suoi favoriti, e per arricchire i monaci e le chiese del Logudoro.

Il Martini attribuisce l’assassinio di Barisone a un certo Rinaldo, curatore del giovane principe; il quale Rinaldo avrebbe agito per istigazione di Ugone Visconti, cognato dell’ucciso, per ambizione del trono che voleva occupare.

La ipotesi è logica, sebbene in parte fondata sul taccuino di Michele Gilj, appartenente alla collezione delle famose Carte di Arborea. Noto però, che il Martini poteva intuire il fatto dai documenti preziosi del Baille, che aveva a sua disposizione, e di cui si servì di recente il Solmi; escluso il Rinaldo, personaggio immaginario!

L’Angius suppose che i Giudici turritani risiedessero in quel tempo in Sassari; ma io credo che Barisone (se non fu ucciso nel Monastero di Plaiano) sia venuto a Sassari in villeggiatura estiva, precisamente come ci venne più volte il babbo (se vogliamo credere al Vico) – oppure che fosse partito da Ardara accompagnato dal suo stato maggiore, col proposito di prendere d’assalto la città. Escludo però la sua stanza in Torres, per le ragioni da me altrove esposte. Forse sostò colle sue genti a Cherchi, a Plaiano, o a Gèrito, e di là mosse verso Sassari, incontrandosi nelle soldatesche sassaresi (o negli assassini) che lo uccisero nella campagna di Sorso.

Non bisogna dimenticare che Barisone (o per esso il tutore e Adelasia), per rendere più stabile il dominio, o volendo sedare qualche tumulto, aveva nel 1233 confermato, in odio ai pisani, la convenzione già sottoscritta dal babbo Mariano e dal nonno Comita: convenzione revocata in seguito, dopo che i sassaresi si erano più volte ribellati. In Sassari prevalevano i sassaresi d’origine pisana, coi quali avevano fatto lega molti di parte genovese. Nota il Besta, che l’alleanza coi genovesi era stata preparata dall’Arcivescovo Obizzo, con soddisfazione dei Doria e con dispiaceri dei Visconti, e in conseguenza divenne cagione di discordia tra il partito di Genova e quello di Pisa.

Rileva il Solmi, dai documenti del Ferretto, che Belardo Carbone, curatore di Sassari (così è ricordato in un atto del 14 Aprile 1233 esistente nell’Archivio di Pisa) avendo forse assunto un’attitudine pericolosa per il Giudice, questi lo scacciò insieme a numerosi mercanti genovesi e pisani; i quali nel 1234 trattarono col Giudice per la loro riammissione.

Le rivolte dovettero essere frequenti, e cominciarono certamente dagli ultimi anni di regno di Mariano, e forse anche al tempo di Comita.

Oltre i due documenti segnalati dal Solmi, a proposito dei curatori di Sassari Michini e Carbone (da me altrove menzionati) noterò a conferma una carta dell’Archivio Baille, citata da Martini. In essa è detto, che il papa Gregorio IX, nel Maggio del 1231 (dietro i reclami del Priore di S. Leonardo di Bosue, per alcuni molini d’acqua tolti al pio istituto da parecchi abitanti di Sassari) erasi rivolto per la restituzione al Giudice di Torres (Mariano); ma, non ottenendo da costui alcun provvedimento, aveva incaricato il Vescovo di Ampurias per gli accordi opportuni.

Questa notizia è in relazione con altro atto dell’11 Ottobre 1231 (comunicatomi dal Besta) in cui è detto, che l’operaio di S. Maria di Pisa protestava contro le violenze fatte alla sua casa di Sassari, d’accordo col vescovo di Castro. Il curatore di Sassari, Gavino Piras, si scusa dicendo di aver ubbidito ai mandati del Giudice. Dobbiamo qui tener presente, che delle terre di Gallura era allora Giudice Ubaldo Visconti, marito di Adelasia e genero di Mariano, colui che nel 1230 aveva invaso il Giudicato cagliaritano.

Nella primavera del 1234 alcuni maggiorenti di Sassari, fra i quali Michele Zanche e Belardo Carbone, scappati a Genova, si erano presentati a Manuele e Percivalle Doria, per intercedere la concordia col Giudice turritano Barisone, dal quale imploravano il perdono, il rimpatrio e la restituzione dei beni loro sequestrati. Nel Settembre si trovavano sempre a Genova.

Ci dice il Besta, che anche il clero, per bocca del papa, protestava per le gravezze ond’era colpita la chiesa. Col pretesto di riparare a quei disordini, l’arcivescovo di Pisa Vitale si recò in Sardegna, dove invece seminò la zizzania, poiché tra lui e l’arcivescovo di Torres scoppiò una diatriba così violenta, che quest’ultimo finì per minacciare la scomunica a chi gli avesse ubbidito. Gli avvenimenti precipitarono, e non tardò a scoppiare la rivoluzione, il cui epilogo fu l’atterramento di palazzi e chiese, la caduta di molte vittime, e l’efferato assassinio del giovane Barisone.

Erano questi i preludi della rivolta del 1236, originati da politiche e private ragioni, fino ad oggi avvolte nell’ombra e nel mistero.

Una lettera del Papa

Parecchi anni or sono Vincenzo Dessì pubblicò per intiero, in un suo studio sugli Stemmi dei Giudicati, sette epistole di Gregorio IX, in gran parte già riassunte dal Bonazzi. Il Solmi le dice già note agli storici per il regesto offertone dall’Auvray nel 1890-91; ma io le credo note in gran parte da oltre due secoli addietro.

Riporto tradotta la prima epistola indirizzata all’arcivescovo di Pisa, incaricato di fulminare la scomunica contro gli autori dell’assassinio di Barisone, secondo la relazione fatta al papa dalla sorella Adelasia. La lettera, che ha data dell’11 Ottobre 1236, è la seguente:

«Se sono vere (si vera sunt) le cose che si dicono intorno alla città di Sassari (de commune ville Saçari) noi ci meravigliamo come la terra sostenga ancora i suoi abitanti, e come l’inferno non li abbia ancora inghiottiti. Vi comunichiamo quanto la nobile Donna Adelasia signora Turritana ci ha riferito, cioè: che il defunto di lei padre Mariano, Giudice Turritano, aveva affidato alle cure di un suo fratello naturale ed agli uomini della sua terra il proprio figliuolo Parasone minorenne, perché fosse educato. Gli abitanti di Sassari, insorgendo, inveirono contro di lui, lo uccisero barbaramente, ed alcuni di essi, dopo averlo tagliato a pezzi, diedero le carni in pasto agli animali (brutis animalibus). Oltre a ciò, essi commisero altre inaudite crudeltà, che non possiamo riferire, perché abbominevoli per chi le narra, e di orrore per chi le ascolta. Quei facinorosi distrussero anche dalle fondamenta i regi palazzi (regia quoque palatia) ed alcune chiese, servendosi delle pietre per costrurre le proprie case – devastando in tal modo e scialacquando i beni appartenenti alle chiese ed alla Nobile Donna Adelasia – e continuando, anche al presente, le devastazioni, senza alcun timore. Sebbene per punire sì enorme delitto sarebbe un castigo spirituale, pure noi, che a tutti dobbiamo rendere giustizia, non vogliamo che siano lesi i diritti della menzionata Donna Adelasia; epperciò ingiungiamo, se i fatti sono veri (si est ita) che il predetto Comune di Sassari desista dalla devastazione delle chiese e dei detti beni, dando alla Nobile Signora la dovuta soddisfazione; e vogliamo che voi, previa l’ammonizione, puniate i ribelli per mezzo delle censure ecclesiastiche».

In altra lettera dello stesso giorno, il papa rispondeva direttamente ad Adelasia; la quale gli aveva pur riferito, che da tempo il comune di Sassari e alcuni nobili della provincia turritana avevano congiurato contro il loro Signore Barisone, macchinando di togliergli la terra e la vita, dopo averlo inseguito di luogo in luogo; e fu allora (diceva Adelasia) che il giovane principe, dopo aver sconfitto i suoi persecutori, volle punirli col revocare la convenzione del 1233, togliendo loro i possedimenti ed i privilegi già concessi; e per tal fatto i sassaresi, insorti con più furore, lo avevano ucciso. Il papa confermò pienamente l’operato di Barisone (o meglio l’operato del tutore e della sorella dell’ucciso!).

La prima di queste epistole (trascritta per intiero dal Dessì nel 1905; riportata nel regesto dell’Auvray nel 1891; e riassunta dal Bonazzi nel 1900) era ben nota al Raynaldi fin dalla metà del secolo XVII; ed infatti ne diè un sunto ne’ suoi Annali ecclesiastici, all’anno 1236. Dal Raynaldi la tolse il Mattei nel 1758, il Gazano nel 1777, ed il Manno nel 1826. Quest’ultimo rilevò l’errore del Mattei, che scrisse sarzanensibus invece di sazarensibus (sassaresi), e l’abbaglio del Gazano, che, copiando il Mattei, asserì che Barisone era stato assassinato dalle truppe di Sarzana (!!).

La versione però del Raynaldi (sebbene attinta all’ Archivio Vaticano) passò inavvertita da molti, accolta quasi con diffidenza da parecchi, e taciuta dal Tola, che riportò solamente le querele di Adelasia e la scomunica inflitta agli autori del misfatto. La maggior parte degli storici si attennero alla notizia contenuta nell’antico Condaghe consultato dal Fara nel 1580, e in seguito perduto; cioè: che il giovine Barisone aveva regnato tre anni e tre mesi, e che, dopo morto, era stato seppellito in Sorso, nella chiesa di S. Pantaleo. Il Condaghe, o cronaca dei Giudici, che non parla di assassinio, si arresta al tempo del matrimonio di Adelasia con Enzo; e B. Baudi di Vesme è di parere, ch’era scritto da persona informatissima, vivente in quelli anni.

Dall’epistola di Gregorio IX risulta, che i sassaresi ne avevano fatto delle grosse; e Dio sa quali erano le altre porcherie riferite al papa da Adelasia, e che il papa non volle ripetere all’arcivescovo di Pisa, perché troppo orrorose e abbominevoli.

Non voglio dubitare dell’autenticità delle lettere pontificie, ma io dubito seriamente della veridicità della relazione di Adelasia, compilata per conto proprio, o per suggerimento di chi era interessato in quella brutta faccenda. L’eccesso di qualche ribaldo, o la ferocia di pochi malandrini che sfogarono una vendetta privata sul cadavere del giovine principe, servirono forse di pretesto per tessere una serie di bugie, esagerando con secondi fini le gesta e le ferocie dei rivoltosi sassaresi. Adelasia, sorella, tutrice e consigliera di Barisone, aveva bisogno (chi sa per qual peccato!) di cattivarsi la benevolenza e la protezione del papa, scagionando la perfidia del proprio fratello, che aveva revocata la convenzione da lui giurata. Il papa, dal suo canto (diventato parente di Adelasia dopo il matrimonio di costei con Ubaldo Visconti) aveva finto di prestar fede al racconto della sorella dell’assassinato, con lo scopo di abbindolarla per poter riaffermare i pretesi diritti della Santa Sede sull’isola di Sardegna. Tanto è vero, che, non contento della lettera scritta all’arcivescovo di Pisa, egli inviò subito alla reggia di Ardara il suo Cappellano come Legato pontificio, per estorcere dalla regina Adelasia e dal marito Ubaldo la dichiarazione che il Giudicato Turritano apparteneva alla Chiesa Romana. E la cosa era tanto losca, che lo stesso Legato proibì sotto pena di scomunica, a qualunque giudice o notaio, di pubblicare scritture che rivelassero i colloqui avuti e le convenzioni stipulate tra la Santa Sede, Adelasia e Ubaldo Visconti.

Sorvolo sul cadavere di Barisone fatto a pezzi e dato in pasto agli animali da pochi facinorosi; sarebbe difficile spiegare come lo abbiano sotterrato nella chiesa di S. Pantaleo in Sorso, dopo che i cani od i porci lo avevano digerito! Forse i pietosi avranno strappato dalla bocca dei cani le ossa rosicchiate del giovane principe, sparse qua e là, per le vaste terre della Romangia e della Fluminaria!

Mi fermerò piuttosto sulla seconda parte dell’epistola del papa, dove Adelasia gli riferisce che i ribelli sassaresi distrussero dalle fondamenta (!) i regi palazzi e alcune chiese, per costrurre con le pietre ed altri materiali le proprie case. Tutto questo è una fiaba, è inverosimile, è incredibile! Lo stesso papa non ci credeva; e si desume dalla stessa epistola, in cui più volte ripete: se le cose son vere! (si vera sunt, si est ita!); e ben a ragione egli fece le meraviglie che l’inferno non avesse ancora inghiottito i ribelli sassaresi – quasi prevedendo che Dante Alighieri avrebbe più tardi mandato all’inferno uno di essi: quel Michele Zanche, di cui fra poco parleremo.

Ma questi regi palazzi, dove, e quali erano? Se erano quelli delle ville vicine, dove i Giudici tenevano le corone, dobbiamo supporli vere catapecchie a pian terreno; se poi erano dentro città dobbiamo ammettere che i Giudici realmente avessero stanza in Sassari.

Quanto all’atterramento di questi regi palazzi e delle chiese dalle fondamenta, allo scopo di servirsi delle pietre per costrurre le proprie case, sono tutte cose che non meritano neppure la discussione. Io non voglio credere che mancassero le pietre. Sarebbe far torto al Padre Gemelli, il quale scrisse che Sassari deve il suo battesimo all’abbondanza dei sassi!

Qualche pietra caduta dal palazzo reale di Sassari, e portata a casa da qualche poveraccio; o i ruderi di qualche chiesa campestre, coi quali qualche misero agricoltore aveva chiuso la sua tanca (come avviene anche oggidì) avranno dato pretesto ad Adelasia, o a chi per essa, di tessere il romanzo fantastico che doveva impressionare Gregorio IX.

E’ strano il silenzio dello scrittore delle antiche cronache sarde, il quale non accenna a questi gravi fatti accaduti nel suo tempo. Strano il silenzio del Tola che cita il Raynaldi per la scomunica, e non parla del principe fatto a pezzi e dato ai cani. Più strano il Raynaldi e gli altri scrittori che attinsero dall’Archivio Vaticano; i quali parlano del cadavere squartato, ma tacciono delle chiese e dei palazzi reali atterrati per farne case. E dire che le quattro notizie (compresa la scomunica) sono contenute nella stessa epistola del papa Gregorio. E ciò vuol dire, che nessuno vi prestò cieca fede, o non l’aveva letta!

Eppure l’efferato assassinio era vero, e l’orrorosa notizia trovò una eco in Francia. Apprendiamo dal Besta, che il cronista francese Alberico delle Tre Fonti ebbe parole di pietoso rimpianto per il figlio di Mariano, che quindicenne appena era stato dai suoi crudeliter occisus et membratim detruncatus et mutilatus (di cani non parla). Il cronista di Francia continua, narrando che dopo la morte di Barisone fu fatto Giudice un tal Baldino (Ubaldo) pisano, sposo alla sorella. Il documento riferito dal Besta è interessantissimo, perché conferma il barbaro assassinio, ignorato o taciuto dai cronisti sardi e italiani del tempo, compreso Dante, che forse non l’avrebbe passato sotto silenzio.

Ma donde attinse il cronista francese la notizia? La sola Adelasia aveva informato il papa; e il papa ignorava tutto – anche che Mariano avesse lasciato un figlio minorenne, affidato alle cure di uno zio bastardo!

Un’ultima osservazione. Quasi tutte le epistole pontificie, trascritte dal Dessì, hanno la stessa data: 10 ed 11 Ottobre del 1236. Parrebbe dunque, che l’assassinio di Barisone sia avvenuto nel Settembre (e questo è probabile, perché l’atto sottoscritto da Ubaldo nella chiesa di S. Pietro ha la medesima data). Ora sappiamo, che appena assassinato Barisone, la sorella Adelasia si querelò col papa, il quale mandò subito il suo Cappellano ad Ardara per consolarla. Ivi furono sottoscritti gli atti tra l’inviato pontificio, Adelasia ed Ubaldo; e quattro di questi atti hanno la data del 3 Marzo 1236 – cioè, sei mesi prima che Barisone fosse ucciso. Da qui non si scappa: o sono false le date dell’epistole del papa, o sono false le date degli atti sottoscritti ad Ardara (riportati fedelmente dal Muratori e dal Tola).

Io sapeva da B. Baudi di Vesme che gli scrivani di Innocenzo III non badavano nelle lettere all’ordine cronologico; ma non sapevo che gli scrivani di Gregorio IX mettessero a capriccio le date, volendo quasi che Adelasia (non ancora regina) piangesse un fratello vivo!

Questa mia nota avvalora quanto scrisse il suddetto Baudi; il quale ritiene i Regesti Vaticani compilazione della Cancelleria pontificia, non veri minutari; ed ammette che parecchie Bolle in essi contenute furono spostate anche di parecchi anni. Attenti, dunque, alle date, e atteniamoci ai soli fatti!

Adelasia di Torres

Non appena assassinato Barisone nel 1236, la sorella Adelasia fu destinata a succedergli; e così il marito, Ubaldo Visconti |di nazione pisano), si trovò al possesso dei due Giudicati di Gallura e di Torres.

Primo atto di Adelasia (come abbiamo già detto) fu quello d’informare il papa dei particolari del fatto; ed il papa, dopo aver incaricato l’arcivescovo di Pisa di fulminare la scomunica agli autori del delitto, inviò il suo cappellano in Ardara; il quale riuscì a far sottoscrivere parecchi atti, coi quali Adelasia ed Ubaldo dichiaravano di riconoscere il regno turritano come appartenente alla Santa Chiesa.

Oltre di ciò, in nome del papa, il Legato pontificio pretese ed ottenne da entrambi il forte castello di Monteacuto; e tanto Adelasia, quanto il marito Ubaldo, quali umili penitenti, si sottomisero ai voleri dell’inviato del papa, il quale prolungò la sua dimora in Ardara per oltre un anno.

Risulta da un altro atto, che Ubaldo erasi rifiutato a prestar giuramento di fedeltà al papa, poiché egli lo aveva già prestato al comune di Pisa; però dichiarava, ch’era disposto ad ubbidire, se il  papa lo avesse prosciolto dal giuramento da lui già fatto ai pisani. Questa circostanza avvalora le mie concetture, e dimostra che l’ambizione del pontefice era grande quanto l’ambizione del principe!

Suppone il Besta, con la scorta dei documenti, che i ribelli avevano fatto centro Sassari della rivoluzione, resistendo anche ad Adelasia, quando essa volle prendere possesso del Giudicato, dopo la morte del giovine fratello. Il marito Ubaldo, per reggersi, dovette assoldare milizie, e tra gli altri si rivolse al Conte Rodolfo di Capraia, il quale lo aveva aiutato in Cagliari nel 1230. L’opposizione era sorretta da certi cittadini genovesi, che, con 800 armati, erano corsi in aiuto del comune; e non vi è ombra di dubbio (aggiunge il Besta), che della rivolta erano stati consci o complici i Doria, sebbene Adelasia fosse ricorsa ai genovesi per aver danari.

Ubaldo, trentenne appena, morì nei primi del 1237, non in Siligo, come erroneamente fu detto, ma in Silique, cioè nella villa di Sirchi, dove nel 27 Gennaio dettò il suo testamento, lasciando i suoi domini di Gallura ed Arborea al cugino Giovanni Visconti, e tacendo del regno turritano, perché sapeva che spettava di diritto alla consorte. Noi non sappiamo perché Ubaldo erasi allontanato da Ardara, se venne solo o con la moglie a Sirchi, e se morisse di morte naturale, o di morte violenta.

Rimasta vedova e signora del Giudicato, Adelasia fu presto in balia dei Doria, la cui fortuna cresceva sempre, mentre Genova era alleata con l’imperatore Federico II. La Giudicessa fissò coi Doria un accordo, stabilendo le delimitazioni dei loro possessi nella Romangia, Fluminaria, Nurra e Nulauro; ed allo stesso tempo ebbero luogo altre convenzioni tra lei e il comune di Sassari, il quale ebbe così ben delimitato il territorio, entro cui, escluso l’intervento di ogni autorità, potè liberamente esercitare la sua giurisdizione (Besta).

Non appena si seppe che Adelasia era vedova, il papa, con lettera del 30 Aprile 1237, le propose di passare in seconde nozze con Guelfo dei Porcari, ligio alla Santa Sede; e, quasi allo stesso tempo, l’imperatore di Germania le offrì Enzo, figlio bastardo, avuto da una sua concubina. Scopo dell’imperatore era quello di privare la Corte romana della supremazia che arrogavasi sulla Sardegna.

Raggirata dai Doria, che le consigliavano di accettare la proposta di Federico II, Adelasia si affrettò a dar la mano di sposa ad Enzo, già in fama di valoroso in armi e nel comporre pregevoli poesie.

Narrano le cronache del tempo, che Enzo, dopo pochi mesi di matrimonio, maltrattò indegnamente la moglie, le tolse il comando, e finì per rilegarla nel castello del Goceano. Poco dopo egli abbandonò l’Isola, chiamato dal padre Federico per combattere in Italia; e lasciò le redini del Giudicato turritano alla madre Bianca Lanza (concubina di Federico II, venuta col figlio in Sardegna) ed al suo siniscalco Michele Zanche, che nominò suo Vicario.

Abusando della fiducia di Enzo, Michele Zanche (secondo la leggenda) sposò Bianca Lanza, di cui era stato drudo; e riuscì ad accumulare vistose ricchezze per mezzo di frodi, d’inganni e di baratterie che lo resero famoso in Italia – tanto che Dante lo immortalò in parecchie cantiche della sua Divina Commedia.

Morto Enzo a Bologna nel 1272 (dopo 22 anni di prigionia) Michele usurpò intieramente il potere sovrano; e governò a suo talento l’intiero Giudicato di Torres.

La figlia di Michele Zanche fu tolta in moglie dal genovese Branca Doria; il quale un bel giorno (nel 1275) invitò a desinare il proprio suocero, e lo pugnaló a mensa coll’aiuto di un suo prossimano, o parente.

Coll’uccisione di Zanche (narrano gli storici) ebbe fine la successione dei Giudici turritani e sottentrati i Doria e i Malaspina nel possesso di diverse terre del Logudoro, mossero guerra alla città di Sassari, divenuta popolosa e centro di molta importanza.

Fin qui la storia di Barisone, di Adelasia e di Zanche, ripetuta da tutti gli storici sardi, e tessuta sulle basi delle antiche leggende, delle cronache sarde, e delle notizie dateci dalla maggior parte dei commentatori di Dante. Dal Fara al Vico, e dal Gazano a Manno ed a Tola, codeste storielle non subirono che lievissime modificazioni.

Ma dopo l’anno 1894 la storia di Adelasia e della libertà del Comune sassarese subì radicali varianti, dovute a nuove ricerche e a studi nuovi, fatti per cura di valorosi scrittori di cose sarde, da me più volte citati.

Esporrò brevemente le diverse varianti che si succedettero da un decennio a questa parte; le quali varianti, se nell’insieme accrescono le tenebre e il mistero dei fatti avvenuti, lasciano nei particolari largo campo a conghietture nuove, assai più logiche di quelle finora accettate.

Aggiunte e correzioni

Il Prof. Tomaso Casini, nel suo pregevole studio pubblicato nella Nuova Antologia del Luglio 1895, introdusse molte varianti nella storia di Adelasia e del Comune di Sassari, con la scorta di nuovi documenti. Noterò le principali:

1°) Il Casini dice che bisogna radiare dalla storia sarda il personaggio di Bianca Lanza (la concubina di Federico II), poiché risulta che costei, già morta nel 1248, non fu madre di Enzo, ma di Costanza e di Manfredi, il vinto di Benevento. La madre di Enzo fu un’altra concubina dell’imperatore – una tedesca di stirpe nobile secondo alcuni, e di bassi natali secondo altri.

2°) Partito Enzo per l’Italia, e lasciato in Sardegna per suo Vicario il sardo (e non pisano) Michele Zanche, questo non fu drudo né marito di Bianca Lanza madre, ma bensì di Adelasia, moglie del suo signore, dalla quale nacque la figlia che fu impalmata dal Branca Doria. E questa versione venne avvalorata dai due più antichi commentatori di Dante, da nessuno finora creduti.

3°) Sciolta dalla relegazione e dalla scomunica, Adelasia riprese il titolo di regina di Torres e di Gallura, e il libero esercizio della signoria. Gli storici ignoravano che il papa, verso il 1243, aveva sciolto il matrimonio dell’adultero Enzo con Adelasia, e costei potè passare a nuove nozze col famoso barattiere Zanche, nello stesso modo che Enzo, l’anno precedente, potè togliere per seconda moglie una nipote del tiranno Ezzellino Romano.

4°) L’assassinio di Zanche, per mandato dei Doria, non era avvenuto nel 1275 (poiché Branca Doria in questo anno era un bambino di cinque anni) ma si consumò tra il 1287 e il 1294, e forse poco prima che la città di Sassari si collegasse colla repubblica di Genova.

Riportando la storia di Bianca Lanza. e la intimità sua con Michele Zanche, il Casini scrive: «- Tutto questo, non dico un bel romanzo, ma è un brutto pasticcio; ed io mi ci fermo per sgombrare la via da un errore, ond’è sfigurata la narrazione delle vicende turritane durante la prigionia di Enzo».

In un mio volume col titolo Adelasia di Torres (pubblicato in Sassari nel 1898) io confutai le varianti del Casini, ammettendole quasi tutte ad eccezione dell’assassinio di Michele Zanche, voluto dal dotto scrittore nel 1294, anziché nel 1275. Dimostrai con diversi dati, che l’età dei diversi personaggi distruggeva l’asserzione del Casini. Dei Branca Doria ve ne furono certo parecchi, né dobbiamo rovesciare un periodo storico, abbastanza logico, con un possibilissimo errore di omonimia.

Correzioni modificate

Nella dotta prefazione al Condaghe di S. Pietro di Silki (pubblicato nel 1901) il Dottor Giuliano Bonazzi introdusse anche lui nuove varianti nella storia di Adelasia e di Sassari, ed io riassumo le più interessanti. Ecco quanto afferma lo studioso Bibliotecario, attingendo da molti scrittori moderni, e specialmente dall’epistolario di Gregorio IX, da me altrove accennato.

Quando nel 1233 il Giudicato turritano venne a mani del dodicenne Barisone, sotto la tutela dello zio Ithocor de Serra, Sassari insorse e lo perseguitò. Sulle prime i partigiani del Giudice ebbero il sopravvento; in seguito i sassaresi s’impadronirono di Barisone, che da pochi facinorosi fu trucidato, e il suo cadavere fatto a pezzi e dato in pasto agli animali.

I nobili turritani, rimasti fedeli all’antica dinastia, chiamarono a succedergli la sorella Adelasia, moglie di Ubaldo.

Venuti a prender possesso del Giudicato, si trovarono di fronte minaccioso il Comune di Sassari, che aveva chiamato in aiuto vari cittadini genovesi e pisani, ed assoldato circa 800 armati. Per fronteggiare le difficoltà, Ubaldo prese al soldo l’avventuriere Rodolfo di Capraia; il quale, dopo avere invaso il Giudicato di Cagliari ed esserne respinto, erasi rifugiato nel Logudoro. Ubaldo gli avea promesso 2.000 libbre di danari genovesi, obbligandosi in solido con la moglie; ma non potendo pagare siffatta somma, ei ricorse al papa, il quale scrisse ad Adelasia che nulla pagasse a Rodolfo, perché costui aveva invasa la Sardegna senza riguardi alla Santa Sede…

Temendo di perdere la villa di Sassari, Ubaldo scese a patti coi ribelli, e con atti pubblici accordò franchigie troppo larghe. Ciò non piacque alla moglie Adelasia, la quale ricorse al papa; ed il papa ingiunse alla regina di ritenere nulli quelli atti perché estorti con la violenza, ed accordati senza la sua volontà.

Il giovine Comune di Sassari non si impressionò per la minaccia del papa, poiché era già saldo nella sua organizzazione e nella sua libertà…

Nel mese di Ottobre del 1238 Enzo venne in Sardegna e vi sposò Adelasia. Dopo non più di nove, o dieci mesi, ripartì per la Lombardia, e vi lasciò Vicario uno dei cavalieri del suo seguito chiamato Corrado Trinchis, come si deprende da un atto del Condaghe di S. Pietro di Sirchi.

Dopo la partenza del marito Enzo (continua il Bonazzi) Adelasia erasi ritirata nel castello del Goceano, seguita da un piccolo nerbo di fedeli che le prestavano premurosa assistenza e difesa; come risulta da una lettera del papa Innocenzo IX all’arcivescovo di Arborea, in data 26 Ottobre 1243.

La regina scomunicata, nell’ambascia dell’inutile attesa del marito, implorò dal papa l’indulto, che gli venne concesso lo stesso anno, mediante la ricompensa spontanea di alcune terre della villa di Sarache in Gallura, da lei donate al Priore di Santa Maria.

Così nel Goceano, intorno alla regina, erasi costituito come un piccolo Stato guelfo separato dal resto del Giudicato. Invecchiando ella sentì forte gli scrupoli delle sue offese alla Chiesa, e per scindere i legami che l’avvincevano ad Enzo scomunicato, nel Giugno del 1246 chiese ed ottenne il divorzio.

Il Bonazzi nega assolutamente la tresca e le seguite nozze fra la regina Adelasia e Michele Zanche, del quale mette in dubbio il Vicariato regio, e quasi la esistenza. Ci dice infine, che l’ultimo ricordo della infelice regina si ha nel 1255, come si ricava da una lettera del papa, che in quell’anno la dice regnante. Alla morte di Adelasia (avvenuta fra il 1255 e il 1262) i sassaresi si erano impadroniti del suo castello di Goceano – e con quella regina (ultima della famiglia dei Lacon) erasi disciolto il giudicato turritano.

Dopo le varianti del Bonazzi, noi abbiamo quelle di Arturo Ferretto, pubblicate nel Codice Diplomatico delle relazioni fra la Liguria e la Lunigiana ai tempi di Dante (1901-1903). Siffatte notizie, attinte in gran parte da atti notarili custoditi nell’Archivio di Stato di Genova, mettono certamente la storia del Logudoro e di Sassari in un cammino più sicuro. Riassumerò le principali, commentandole, nelle rubriche seguenti.

I Doria nel Logudoro

Anzitutto il Ferretto ci dà una nuova e interessante genealogia della famiglia Doria in rapporto col Logudoro, dichiarando erronee tutte le altre finora pubblicate.

Dopo aver accennato a diversi antenati dei Doria, egli comincia da Andrea e Nicolò, che dimostra esser stati fratelli.

Andrea Doria aveva sposato nel 1180 Susanna Lacon, la figlia di Barisone II Giudice di Torres e da questa unione ebbe origine la parentela dei Giudici turritani colla potente famiglia genovese.

Nicolò Doria (figlio del precedente) nel 1188 intervenne al trattato di pace fra i genovesi ed i pisani; nel 1198 prese parte al Parlamento che approvò la convenzione fra Ugone di Arborea e il Comune di Genova; egli fu Console della sua patria nel 1201; fu quegli che nel 25 Luglio 1202 aveva stipulato a Vercelli, per mandato del Giudice turritano Comita II, i patti per matrimonio di Maria (figlia del detto Comita) la quale andava sposa a Bonifacio Marchese di Saluzzo. Nel 6 Gennaio 1210, lo stesso Nicolò Doria, alla presenza di diversi personaggi da noi altra volta citati, promette al menzionato Giudice Comita, che il figliuolo Manuele avrebbe tolta come moglie Giorgia, figlia dello stesso Comita. Seguono altre cariche ed onoranze di Nicolò, che io ometto perché poco interessanti per la nostra storia. Manuele Doria (figlio del suddetto Nicolò) tolse in moglie nel 1210 la figlia del Giudice Comita, come più sopra abbiamo notato. Questa notizia, finora ignorata, ha una massima importanza per la storia del Giudicato turritano. A istanza dello stesso Manuele il cognato Mariano di Torres rinnovava nel 7 Settembre 1224 le convenzioni coi genovesi, promettendo all’ambasciatore Pietro Doria di non dar ricetto ai pisani ne’ suoi stati.

Figlio di Manuele fu un altro Nicolò Doria, nato circa l’anno 1211 dalle nozze di Giorgia figlia del Giudice Comita. Questo Nicolò, verso il 1231, ebbe in moglie Preziosa, sua cugina in primo grado, perché figlia bastarda del Giudice turritano Mariano II, e sorella quindi di Adelasia, regina di Gallura e di Torres. (Anche questa notizia è nuova e preziosissima, perché ci rivela le relazioni intime tra i Doria ed i Giudici turritani).

Dalle nozze di questo secondo Nicolò Doria con la figlia bastarda di Mariano di Torres nacquero sei figli: cioè il primogenito Mariano, Branca, Babilano, Loterengo, Rizzardo e Bonifacio.

Tralasciando gli altri, ci occuperemo del secondogenito Branca Doria, che fu appunto il famoso assassino del proprio suocero Michele Zanche – l’uno e l’altro messi all’inferno da Dante Alighieri.

Dunque Branca Doria fu figlio di Nicolò Doria e della bastarda del Giudice Mariano, sorella di Adelasia; ebbe a nonno Manuele Doria, ed a bisnonno il famoso Nicolò Doria, Console di Genova nel 1201.

Branca Doria (che Ferretto dice nato nel 1233) sposò verso i primi del 1253 Catterina, figlia di Michele Zanche – quando costui soggiornava a Genova (come il Ferretto suppone); ma io credo che le nozze si effettuassero nella città di Sassari, o in qualche castello della Nurra o della Romangia.

Dalla figlia di Michele Zanche, Branca Doria ebbe quattro figli – primogenito dei quali quel Bernabò Doria, ch’ebbe molta parte negli avvenimenti della Sardegna e di Genova.

Noti il lettore quanta nuova luce diffondono le notizie del Ferretto sul periodo tenebroso della storia di Sassari e del Logudoro. Anzitutto sono messi in iscena i personaggi di Michele Zanche e Branca Doria, di cui (secondo il Bonazzi) non erasi mai fatto cenno nella selva di documenti prodotti in luce in questi ultimi anni.

Rivolte contro i Giudici

Abbiamo rilevato (dai cenni su Comita e Mariano) i reclami del Priore di S. Leonardo di Bosue contro alcuni sassaresi, che nel 1231 tolsero al pio istituto diversi molini; egli erasi rivolto al papa, dopo che il Giudice non volle prendere alcun provvedimento al riguardo.

Così pure abbiamo appreso le proteste fatte nello stesso anno dall’operaio di S. Maria di Pisa, contro le violenze usate alla sua casa di Sassari, per mandato del Giudice Mariano.

Appigli e screzi cominciarono dunque a verificarsi negli ultimi anni del regno del menzionato Giudice.

Il Tola a noi dice, che nel 1233 una rivolta era scoppiata in Torres, dove alcuni pisani avevano inviato armi e munizioni. (Per Torres deve intendersi Sassari, poiché risulta da documenti che questi due nomi si alternavano e si confondevano con frequenza).

Il Ferretto conferma lo stesso fatto con un documento del 19 Novembre 1235, in cui si parla di parecchi individui che nominarono procuratore Gandolfo Scotto, col mandato di riscuotere quanto loro doveva il Comune di Sassari per munitione et defensione de Sassaro.

Altra notizia di somma importanza è quella che ci dà lo stesso Ferretto (tratta da atto notarile), e che si riferisce a due anni prima dell’assassinio del giovane Barisone, succeduto al Giudice Mariano nel 1233. La riporto per intero;

«1234 (15 Settembre). – Giacomo Remenato, Gantino de Seu, Berardo Carbone e Gantino Mafero, per essi e per i soci Michello Zancha, Albertino Salario Loerio, Gantino Pinna, Ugolino Remenato, Giacomo, Michele Carbone, Pietro Moeto, Barisone Seu, Pietro suo fratello, Gantino… Ranuccio (?) Ligastro, Gerardino Pisano, Comita Moeto e Giovanni Pinna costituivano ambasciatori Manuele Doria e suo nipote Percivalle figlio di Jugone, col mandato di presentarsi al cospetto di Barisone III Giudice turritano, e far pace con lui; con preghiera altresì che il Giudice restituisse loro i beni e le merci sequestrate, e non offendesse nessuno per ciò che avevano perpetrato per il passato in suo danno. Per miglior garanzia si doveva redigere un pubblico strumento, munito del sigillo del Giudice, essendo presente l’arcivescovo turritano (Opizzo da Genova), i Vescovi, i Rettori delle Curatorie e gli uomini liberi di detta terra. L’ambasceria veniva eletta in Genova nella casa di Daniele Doria fratello di Barisone, essendo testimoni il Giudice Guglielmo Pittavino, Gavino Doria, figlio di detto Daniele, e Nicoloso Doria figlio di detto Manuele e padre di Branca Doria».

Nota il Ferretto, che le fila della rivolta turritana, capitanata forse da Michele Zanche (esule poi a Genova nel 1253) non si smagliano e l’epilogo della ribellione fu l’assassinio del giovane Barisone nel 1236. – Mancando la discendenza mascolina, Zanche preparavasi il terreno in Sardegna, dove i Doria continuavano ad acquistare favori e terreni da per tutto.

Il 14 Settembre 1235 Percivalle e Manuele Doria promettevano di dare Milauro (o Nulauros) a Rufino de Prato de Merloxino, con terra da lavorare, due buoi, trenta pecore, tre porci, casa da abitare, biade e legumi da seminare, col patto di riscuotere la quarta parte dei frutti…

Accenna pure il Ferretto ad una solenne donazione, o forse vendita necessaria, fatta a Manuele Doria ed ai suoi consorti da Adelasia di Gallura, subentrata nei diritti dell’assassinato fratello nel giudicato Turritano.

Pare che la regina Adelasia non nuotasse allora nelle agiatezze, poiché per supplire alle spese fatte da Giacomo di Portovenere (il quale con una galera aveva portato un frate alla foce di Roma) toglieva a mutuo – come risulta da un atto notarile – alcune somme da un notaio genovese, che le reclamava il 9 Febbraio del 1245.

Non vi ha dubbio: i notai in quel tempo facevano gli strozzini. Tutti si davano al traffico, e risulta (scrive il Ferretto) che la politica non distoglieva Manuele Doria dal commercio, come tanti e tanti patrizi d’allora che accumulavano ricchezze. Manuele, per esempio, con atto notarile del 9 Settembre 1237, negoziava una partita di lupi. (Che merce singolare! Certo non li avea fatti cacciare in Sardegna!).

Il lettore si sarà persuaso, che la congiura per l’assassinio di Barisone ha fila misteriose; ma non fu certo con l’intervento dei Doria che il delitto venne consumato; esso si effettuò per mezzo dei pisani, amici e complici di Michele Zanche, di cui parleremo a lungo altra volta.

Varianti su Adelasia

Il Ferretto conferma la narrazione del Casini a proposito della tresca della regina Adelasia con Michele Zanche, che ella in seguito sposò dopo il divorzio chiesto ed ottenuto dal papa.

Adelasia era già sciolta dai vincoli matrimoniali nel 1243, e mentre Enzo era in carcere, ella aveva assunto all’onore del suo letto e del suo regno il Vicario del suo secondo marito, ormai morto per lei, dopo che il papa aveva sciolto il disgraziato connubio, e che dalla detta unione era nata una figliuola, la quale era già da marito, poco dopo la morte di Enzo. Il Besta nota, che nel 1243 Adelasia si riaccostò al Pontefice, il quale la faceva assolvere dall’arcivescovo di Arborea con delega del 23 Ottobre – due anni prima che chiedesse il divorzio.

Gli amori dovettero certamente cominciare quando nei primi mesi del 1238 Adelasia, trentenne, rimase vedova del suo primo marito, e riaccendersi dopo il secondo matrimonio con Enzo, il quale non rimase in Sardegna più di otto o nove mesi.

Il matrimonio di Branca con Catterina, figlia di Michele Zanche, avvenne intorno al 1253; quindi la nascita di Catterina deve necessariamente fissarsi a non più tardi del 1238. (Se così fosse, Adelasia era già incinta quando andò sposa al re Enzo, e si spiegherebbe perché costui l’abbandonò, relegandola nel castello del Goceano, come la tradizione ed il Condaghe affermano!). «O Adelasia assunse Michele Zanche agli onori del suo letto innanzi che rimanesse vedova del suo primo marito (Ubaldo Visconti), o la Catterina è figliuola di altra donna». Così afferma il Ferretto; e si basa sul commento di Dante fatto dal frate Giovanni da Serravalle; il quale chiama Zanche magnus baractarius valde astutus, dicendo che costui, quando sposò la madre di Enzo, aveva già una figliuola che diede in moglie a Branca Doria di Genova, dal quale fu poi ucciso per averne i beni. Il commercio è chiaro: Zanche non sposò la favolosa Bianca Lanza, ma la regina Adelasia, avendo prima concesso la figliuola che diggià aveva a Branca.

E, in conclusione, i primi commentatori di Dante avevano riferito il vero. Tanto Pietro, il figlio del poeta (nel 1323), quanto l’Ottimo, lo dissero chiaro: «Don Michel Zanche tenea allora il Giudicato per la moglie, la quale era prima stata moglie del Giudice di Logudoro… et esso Zanche avea una figliuola la quale aveva data per moglie a Messer Branca».

Anch’io, nel mio libro Adelasia di Torres, che pubblicai nel 1898 (sei anni prima che il Ferretto pubblicasse i preziosi documenti) notai che Adelasia, vivente il marito, aveva avuto una figlia da Michele Zanche, legittimata molti anni dopo, non appena ottenne dal papa l’implorato divorzio.

Michele Zanche sassarese

Una notizia nuovissima a noi dà il Ferretto: – notizia che certamente non farà troppo piacere ai miei concittadini. Michele Zanche (che da taluni si metteva in dubbio, e da altri si ritenne pisano) era un sassarese in corpo e in anima, come risulta da diversi atti notarili esistenti nell’Archivio di Stato di Genova.

Non dobbiamo certo gloriarci che sia nato in Sassari il più celebre barattiere d’Italia; ma non dobbiamo neppure dolerci del tristissimo acquisto fatto, considerando che Dante Alighieri ha voluto immortalarlo cacciandolo nel suo Inferno assieme a frate Comita, altro sardo nativo di Gallura.

Il dottor Bonazzi, dopo aver combattuto alcune asserzioni del Casini, scrive cosi:

«Giunti a questo punto ci domandiamo la parte che occupa in questo periodo di storia Michele Zanche, col silenzio assoluto della storia. Ci sembra dubbio che egli abbia mai rappresentato l’autorità regia nel giudicato… Un solo Vicario finora noi conosciamo: Corrado Trinchis… Difficilmente ad una carica sì importante sarebbe stato nominato un sardo… È assurdo che Zanche abbia continuato le sue funzioni di Vicario nel 1275… Il suo matrimonio con Adelasia non può essere che un cattivo romanzo… Quindi a noi pare che Zanche fosse un ufficiale secondario, un volgare truffatore sfuggito alla storia, ma non alle leggenda popolare tramandataci da Dante…».

Così il Bonazzi nel 1901; ma pur troppo ora conosciamo gli atti notarili rivelatici dal Ferretto, i quali distruggono completamente le asserzioni del dotto bibliotecario di Roma.

Abbiamo altrove riportato il sunto di un atto notarile del 15 Settembre 1234, nel quale sono nominati i soci che a nome di Michello Zancha, e di altri elessero per ambasciatori Manuele Doria e il nipote Percivalle, incaricati di presentarsi al Giudice Barisone (assassinato due anni dopo) per proporre la tregua e la pace: – atto pur firmato da Nicoloso Doria, padre di quel Branca che doveva più tardi assassinare il suocero Michele Zanche. (Ricordiamoci che il minorenne Barisone era sotto la tutela dello zio e di un consiglio di famiglia, a cui sovrastava la sorella Adelasia).

Nel 1253 Nicolò Doria accoglieva in Genova Michel Zanca de Sassaro. Il Ferretto vuole che esso riparasse colà come esule, ma io credo vi sia stato chiamato per qualche losco affare).

Nello stesso anno si ha un nuovo documento del Ferretto, dal quale risulta che Michele Zancha doveva dare 70 lire a certo Manentino Manente; il quale, avendone ricevuto una parte il 16 Gennaio del detto anno 1253, nominava suo procuratore un certo Milano da Portovenere per riscuotere il saldo dal barattiere sassarese. (Ciò prova che Michele Zanche non era meno povero di Adelasia, e che egli faceva frequenti viaggi per imbrogliare i genovesi).

Michele Zanche, verso il 1253, concedeva in moglie la propria figliuola Catterina a Branca Doria – figlio di quel Nicolò che aveva sposato una figlia bastarda del giudice Mariano, padre questo di Adelasia, che aveva prima trescato con Zanche, e del quale fu più tardi moglie. (Che lo Zanche fosse un personaggio d’importanza, e non un ufficiale secondario come lo vorrebbe il Bonazzi, lo desumiamo dalla parte da lui presa nell’ambasciata a Barisone nel 1234 – più ancora dall’essere egli il suocero di Branca, appartenente ad una delle più distinte famiglie di Genova).

L’assassinio di Zanche, secondo il Ferretto, avvenne proprio nel 1275 – e combina colla morte di Giovanni Visconti Giudice di Gallura. Esso venne perpetrato prima del 2 Settembre di detto anno, poiché in tal data si ha un atto, dal quale risulta che Brancadoria era a Genova, presente ed accettante alla nomina di arbitro insieme a Nicolino de Volta.

Michele Zanche era sassarese – come tale lo ritenni e lo descrissi nel più volte citato mio libro Adelasia di Torres. La mia congettura fu principalmente basata sopra una tradizione popolare, ancor viva nei nostri vecchi. La casa dei Satta in Sassari (testè demolita) era da tutti chiamata la casa di Michele Zanche – denominazione conservata fino alla metà del secolo scorso, per prendere poi l’altra di casa del tesoro, per gli scavi ivi fatti dai cercatori di danaro nascosto. Vuole altresì la tradizione, che Zanche possedesse in Sassari altre due case: quella di fronte alla chiesa di S. Andrea (oggi proprietà degli eredi del comm. Campus); e quella di Satta Minutili in Campo di Carra (oggi appartenente al prof. Soro Delitala). Verso la metà del secolo XVII si rinvenne una vecchia pergamena (opera certamente di qualche frate) la quale indicava che in Monte oro, in vicinanza di Sassari, vi si trovava un tesoro, nascosto ai tempi di Michele Zanche.

Risulta dai nuovi documenti del Ferretto, che la famiglia Zanca era molto estesa in Sassari, e che diversi membri di questo nome praticavano in Genova per affari. Da un atto de1 4 Agosto 1302 rileviamo, che in tal giorno si trovavano a Genova un Guantino Zancha ed un Nicolò Corso, entrambi de Sassaro, per ragioni di commercio. Ed io aggiungo che anche nel Condaghe di S. Pietro troviamo un Gantine Thanca (forse lo stesso qui sopra nominato) più un Mariane Thanca, un Comita Thanca Lutas, e un Janne Thanca. Eppure, fino a ieri, il nome di Michele Zanche non si leggeva che nella Commedia di Dante! Ciò valga a dimostrare che il sommo poeta fiorentino non ha inventato nomi storici – e che le leggende possono bensì alterarsi nel corso dei secoli, ma conservano sempre un fondo di vero.

Corrado Trinchis

Che diremo di costui, che il Bonazzi vorrebbe sostituire a Michele Zanche, come Vicario del re Enzo?

Per avvalorare Messer Corrado Trinchis (che vuolsi connazionale di Enzo, ed uno dei cavalieri del suo seguito) il Bonazzi chiama a testimonianza il silenzio assoluto di tutte le memorie sincrone intorno a Michele Zanche; ma io osservo, che molto più profondo è il silenzio della storia sul Vicario tedesco; né so il credito che debba darsi all’esumazione di costui, quando in nessun documento lo si trova vivo né morto, e quando una sola volta è menzionato in un atto del Condaghe di S. Pietro di Silki.

Eppure il Bonazzi trova il Trinchis combattente in Toscana nel 1267, in favore del giovane e prode Corradino, che fu nipote dell’imperatore Federico II – di quell’imperatore che fu padre di Enzo, Re di Sardegna, e di Manfredi, il vinto di Benevento.

Io suppongo il Trinchis (se realmente ha vissuto!) un provvisorio o temporaneo sostituto Vicario regio; ma non risulta veramente dagli atti del Condaghe se abbia rappresentato Ubaldo od Adelasia dopo il 1236, oppure Enzo alla fine del 1238, nei primi mesi cioè del suo arrivo in Sardegna, quando Zanche non era che un semplice Siniscalco. Potrebbe darsi, che in seguito sia stato sostituito da altri – o perché Enzo lo ricondusse seco a combattere in Italia: o perché Adelasia (la legittima regina) avesse preferito di dare il comando del Giudicato al proprio drudo Donno Michele, anziché a Messer Corrado che riteneva come una  spia del marito assente e lontano!

Se è vero che Corrado Trinchis nel 1267 trovavasi a combattere in Toscana (come vuole il Bonazzi)  possiamo ammettere che egli abbia ceduto il posto a Michele Zanche il quale in quell’anno era vivo in Sassari, come vivo era il re Enzo nelle carceri di Bologna. Potrebbe anche darsi (chi lo sa?) che il Trinchis sia scappato in Toscana, non appena ebbe l’annunzio della partenza da Pisa del Conte Ugolino arrivato a Sassari precisamente in quell’anno 1267. E così il solo Zanche sarà rimasto a togliere le castagne dal fuoco!

Enrico Besta rilevò che negli atti del Condaghe figurano due Vicari di Enzo: Corrado Trinchis e Belardo Carbone. Chi può assicurarci che Michele Zanche non solesse delegare altre persone a sostituirlo nelle corone? O perché impedito da una malattia ad intervenire alle adunanze; o perché il recarsi di villa in villa gli servisse di noia o di disturbo nel disbrigo degli affari nella reggia, egli si faceva rappresentare da altre persone di sua fiducia.

E tutto questo parmi risulti ben chiaro nello stesso Condaghe; poiché io noto che Belardo Carbone (amico e socio di Zanche nel 1234) è per due volte nominato non già come Vicario del re Enzo o del Giudice, ma come Vicario del Vicario (ki regiat corona pro su Vicariu). E qual Vicario del Vicario deve pure intendersi Messer Corrado Trinchis, anche nella formula: ki fuit Vicariu pro su Regem in su rennu de Locudore. Anche il Besta affermò di recente, nella Sardegna medoevale (1908), che Enzo affidò il regno a Vicari che vi nominava di anno in anno e tra essi il Corrado Trinchis del Condaghe di S. Pietro ed il Michele Zanche della leggenda.

Valga pertanto questo per provare, che Dante non ha scritto a casaccio donno Michel Zanche de Logudoro, e che il re Enzo lasciò nell’isola un suo Vicario, come vuole la tradizione, accettata finora dalla storia… salvo possibili complicazioni

Sempre intorno a Zanche

Il Condaghe più antico fa menzione del Giudice Andrea Tanca, ammesso dal Fara, Vico, Gazano ed altri, mentre gli  storici moderni lo escludono, ritenendolo immaginario. Ma chi può affermare che un Giudice, ed un congiunto di Giudice non sia esistito sotto questo nome? Chi può assicurarci che Andrea Tanca (legittimo o figlio naturale) non sia stato assunto al trono di Torres, e poi spodestato? Non suppose anche Bonazzi che potrebbe trattarsi di un usurpatore? Perché non accettare un altro Giudice in più, se lo stesso Bonazzi (con la scorta del Condaghe di S. Pietro)  ce ne regala tre nuovi:  Dorgodorio de Kerki, Pietro de Serra e altro Costantino?

Il citato Baudi di Vesme, nel suo studio su Guglielmo di Massa, sospetta che il misterioso Andrea Tanca fosse un terzo fratello dei Giudici Costantino e Comita, l’ultimo de quali fu avo di Adelasia. «È possibile (egli nota) che da Mariano, figlio di Andrea, derivi quel Michele Tancha, o Zanche, che fu il tezo marito di Adelasia». Egli suppone che abbia governato pochi mesi, che forse mori sul campo di battaglia, combattendo contro il Marchese di Massa, giudice di Cagliari, e che dopo di lui abbia regnato Comita.

Come ho scritto nel 1898 (in una nota della mia Adelasia di Torres) il nome di Thanca (Zanca) fu cambiato in Tanca, o viceversa, per la pronuncia del Th che equivale a z. Da Athen si fece Azzena; i Thori sono alternati coi Zori: da Thathari si fece Sassari, che i campidanesi pronunciano Zazzeri. Troviamo nel 1443 un vescovo Giovanni Zancis che è pur chiamato Sanchez – come nei commentari di Dante troviamo Michele Zanche e Michele Sanche.

Che codesto barattiere e seduttore di mogli abbia in qualche modo avuto ingerenza nel Giudicato turritano, ce lo dice chiaramente Dante, poiché lo chiama Michel Zanche de Logudoro, alludendo certamente al suo governo, non al luogo natio.

Il Giudicato di Torres si estinse per un parricidio, come per un fratricidio (mantellato da una rivoluzione popolare) era forse passato nelle mani dell’ambizioso Ubaldo Visconti.

Michele Zanche fu assassinato nel 1275 dal genero Branca Doria: e qui variano le causali. Alcuni commentatori di Dante dicono per usurpargli il potere, e perciò vogliono Branca podestà di Sassari; altri (fra i quali Della Lana) affermarono, che Branca Doria, «volendo possederne le ricchezze si lo invitò un die a desinare, poi per frutte lo fece tagliare a pezzi» – precisamente come Zanche e i suoi soci, quarant’anni addietro (nel 1236) avevano fatto a pezzi il cadavere del giudice Barisone per darlo in pasto ai cani od ai maiali. Si noti la strana coincidenza! Sembrerebbe una vendetta feroce, compiuta occhio per occhio, dente per dente!

Le diverse ipotesi, da me finora esposte, potrebbero essere anche fantastiche, poiché non hanno l’appoggio di alcun serio documento; tuttavia esse non sono ardite, quando il mistero e le tenebre secolari regnano sovrani nella storia avventurosa del Giudicato turritano, in cui l’inganno succedette all’inganno, il delitto al delitto; in cui le prepotenze, le tresche, le estorsioni servivano di base ai troni di tanti Giudici corrotti e corruttori, i quali inalzavano templi a Dio e beneficavano frati, mercanteggiando il perdono delle tante ladronerie, e dei cento bastardi che seminavano intorno ai loro troni, da un capo all’altro dell’isola.

Ancora Branca Doria

Il Ferretto ci dà molte notizie interessanti, che io riassumo:

«Dopo aver commesso il parricidio, Branca Doria si rifugio in Genova, prima del Settembre dell’anno 1275; e, per acquistare prestigio in mezzo ai Guelfi, ottenne per il proprio figlio Bernabò la mano di Elena Fieschi, nipote del Cardinale Ottabone (il futuro papa Adriano V) consigliere allora di Gregorio IX. Il pontefice non levò quindi la voce contro il parricida; ed il comune di Genova, ghibellino, sembrò quasi godere del misfatto. Anzi, lo stesso Comune, nel 13 Marzo 1276, inviava Babilano Doria (zio di Branca) quale ambasciatore per far la pace tra Genova e Carlo d’Angiò re di Sicilia». (Così il Ferretto, ma le sue deduzioni non mi sembrano tutte soddisfacenti).

«Il 17 Novembre 1278 (tre anni dopo l’assassinio di Zanche) risulta che Branca Doria era in guerra con gli abitanti di Sassari, poiché nel detto giorno si venne ad un arbitrato. I sassaresi gli rilasciarono il castello di Mandragone con la terza parte della curatoria della Nurra e con la Villa di Cherchi; più la terza parte di un giardino nella villa di Gerito in Romangia; le ville di Ardo, Save, Taberra, Lenza, Lequilo e Genani, poste nella curatoria di Fluminargia; e più una vigna nel territorio di Sassari».

Notisi la cessione delle ville e della vigna nel territorio sassarese, la quale dimostra che Sassari era allora indipendente dal Giudicato turritano.

Il Ferretto rileva, da atti notarili, che Branca Doria si trovava a Genova il 12 Maggio 1280; il 24 Luglio 1281 era nel porto di Castelgenovese; nello stesso anno e nel susseguente in Genova; nel 1282 comprò da Corrado Malaspina per lire 9.300, il Casteldoria, il Castelgenovese, e la curatoria dell’Anglona.

Al trattato di alleanza del 1284 (dopo la battaglia della Meloria) intervenne anche Branca Doria, proclamando i diritti della sua famiglia.

Il 17 Maggio 1285 egli eleggeva suo figlio Bernabò a Nunzio e Procuratore per amministrare i suoi beni di Sardegna, e soprattutto per firmare un trattato di tregua con Mariano di Arborea e col comune di Sassari. «Egli coglieva i frutti del parricidio!» – dice il Ferretto.

Risulta parimenti che Branca Doria trovavasi a Genova nel 1286, 1287 e 1288; ma da questo anno (nota il Ferretto) non si trovano più traccie di lui fino al 1294. In seguito torna ad essere ricordato nel 1299, e così fino al 1325 ultimo anno di sua vita.

Tomeremo a lui in altro Capitolo, poiché confesso che rimango dubbioso di fronte al parere di Ferretto, il quale lo fa vivere troppo a lungo. Dirò altrove le ragioni del mio sospetto.

Che Branca Doria vivesse nel 1300, o parecchi anni dopo, non è a dubitare – poiché Dante nella sua Commedia, che vuolsi scritta nel detto anno, cacciò l’anima di lui nell’Inferno, mentre il suo corpo era ancora vivo sulla terra, dominato da un demonio.

Ferretto riporta una nota, tolta al manoscritto di Pier Paolo Oliva, con la quale si dimostra, che la madre di Branca Doria era una bastarda del Giudice Mariano di Torres, che fu padre di Adelasia. Siccome con l’investitura della Sardegna fatta dal papa al re di Aragona nel 1297 (di cui parleremo più tardi) i Doria potevano venir pregiudicati nei beni che possedevano nel Logudoro, Branca Doria si rivolse direttamente al Pontefice, ricordandogli che il quondam Mariano Giudice turritano, suo avo materno, aveva legittimato con diritto di successione la propria figlia quondam Preziosa, madre di esso Branca e nata ex incestuoso consorzio. Il Papa rispose il 18 Dicembre 1290 al suo diletto figlio e Nobile uomo Branca Doria, confermando a lui ed ai suoi discendenti la successione dei beni che possedevano nell’isola di Sardegna.

Gli storici ammettono (e così il Ferretto) che dopo l’assassinio di Michele Zanche, ultimo giudice turritano, i genovesi cercarono di assoggettare la città  di Sassari; ma questa respinse i Doria, e si resse a libero comune l’anno seguente 1276.

Ma quale autorità esercitò Branca Doria in Sassari e nella Nurra, prima e dopo l’assassinio? Il Ferretto ci dice che egli riparò subito in Genova – ma se ciò fosse vero, in qual tempo egli si servì del sigillo, oggi posseduto dal Museo imperiale di Berlino?

Il compianto prof. Bettinali, valente studioso di archeologia, nel 1880 era possessore di un bellissimo sigillo d’argento, nel cui centro è una torre, ed intorno la scritta: S. (sigillum) BRANCAE DE AVRIA. Io lo ebbi nelle mani nel detto anno, e poco dopo venne ceduto dal possessore al Museo Germanico.

E’ fuori di dubbio, che la torre è lo stemma della Città di Sassari, sostituitasi a Torres come capitale del Logudoro, o del Giudicato turritano. Parrebbe dunque che Branca Doria avesse esercitato una suprema autorità in Sassari, o nel Logudoro. Ma in quale anno, e con quale carica? Forse con quella di Podestà, come lo designa qualche commentatore di Dante? Oppure possiamo attribuire la torre alla Nurra, di cui Branca era signore?

E’ questo l’enigma da spiegare. Io non so se dobbiamo ritenere il sigillo come appartenente al giovine Branca del 1275, o al Branca vecchio del 1325.

Molta luce il Ferretto ha fatto, ma essa non basta a rischiarare la via della storia; molti fili ci vennero dati, ma essi sono insufficienti per tessere una buona tela!

Notizie a spizzico

Per non tediare più a lungo il lettore spigolerò alcune notizie saltuarie sul secolo XIII, che dobbiamo alle recenti ricerche di valenti studiosi, e specialmente dello stesso Ferretto. Parmi anzitutto, che la convenzione stipulata a Vercelli nel 1202, riguardante il matrimonio della figlia del Giudice Comita con Bonifacio marchese di Saluzzo, si colleghi ad una notizia da nessuno finora avvertita. Il Bertolotti (Passeggiate nel Canevese, Torino 1878) segnala la sentenza del 1246, proferita da Amedeo IV di Savoia contro Bonifacio di Monferrato, intorno ad una contesa per varie terre, in presenza di Enzo re di Sardegna. Vuol dire che il marito di Adelasia (da otto anni lontano dall’Isola) aveva dimenticato la moglie, ma non i beni che possedeva nel Logudoro!

Besta nota, che non per diporto Michele Zanche trovavasi a Genova nel 1252 assieme al vescovo di Torres ed al neo-eletto arcivescovo turritano; dovevano farsi grandi preparativi contro i pisani, stretti col conte Ugolino, suocero ad una figlia di Enzo.

Fra il 1255 e il 1262 morì Adelasia di Torres; e dopo la sua morte i sassaresi s’impadronirono del Castello del Goceano. Nel 1255 essa conservava ancora il regno, e poco dopo moriva nella rocca del Goceano. Il Condaghe la dice seppellita nella chiesa di Ardara, dinanzi all’altare maggiore.

Nel 1257 i genovesi sono combattuti a S. Igia dai pisani, capitanati da Guglielmo di Capraia; e nei patti della resa la città di Sassari è indicata come luogo sicuro – cioè, indipendente dal Giudicato.

Nello stesso anno Zanche continuava a governare come vicario di Enzo re di Sardegna, che trovavasi prigioniero a Bologna fin dal 26 Maggio 1249 (Ferretto).

Durante questo tempo (dal 1257 al 1266) si hanno molti atti notarili per compra o vendita di schiave bianche, o nere, di diversi abitanti di Genova, ed anche di Sassari (Ferretto). In quel tempo pare che si commerciasse tutto: uomini e cose!

Il documento in cui per la prima volta si fa menzione di Branca Doria è del 15 Ottobre 1259; nel quale è detto, che egli chiede la villa, casa e curia di Castro, con uomini, animali, terre, ecc. donatigli il 13 Settembre dall’Arcivescovo turritano. La villa di Castro era prima di spettanza della chiesa di S. Gavino, con le curatorie di Cruca, Ardo e Lenza (Ferretto).

Nel 1261 Nicolò Doria (padre di Branca) fu inviato ambasciatore ed arbitro a Manfredi re di Sicilia, il quale gli promise aiuto di forze per riacquistare i beni che possedeva in Sardegna (Tola).

Il re Enzo aveva costituito a fianco di Zanche, per suo Vicario, il Conte Ugolino; il quale aveva pure autorità sul Giudicato turritano. Ond’è che il 6 Aprile 1262 il predetto Nicolò Doria, insieme al fratello Percivalle, presero a mutuo la somma di lire 2.000 dal comune di Genova, per le spese della spedizione armata che intendevano fare in Sardegna per ricuperare le terre già possedute nel Giudicato turritano, aspettando pure l’aiuto di Manfredi re di Sicilia (Ferretto).

Nel 1263 il Giudice di Arborea (protetto dal papa) si accinse a strappare il Giudicato turritano dalle mani del re Manfredi. Così scrive il Pertz; ma il Bonazzi nota che non risulta che l’occupazione dell’Isola sia stata fatta con la forza; forse era avvenuta per mezzo dei suoi ufficiali, i quali avevano stabilita l’autorità regia nel Comune di Sassari, o presso altri vassalli del Logudoro. I cittadini sassaresi, i Doria e gli Spinola, signori potenti e temibili, appoggiavano il partito di Manfredi (Besta).

La rivolta continuava in Sardegna. Neppure la figlia del re Enzo era sicura negli stati paterni, giacché il 25 Maggio 1265 Pisano, famigliare regio, alla presenza di Boso di Dovara, riceveva da Bartolomeo da Capiglie la figlia de re, per essere condotta a sua zia, la marchesa Carretto (Ferretto: atti). Il 17 Giugno dello stesso anno Mariano di Arborea rinnovava i patti con Pisa; poco dopo i pisani invadevano il Logudoro. Alla fine di Gennaio del 1267 il papa potè annunziare al Duce di Angiò che i pisani erano tornati in grembo alla  chiesa (Besta).

Nel 1266, appena morto il re Manfredi, il Comune di Pisa mandò in Sardegna il Conte Ugolino con Tuscio Ruffo (Bonazzi). Quando Ugolino si presentò coll’armata a Sassari, è probabile che con una carta di clientela questa città si avassallasse alla Repubblica di Pisa. Così nota il Tola; però, altrove assegna l’autonomia del comune di Sassari al 1276, dopo la morte di Zanche.

Nell’Aprile del 1266 i Malaspina si erano divisi i beni in Sardegna. Il re Enzo era in carcere, e l’infante di Castiglia carezzava il disegno di conquistare la Sardegna. Il papa Clemente IV, nel Gennaio del 1267, lo dissuase dall’impresa, chiamandola imprudente, perché i pisani erano padroni dell’Isola. Lo stesso papa, nel 3 Agosto del suddetto anno, pregava i pisani di richiamare dall’Isola il Conte Ugolino, che aveva invaso la città di Sassari ed il Logudoro.

In questo tempo abbiamo molti atti notarili, i quali dimostrano che i sassaresi imbarcavano dal porto di Torres molto grano e formaggi, acquistati specialmente dai Lucchesi (Ferretto).

Pietro Sardo de Sassaro, il 6 Maggio 1267, promette di andare con la flottiglia armata da Genova contro Venezia (Arch. di Stato, Genova).

Scrive Enrico Besta, che nel Comune di Sassari, diventato forte dopo aver accentrato a sé la popolazione delle ville della Fluminargia, Romangia e Nurra, sorse un forte partito che decise di metter fine alle lotte coll’offrire la sovranità dell’isola di Sardegna ad un Signore di fuori; e da ciò la seguente preziosa notizia, ch’ei tolse dal Winkelmann, e gentilmente mi comunicò: «Il giorno 11 Agosto 1269, G.D.M. e G., vescovi di Bisarcio, Ploaghe, Castro ed Ampurias, suffraganei di Torres; Arzocco Vicario del Pievano di Sassari a nome di tutto il Clero turritano; Bernardo de Vellina, Nicola e Arzocco de Nuula, Comita Corda, Comita Caseo Corda, Gantito Uthiti, Ugolino Romanacci, Stefano de Rosa e Barisone Caxo, per il comune di Sassari e per tutto il Logudoro, eleggono a Re di Sardegna Filippo, figlio di Carlo d’Angiò». (Non so come il resto della Sardegna abbia raccolto questa deliberazione, la quale certamente sarà rimasta come un pio desiderio!). Aggiunge il Besta, che a questa pratica, cui presero parte Comita Caseo e Ugolino Romanacci, non era estraneo il comune di Genova, il quale fin dal 12 Agosto 1269 si era stretto in lega con Carlo di Angiò: lega che spiacque ai pisani, i quali stettero in guardia.

I1 15 Marzo 1272 morì a Bologna il prigioniero Enzo, e Michele Zanche divenne assoluto padrone del Giudicato. Questa notizia non è convalidata da alcun documento, e il Besta la dice non affatto vera. Certo è, che tutti i signorotti, specialmente i genovesi, stavano in vedetta, temendo la perdita dei loro beni in Sardegna. Lo stesso Besta afferma, che a torto le pretese dei Gherardeschi si vollero fondare sul matrimonio tra Guelfo e una figlia di Adelasia, mentre il testamento di Enzo fa credere che Elena fosse il frutto di altri amori.

Intanto i Pisani, nel 1272, avevano spedito a Sassari Arrigo da Caprona, nuovo Podestà – con sorpresa del papa Gregorio X, il quale nel 18 Novembre minacciò di rinnovare le scomuniche alla repubblica di Pisa, se entro tre mesi non ritirava le sue genti dall’isola, e specialmente da Sassari, che apparteneva alla Chiesa Romana.

Da una lettera di Carlo d’Angiò del 17 Giugno 1274 risulta, che 25 galee armate navigavano verso la Sardegna.

Due anni prima (nel 26 Novembre 1271) diversi famigliari e fedeli di Enzo re di Sardegna, vendevano a certo Brocullo (procuratore del Conte Ugolino, il quale amministrava i beni dei nipoti del re, figli della figlia Elena) ogni diritto che competeva allo stesso Enzo sulla sesta parte del regno cagliaritano in Sardegna, sul Castello di Sassari, e su altre terre dell’Isola.

Il Ferretto ci dà un altro atto del 13 Giugno 1274, col quale un macellaio al molo di Genova, alla presenza del lucchese Geraldo, dichiara, che le 148 bestie rubategli nel Giudicato di Logudoro, presso la chiesa di S. Gavino, dagli uomini di Sassari, e delle quali la metà eragli stata restituita da Barisone Doria (onde ottenne le rappresaglie contro gli uomini di Sassari) erano proprietà di certo Riccio, macellaio al molo, e di certo Sigimbaldo, tintore alla porta di S. Andrea.

Il suddetto Barisone Doria è colui che il Tola suppone prossimano di Branca Doria, del quale fu complice nel consumare il parricidio in odio a Michele Zanca, l’anno successivo, 1275. Il Ferretto asserisce che il delitto fu perpetrato prima del 2 Settembre, poiché risulta che in questo giorno Branca Doria trovavasi a Genova, mentre il suo prossimano Barisone era rimasto a Sassari… forse per far negozio di buoi e di pecore!

Curiosa nota! Il 23 dello stesso mese di Settembre 1275, Pietro Doria vendeva in Genova un asino nero con basto e due barili; il tutto per 3 lire e 13 soldi. Che lo avesse rubato a qualche acquaiuolo di Sassari?

Dopo l’assassinio di Michele Zanche, i genovesi fecero ogni sforzo per assoggettare i sassaresi al loro dominio; ma Sassari, sdegnosa d’ogni servitù, respinse gli assalti dei Doria e dei Malaspina, e si resse a libero comune nel 1276, come il Tola ed altri suppongono.

Nel 1283 abbiamo la convenzione dei due vescovi di Bisarcio e di Ampurias i quali si obbligarono di far cadere in potere della Repubblica di Genova la città di Sassari. Questo progetto andò a monte, poiché nello stesso anno si trovava a Sassari il podestà pisano Tano Badia de’ Sismondi, di cui abbiamo una sentenza in data del 30 Ottobre 1283.

Nel trattato del 23 Dicembre 1287, tra Genova e i Doria di Sardegna, è detto, che questi ultimi doveano lasciare il porto turritano e quello dell’Asinara, astenendosi dal costrurre edifizi e fortilizi sulle rive della Fluminargia ed entro il raggio di un miglio verso la Nurra (Besta).

Con la sconfitta dei pisani del 1288 si hanno i patti della resa, e la cessione della città di Sassari a Genova, che si effettuò sei anni dopo – nel 1294.

Al Tribunale della Storia

Le preziose notizie da me date possono ritenersi come importanti capi-saldi sul vasto campo della Storia sassarese del secolo XIII; ma del pari esse possono prestarsi a molteplici interpretazioni dei fatti avvenuti nel Logudoro in quel lungo periodo tenebroso, che trascorse dalla morte di Mariano alla morte d Michele Zanche.

Di certo vi ha questo: che le vendette di parte e le ire private avranno ben spesso mantellato le ragioni politiche… o viceversa. Ciò avvenne di frequente nella Storia – e mi basta citare l’uxoricidio di Rosa Gambella nello scorcio del secolo XV, e l’assassinio del Viceré Camarassa verso la metà de secolo XVII.

Messe a confronto le note dei commentatori di Dante, del Fara e del Vico, dell’Angius e del Tola, e quelle del Casini e del Besta, del Bonazzi e del Ferretto, non è difficile venire a congetture logiche, se non scrupolosamente fondate.

Pur dividendo in massima la versione del Ferretto, ed i commenti del Besta, io credo che molti punti di Storia hanno bisogno di essere lumeggiati, poichè l’ultima parola nessuno può dirla.

Io lascio dunque il verdetto ai cortesi lettori, poiché essi solamente compongono la Giuria nel solenne tribunale della Storia. Io non farò che il riassunto imparziale del dibattimento, dopo aver ascoltato le deposizioni d testimoni, sì di accusa, che di difesa. Proporrò i quesiti seguenti:

1°) Credete voi che il fidanzamento della figlia del Giudice Comita col genovese Manuele Doria nel 1210, non sia stato progettato per controbilanciare la preponderanza pisana in Sassari?

2°) Siete voi persuasi che il Giudice Mariano, concedendo nel 1219 la figliuola Adelasia al pisano Ubaldo Visconti, e concedendo un’altra sua figlia bastarda al genovese Nicolò Doria nel 1231, non abbia creato gli attriti che provocarono la rivolta del 1236?

3°) Non vi pare evidente la influenza che esercitava Michele Zanche e il suo partito nella città di Sassari, sua terra natia, specialmente dopo la morte di Mariano nel 1233, e forse prima?

4°) Non risulta chiaro dall’ambasciata fatta a Barisone III nel 1234, che altri attriti, altre rivolte, altre lotte sanguinose erano accadute in odio a quel principe? Non è anche chiaro che Michele Zanche ed i suoi soci furono gli autori del barbaro assassinio del giovanissimo principe, fatto a pezzi e buttato in pasto ai cani ed ai maiali?

5°) Come, quando, perché avvenne siffatta rivolta? Fu Barisone che venne da Ardara con le sue genti per assalire i sassaresi – oppure quel ragazzo fu vittima di un tradimento, quando pacifico e fidente era venuto a chiedere la consueta ospitalità ai sassaresi?

6°) Credete voi che la sorella dell’ucciso, ed il tutore di esso (fratello bastardo di Mariano) non abbiano essi diretto e consigliato il giovine principe nella sua politica di governo? E credete veridica la relazione mandata sollecitamente al papa Gregorio dalla sorella dell’assassinato?

7°) Qual concetto avete di quell’Ubaldo Visconti, cittadino pisano, il quale prima aveva giurato fedeltà al comune di Pisa, e poi (subito dopo l’assassinio del cognato) giurava fedeltà al papa, chiedendogli vigliaccamente che lo sciogliesse dal giuramento fatto ai pisani?

8°) Perché Michele Zanche, nel 1253, corse a Genova per abboccarsi con Nicolò Doria? Ci andò egli di sua spontanea volontà, o vi fu chiamato dal marito della bastarda di Mariano, padre di quel Branca a cui doveva dare in moglie la sua figliuola Catterina?

9°) E quali relazioni corsero tra Michele Zanche e Ubaldo Visconti, prima e dopo che sposasse Adelasia? Intinsero essi nell’assassinio, l’uno per baratteria, e l’altro per disfarsi del cognato, il cui trono voleva occupare?

10°) E qual parte prese Adelasia in questa rivolta? Non poteva impedirla? Perché tutti quei pianti, tutti quei rimorsi, tutte quelle preghiere e laute donazioni alle chiese ed ai monasteri, quando si ritirò in Ardara col marito Ubaldo per piangere il fratello ucciso? – I famosi inventori delle carte di Michele Gilj (falsari, ma persone dotte) colsero essi nel vero, quando scrissero che Barisone venne ucciso dal curatore Renoldi, e dalla macchinatione usurpatoris Ubaldi, per venalem manum P. sassarensis?

11°) Furono ragioni politiche, o ragioni private, quelle che provocarono le scomuniche fulminate dal papa contro gli autori del delitto e contro Ubaldo ed Adelasia? E perché questi ultimi sottoscrissero ciecamente tutti gli atti a loro imposti dal Legato pontificio, il quale soggiornò nella reggia di Ardara per oltre un anno? E non fu Adelasia la prima in Sardegna a riconoscere il supremo dominio della Santa Sede ne’ suoi stati? E la repubblica di Pisa non fu la sola che resistesse al Papa, mantenendosi in possesso dei luoghi da lei usurpati?

12°) Perché Ubaldo, nel Settembre del 1230 (lo stesso mese dell’assassinio di Barisone) sottoscrisse un atto in S. Pietro di Silki, intitolandosi Giudice Gallurese e Turritano?

13°) E la morte di Ubaldo, avvenuta un anno dopo a Silki, nelle vicinanze di Sassari, fu essa naturale, o violenta? Perché si allontanò da Ardara? Fu egli vittima del veleno di Michele Zanche… oppure Adelasia, istigata dai Doria prima della morte del marito Ubaldo, si è macchiata del più nero delitto, ebbra d’amore e di ambizione per la possibilità di un matrimonio col figlio dell’imperatore di Germania, più giovane di lei di una ventina di anni? Perché tanto sentimento religioso, per poi darsi in braccio al re Enzo, pochi mesi dopo la morte di Ubaldo, senza aver tempo di vestire le gramaglie vedovili?

14°) Se è vero che il re Enzo ha relegato nel castello del Goceano la donna che lo ha tradito anche prima del matrimonio, perché mai egli volle prescegliere a suo Vicario il seduttore di sua moglie? E se è vero che Michele Zanche ha intinto nella congiura contro Barisone, perché mai la regina Adelasia ha accolto nel suo talamo l’assassino di suo fratello? – Se è vero che Belardo Carbone fu prima rappresentante del Giudice in Sassari, come Curatore, perché mai si fe’ socio di Michele Zanche per uccidere il suo sovrano Barisone?

15°) E Michele Zanche, qual parte ha preso in tutti questi fatti? Perché Enzo abbandonò Adelasia dopo soli nove mesi di matrimonio? Fu Enzo, o fu il Pontefice che la tenne schiava e prigioniera nel castello del Goceano? Perché Adelasia chiese ed ottenne il divorzio dal papa, quando il marito Enzo era da più anni prigioniero a Bologna, e molto lontano da lei?

16°) A chi voleva alludere il Papa, quando in un’epistola accennò all’aiutatore di Adelasia? – Perché Michele Zanche concesse la figliuola Catterina a Branca Doria? – Oppure perché Branca Doria chiese per moglie la figlia di Zanche?

17°) Quali fatti determinarono i rappresentanti della città di Sassari, il clero sassarese, e i quattro vescovi suffraganei della sede Arcivescovile turritana, ad eleggere nel 1270 per re di Sardegna il figlio di quel Carlo d’Angiò che aveva sconfitto a Benevento il re Manfredi, bastardo anch’esso di Federico II, come lo era Enzo, secondo marito di Adelasia di Torres?

18°) E perché, subito dopo, vennero mandati i Podestà dalla Repubblica di Pisa?

Anche convinti di molte verità contenute nell’esposizione dei fatti da me finora riassunti (tutti avvalorati dai diversi documenti) gli egregi lettori e cittadini Giurati non debbono votare che con scheda bianca, per ogni quesito me formulato sugli avvenimenti sassaresi del secolo XIII.

Si gridi pure al romanzo! Ma io non cesserò dal ripetere, che in quel lungo periodo tenebroso, le ragioni politiche della storia di Sassari e del Logudoro si fondono e si perdono nelle nebbie e nel mistero delle passioni domestiche, degli odi privati, delle tresche e dei delitti, che, tanto i carnefici, quanto le vittime del dramma sanguinoso, hanno portato nella tomba, senza rivelarli agli storici ed ai cronisti.

Fortunati gli studiosi dell’avvenire se sapranno rischiarare con nuovi documenti il fondo grigio della misteriosa storia di Sassari, in cui passano, come visione fantastica, le pallide figure di Ubaldo Visconti, di Adelasia di Torres, del re Enzo, di Branca Doria e di Michele Zanche!

Di certo non dobbiamo ammettere che una cosa sola: dal sangue del giovane Barisone, vittima innocente dell’altrui ambizione o dell’altrui perfidia, nacque la libertà e la indipendenza della città di Sassari.