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Sotto gli Spagnoli (dal 1479 al 1720)

Michele Gilj

Col matrimonio di Ferdinando il Cattolico, che si unì a Isabella, figlia del re Giovanni II, i diversi regni della Spagna vennero riuniti in un solo scettro. La città di Sassari (insieme a tutta l’Isola) diventò nel 1479 spagnuola: o, diremo meglio, continuò ad essere aragonese come prima, e per molto tempo. Aragona o Spagna erano la stessa cosa per i sardi – né alcuno si accorse del cambiamento di governo, fino a quando alla lingua aragonese (da tutti parlata e scritta) si sostituì quella castigliana.

Al par degli aragonesi, molti nobili spagnuoli continuavano a tentare la fortuna in Sardegna, barattando per mezzo di un matrimonio il proprio blasone, o la propria carica regia, contro la vanità di qualche ricca ereditiera, zitella, o vedova senza prole. L’esempio del Viceré Don Ximene Perez aveva lusingato molti forestieri.

Citerò fra gli altri Donno Michele Gilj, venuto a Cagliari dalla Spagna verso il 1488. In questo anno ebbe la nomina di Segretario della Luogotenenza del Viceré Lopez di Mendosa, con lo stipendio di 4 soldi barcellonesi al giorno; nel 1499 quella di Luogotenente del Mastro razionale del Regno; e nel 1507 fu armato cavaliere da Ferdinando il Cattolico.

Era costui quel tale Michele Gilj, presunto cultore di archeologia, in nome del quale alcuni storici falsari del secolo XIX fabbricarono il famoso taccuino di cose archeologiche, che fa parte delle famigerate Carte di Arborea. Il benemerito Lamarmora, tra gli altri, prestò cieca fede a quel taccuino, illustrandolo nel 1853 con una memoria, che stampò a proprie spese, dopo averla letta all’Accademia delle scienze di Torino, la quale la inserì ne’ suoi atti.

Riassumo la storiella inventata. Dal 1487 al 1510 Michele Gilj abitava in Cagliari; dal Gennaio all’Aprile del 1497 fece un breve soggiorno in Sassari, dove s’innamorò degli idoli, statue ed iscrizioni antiche, che a profusione vide raccolte in numerose case signorili. Tornato a Cagliari, si mise in corrispondenza col settuagenario sassarese Giovanni Virde, il quale, aiutato dal proprio figlio pittore gli comunicò tutti i grotteschi disegni e le ridicole scempiaggini, che verso il 1846 fecero perdere la testa a tanti dotti, compreso Martini, Lamarmora e lo Spano.

In seguito ad esame di alcuni documenti nell’Archivio Capitolare, mi persuasi che la storiella del breve soggiorno a Sassari del Gilj, e quella del famoso taccuino rinvenuto in un convento di Oristano, era una vera mistificazione. Michele Gilj erasi fermato a lungo in Sassari, facendo brevi gite a Cagliari e ad Alghero per ragioni del suo ufficio. In Sassari aveva sposato Donna Catterina Pilo, ed erasi dato febbrilmente a fare acquisto di terreni, case e numerosi censi come risulta da molti atti notarili, redatti dal 1500 al 1510. Negli atti egli figura sempre in unione alla moglie, e qualche volta è assente da Sassari («… Vendo a voi, Monsen Miquel Gilj, segretariu et logutenente de Mastru racionale, absente, et pro bois a sa Magnifica Donna Caderina Pilu, mugere vostra, presente, ecc. ecc…. » ).

Notevole per la storia è, tra le altre, la compra da lui fatta della terza parte della Crucca (Curcas), già appartenente ad uno degli assassini di Don Angelo Marongio, cioè a Donno Baingio Puliga, a cui era stata confiscata verso il 1580, dopo la sua condanna. Essendo in essa qualche vincolo, Catterina Gilj ottenne la liberazione del fondo da ogni peso, con un Decreto di Ferdinando il Cattolico in data del 30 Giugno 1510, che trovasi nell’Archivio del Capitolo, con firma autografa del sovrano.

Michele Gilj morì verso il 1515, e la vedova Catterina Pilo passò a seconde nozze col magnifico Donno Iuffrido de Cervellon; colui che nel 1532 era Giurato Capo di Sassari, e nel 1535 fu mandato dal Comune ambasciatore a Cagliari, per ossequiarvi l’imperatore Carlo V. I beni della Pilo e di Gilj, dopo la morte di Cervellon, passarono per testamento in proprietà del Capitolo Turritano, il quale più tardi dovette sostenere una lite, intentata da alcuni parenti.

È dunque evidente la falsità del famoso taccuino, che fa parte delle Carte di Arborea; poiché Michele Gilj non fu solamente di passaggio a Sassari, avendovi preso moglie: né egli aveva bisogno di far venire da Sassari gli scarabocchi archeologici del vecchio Giovanni Virde, per studiare i numerosi idoli sassaresi, di cui era innamorato. Poteva comodamente studiarli in casa dei parenti della moglie, la quale apparteneva ad una delle primarie e più agiate famiglie di Sassari.

I pochi cenni storici sul Gilj, e lo strumento del 28 Maggio 1545, per cui si cedevano ad uso di magazzini di merci le grotte sepolcrali di Portotorres (già donate da Alfonso Carrillo agli eredi dello stesso Gilj), servirono di base, nel 1846, per fabbricare il famoso taccuino, acquistato e pubblicato in buona fede da Alberto Lamarmora. I falsari ignoravano i molti beni acquistati in Sassari dal Gilj, nonché il suo matrimonio con la Pilo, di cui il Pillito dà un cenno nel 1862, in una nota del suo libro: Memorie sui Luogotenenti generali di Sardegna.

I francesi a Sassari

Il fatto più notevole che la storia registra nei primi lustri del secolo XVI è la invasione dei francesi in Castelsardo, in Sorso ed in Sassari.

Nel 1527, dopo la celebre battaglia di Pavia, Francesco I, rivale di Carlo V, trasse a sé la lega santa, composta del Papa, del re d’Inghilterra, del Duca di Milano e della Repubblica di Venezia. Anche la Sardegna restò impigliata in questa faccenda, poiché l’armata degli alleati, capitanata da Andrea Doria e dal francese Renzo Ursino di Ceri, cominciò coll’attaccare Castelgenovese: il Doria dalla parte di mare ed Ursino da terra.

Don Francesco De Sena, governatore del Logudoro, di stanza a Sassari, supplì alla fiacchezza del Viceré; e raccolti numerosi miliziani si diede a difendere il castello, costringendo i 4.000 francesi guidati da Ursino a darsi alla fuga. In quella circostanza si distinsero i sassaresi Don Giacomo e Don Angelo Manca, i quali tolsero una bandiera al nemico.

Un’orribile tempesta avea costretto le navi guidate da Andrea Doria a rifugiarsi nell’Asinara; ma Renzo Ursino, per via di terra, si diresse con le sue schiere a Sorso, facendo man bassa sul paese, poiché la maggior parte degli abitanti si erano dati alla fuga.

Saccheggiata la villa di Sorso, l’Ursino coi suoi continuò la marcia fino a Sassari, e giunse alle sue porte eludendo con uno stratagemma il Governatore De Sena, al quale si era dato ad intendere che il nemico era diretto ad Alghero.

I sassaresi mossero contro ai francesi con 3.000 uomini comandati da Giovanni Fiorentino, e riuscirono a respingere il nemico, inseguendolo per lungo tratto fino ad una gola seminata di macchioni di lentischio. Ivi erano appiattati numerosi soldati dell’armata dell’Ursino, i quali, uscendo d’improvviso dai nascondigli, assalirono i sassaresi e ne fecero massacro.

Renzo Ursino entrò vittorioso in Sassari il 30 Dicembre 1527, ordinando di mettere a sacco la città, spargendovi il terrore.

Numerosi furono i massacri commessi dalle bande dell’Ursino; i suoi soldati si diedero a rubare, a gozzovigliare, ad incendiare e ad insultare le donne. Gli storici asseriscono, che la intemperanza dei soldati fu tale, che un buon numero di essi si ammalarono, e morirono.

Dopo aver dato il sacco alla Dogana, al Castello e ad altri edifizi, le soldatesche diedero fuoco alla Frumentaria ed al Palazzo comunale. In quest’ultimo il danno fu irreparabile, poiché vennero bruciate tutte le carte dell’Archivio – preziosissimi documenti tolti alla storia di Sassari.

Il Governatore De Sena, che per la finta mossa dei francesi erasi portato nelle vicinanze di Alghero, tornò indietro con le sue truppe, e bloccò le quattro porte della città di Sassari.

Stretti dalla mancanza delle vettovaglie (poiché le principali famiglie si erano ritirate in campagna, o nelle ville circostanti) i francesi finirono per domandare una capitolazione, e abbandonarono la città i1 26 Gennaio 1528, dopo ventisette giorni di ladroneggi, di baccanali, e di eccessi di ogni genere.

Il debole Viceré erasi rivolto alla Corte di Barcellona per avere aiuto d’armi; ma le bande spagnuole arrivate, composte di gente sfrenata, si erano unite ai soldati francesi, facendo causa comune nelle gozzoviglie e nelle devastazioni.

In questa invasione francese dovette esservi qualche cosa di torbido, che rimase nel mistero. Accusato di complicità in tanto disastro, il Governatore De Sena venne sottoposto ad una inchiesta rigorosa. Diversi nobili sassaresi, che furono veduti recarsi nel campo nemico, vennero anch’essi accusati dall’opinione pubblica di aver avuto intelligenza coi francesi, facilitando la loro entrata in Sassari. Il De Sena, ufficiale spagnuolo, pare non avesse adempiuto al proprio dovere – tuttavia fu salvato e mantenuto in carica. Un tal Solinas, all’incontro, nobile e facoltoso cittadino sassarese (il quale forse aveva represso i saccheggi e gli incendi) venne accusato e punito per ordine sovrano.

Non è improbabile che i sassaresi, stanchi degli spagnuoli a cui volevano sottrarsi, avessero incoraggiato i francesi ad occupare la città, ben lontani dall’immaginare che gli ospiti stranieri li avrebbero così maltrattati. Ad ogni modo, la storia non ha ancora chiarito questo misterioso periodo.

Partiti i francesi, la città ebbe, nello stesso anno 1528, la visita della famosa peste, la quale distrusse oltre la metà degli abitanti. Di questa peste morirono molti ragguardevoli cittadini, menzionati dallo storico Fara.

Carlo V e la nobiltà

Nel 1538 veleggiando per la spedizione africana, Carlo V sbarcò a Cagliari, dove i sassaresi inviarono Goffredo Cervellon per ossequiarlo, ed ottenere qualche nuovo privilegio.

Sei anni dopo, nel 1544, lo stesso monarca visitò di nuovo Cagliari, e di là salpò per Alghero, dove si trattenne due giorni (il 7 e l’8 di Ottobre).

La notizia del suo arrivo alle spiaggie algheresi spinse molti gentiluomini di Sassari ad una nuova visita di ossequio: ed il Sovrano in quella circostanza fu largo di concessioni di cavalierato a molti sardi, non esclusi i sassaresi.

La storia a noi lasciò una particolareggiata relazione della visita di Carlo V ad Alghero. Sono notevoli due avvenimenti: le gozzoviglie dei soldati regi. che si diedero a rincorrere e massacrare i buoi nella piazza pubblica; e la famosa partita di caccia in Monte Doglia, offerta dagli algheresi al re, il quale ebbe la ventura di uccidere un porco!

Riassunto del secolo XVI

I fatti più notevoli di questo secolo per la città di Sassari, possono restringersi ai seguenti:

Nel Parlamento convocato in Cagliari nel 1545, il Sindaco di Sassari raccomandò diverse provvidenze a vantaggio della sua patria, fra le quali lo stabilimento di uno Studio Generale, che si effettuò quattordici anni dopo, per la benemerenza del sassarese Alessio Fontana.

Dal 1538 al 1553 si ebbero diversi assalti di corsari, che infestarono le spiaggie dell’Asinara e quelle di Portotorres.

Nei primi lustri della seconda metà del secolo si distinse in Sassari per acume di mente e gravità di studi l’arciprete sassarese Giovanni Francesco Fara, che anche oggidì è ritenuto come il padre della storia sarda. Egli, dopo aver visitato le principali città italiane in cerca di documenti, pubblicò nel 1580 i primi due libri dell’opera De rebus sardois; e in seguito gli altri libri, e la Corografia, che rimasero inediti fino al 1836.

Altri sassaresi di valore, contemporanei del Fara, furono il famoso poeta dialettale Girolamo Araolla, e il dottissimo Sambigucci, citato dal Fara medesimo.

L’anno 1582 fu memorabile per un’altra peste, pervenuta da Alghero, la quale in Sassari fece strage di abitanti.

Durante il secolo XVI, sotto il regno di Carlo V e di Filippo II, si convocarono in Cagliari una diecina di Parlamenti. La città di Sassari pretendeva che tali Corti venissero alternativamente riunite nelle due città primarie dell’Isola – e da ciò malumori e continui attriti fra cagliaritani e sassaresi.

Le istituzioni e conventi fondati in Sassari nel menzionato secolo furono i seguenti: – il monastero delle Clarisse nel 1505; il convento dei Serviti nel 1540; il collegio gesuitico nel 1559; il Seminario Tridentino nel 1568; il convento dei Cappuccini nel 1591; quello dei Domenicani nel 1595; ed in ultimo quello dei frati di S. Giovanni di Dio, chiamati la prima volta dal Municipio nel 1598 per la direzione dell’Ospedale.

Nel 1599 il Governo armava tutti gli abitanti del Logudoro per tener fronte alle frequenti escursioni dei barbareschi che infestavano le spiaggie. Le armi venivano somministrate ai cittadini, mediante il pagamento a rate annuali. Gli odí, le vendette, le uccisioni si succedevano a Sassari quasi senza interruzione.

Verso la fine del secolo si accentuarono le gelosie fra i cagliaritani e i sassaresi; ed il clero delle due città primarie le rinfocolava con la parola e con gli scritti, anziché sedarle, come ne aveva il dovere. I preti e i frati erano i più intransigenti e i più feroci nelle violente loro polemiche.

Primato e reliquie di santi

La eterna questione del Primato, che da qualche tempo si agitava tra le chiese di Cagliari e di Sassari, aveva acceso tutti gli animi, provocando polemiche vivacissime, ridicole quanto infruttuose. L’arcivescovo di Sassari Baccalar (e si noti ch’era un cagliaritano!) nel 1609 aveva osato intitolarsi Primate di Corsica e di Sardegna; e poco mancò non cascasse il mondo per questo titolo, che pur si disputavano gli arcivescovi di Cagliari e di Pisa.

Eletto nel 1613 arcivescovo turritano il sassarese Don Gavino Manca Cedrelles, si diede subito alla ricerca di reliquie di santi martiri, più per far dispetto ai preti cagliaritani, che per fervore religioso. Le sue ricerche furono coronate dal più lieto successo nel 1614; poiché, praticando scavi entro la basilica di Portotorres, egli rinvenne le ossa dei martiri Gavino, Proto e Gianuario, unite a quelle di numerosi altri santi.

Pervenuta la notizia a Cagliari, il suo arcivescovo Esquival non tardò a mortificare i sassaresi, praticando alcuni scavi nella basilica di San Saturnino. Anch’egli, nello stesso anno, rinvenne moltissime ossa, appartenenti a santi, che superavano per valore e quantità quelli trovati in Sassari!

Questi due scavi provvidenziali, se da una parte accrebbero le gelosie ed i malumori nelle due città primarie, valsero dall’altra parte ad accrescere il fervore religioso nei due capi dell’Isola. Ond’è, che il secolo XVII, tanto per Cagliari quanto per Sassari, può dirsi il secolo della santità, delle processioni, della floridezza dei conventi, e delle pratiche religiose moltiplicate straordinariamente. Raro fu il prete, o il frate, che non scrivesse la storia di uno, o più santi, coi relativi miracoli.

I benefattori sassaresi

Il fervore religioso (notevolmente accresciuto dopo il ritrovamento di tante reliquie e le illustrazioni manoscritte od a stampa che circolavano nell’Isola) invogliò molti cittadini sassaresi, specialmente del ceto ecclesiastico, a rendersi benemeriti con l’impianto di istituti che tornassero a vantaggio della istruzione e della religione insieme.

Già nel secolo precedente il cittadino Alessio Fontana aveva dato uno splendido esempio di munificenza, col fondare uno Studio generale sotto la direzione dei Gesuiti. Il secolo susseguente fu iniziato con la generosità del sassarese Antonio Canopolo (arcivescovo di Oristano) il quale nel 1611 sovvenì  con somme vistose lo stesso Studio generale; nel 1613 fondò il Collegio Canopoleno; nello stesso anno costituì un fondo rilevante per la dotazione di zitelle povere, ed infine nel 1616 introdusse in Sassari a proprie spese la prima tipografia.

L’esempio del Canopolo fu seguito dal suo nipote Paolo Ornano, il quale con testamento del 1682 volle che si fondasse a Sassari il Collegio dei Padri Scolopi.

Altri benefattori furono i due sassaresi Gaspare Vico e Gio. Battista Brunengo; i quali nel 1611 e 1668 dotarono largamente lo Studio generale, profondendo le proprie ricchezze per dar lustro al paese nativo – sempre con lo scopo di pareggiarlo, se non superarla, alla città rivale, che si faceva avanti col titolo di capitale e di sede di un Viceré.

Ai benefattori della istruzione tennero sempre dietro quelli delle chiese e dei conventi maschili e femminili. Don Gavino Marongiu Gambella, con testamento del 1609, aveva disposto di fondare a sue spese i tre conventi dei Mercedari, dei Carmelitani e dei Trinitari. La vedova di lui, Donna Margherita Tavera, costrusse la chiesa e il monastero delle Isabelline, e vi si rinchiuse con molte sue compagne nel Luglio del 1628. Don Giovanni de Ansaldo, nel 1635, istituì la festa dei Cavalieri nella chiesetta di San Giacomo. Il medico Vico Guidoni fece erigere la chiesa di Sant’Andrea per donarla alla Confraternita del Santissimo Sacramento, di cui fu socio Don Gio. Battista Tola; nel 1695, edificò l’antiportico della chiesa delle Cappuccine. E taccio dei molti altri cittadini, che, con testamenti ed atti pubblici, profusero somme vistose per restaurare ed arricchire di arredi sacri chiese e cappelle, per inalzare nuovi altari, per dotare monasteri e conventi, per fondare cospicue Cappellanie, o Canonicati.

Era una nobile gara di opere pie, provocate in gran parte dallo spirito di rivalità fra le due città che si dicevano sorelle.

Processo scandaloso

La storia a noi parla di uno scandaloso processo, fatto istruire per ordine del re nel 1641, contro Don Francesco Raimondo De Sena, governatore di Sassari, accusato di alto tradimento.

La voce pubblica, e non pochi testimoni, dicevano che, mentre il De Sena sopra una nave faceva ritorno dalla Spagna, erasi imbattuto in alcuni bastimenti francesi, che in alto mare lo catturarono. Per ottenere la libertà, il governatore venne a patto con gli aggressori, promettendo loro di consegnare in potere della Francia la città di Alghero.

Questo indegno funzionario, che pare fosse sul serio un cattivo soggetto, venne pure imputato di abusi, prepotenze, scandali, e non so quanti altri eccessi, formanti in complesso ben 48 capi di accusa. Fatto è, che, per istanza del Municipio di Sassari, il processo venne sospeso, ed il De Sena reintegrato nella carica di governatore.

Più tardi si ordinò di riaprire il processo, ma la morte liberò l’accusato da ulteriori seccature.

Anche in questo fatto celasi un mistero non rivelato dalla storia. E’ però indubitabile, che i due governatori De Sena (quello del 1528 e quello del 1645) non erano farina da fare ostia; ma i pezzi grossi d’allora, come quelli di oggidì, sfuggivano facilmente alle reti, che la giustizia suol preparare per i piccoli malfattori.

I tre Marchesi

Erano questi il marchese di Laconi, il marchese di Camarassa, ed il marchese di Cea, morti tragicamente. Riassumerò gli avvenimenti, togliendoli in buona parte da una relazione autografa inedita, compilata sui processi.

Si erano convocate a Cagliari le Corti generali, nelle quali il marchese di Laconi era prima voce dello Stamento militare – cioè a dire di tutta la nobiltà sarda. La Spagna chiedeva all’isola un soccorso in danaro per far fronte alla guerra contro la Francia; e la maggioranza del Parlamento si era decisa a darlo, purché ai sardi si concedessero nuovi privilegi. Il Viceré marchese di Camarassa, che naturalmente parteggiava per il governo spagnuolo, si era messo in urto col marchese di Laconi, il quale si opponeva energicamente alla donazione.

Il Parlamento, intanto, sospese ogni discussione in proposito, ed inviò il marchese di Laconi come Sindaco alla Corte di Madrid, affinché trattasse direttamente la pratica senza perdita di tempo. Sebbene però egli si fosse fermato per oltre un anno nella Spagna, non riuscì a venire ad un accordo. Il regio governo voleva soldi, ma non intendeva concedere alcun nuovo privilegio.

Di ritorno da Madrid, il marchese sbarcò a Portotorres, e venne a Sassari il 20 Aprile del 1668, accolto con sommi onori, e salutato dalla popolazione come padre della patria.

Dopo aver continuato il viaggio trionfale per tutto il Logudoro (viaggio che durò un mese preciso) il 20 Maggio egli rientrò a Cagliari, dove gli fu fatta una entusiastica dimostrazione, come ad un benemerito cittadino. Il marchese, però, non tardò ad accorgersi che come marito aveva perduto molto terreno!

La moglie, il marito e l’amante

La giovane e avvenente moglie del marchese di Laconi (Donna Francesca Zatrillas) aveva stretto relazione amorosa col giovanissimo suo cugino Silvestro Aymerich, un bell’ufficialotto venuto di recente dalla Sicilia.

Durante l’assenza del vecchio marito, la giovane coppia erasi accesa di forte amore, e, quando comparve l’importuno marchese, concertarono entrambi di toglierlo di mezzo per godere più liberamente i trasporti amorosi.

L’urto palese fra il Viceré Camarassa e il marchese di Laconi (per le ragioni politiche da noi altrove esposte) fu il pretesto di cui si valsero i due amanti per mantellare il loro delitto, allontanando così i sospetti del pubblico, a cui era ben nota la tresca.

Prezzolati alcuni sicari, questi pedinarono il disgraziato marito, e lo uccisero a fucilate il 20 Giugno di quello stesso anno, un mese dopo il suo arrivo a Cagliari.

La morte del Laconi mosse a sdegno i membri più influenti della nobiltà sarda, e da un capo all’altro dell’Isola si alzò il grido della vendetta all’indirizzo del Viceré Camarassa, ritenuto generalmente quale autore dell’assassinio, per l’odio che nutriva verso il Laconi, sia per il noto affare politico, come per screzi e dissensi d’indole privata.

Si tennero diverse conventicole dai nobili di Cagliari e di Sassari; e si ordirono congiure, a cui presero parte, direttamente o indirettamente, personaggi ragguardevoli, fra i quali citerò i sassaresi Pietro Vico e Don Bernardino di Cervellon (arcivescovo e governatore di Cagliari) ed il marchese di Cea (zio della bella Francesca), onesto gentiluomo che ignorava la tresca di sua nipote.

Un mese dopo l’assassinio del Laconi, il 21 di Luglio, anche il Viceré marchese di Camarassa cadeva colpito da molte palle di moschetto, mentre in carrozza ritornava dalla Novena del Carmine.

Dopo la morte del Laconi, la vezzosa vedovella continuò apertamente la tresca col cugino Silvestro, menando a Cuglieri (dove con lui erasi ritirata) una vita scandalosa.

Il marchese di Cea, che forse cominciò a capire quanto era avvenuto, ideò il mezzo di allontanare i sospetti, combinando le nuove nozze della capricciosa sua nipote col Conte di Sedilo. Costui, nel mese di Ottobre, mosse da Sassari con la scorta d’onore di 20 uomini, e si spinse fino a Cuglieri per abboccarsi con la graziosa vedovella… che lo respinse inurbanamente.

Intanto venne istruito il processo contro gli autori dell’assassinio del Viceré; ma non si riuscì a trovare il bandolo della matassa – per la influenza degli alti personaggi, che volevano deviare ogni traccia, per non compromettere l’onore e la libertà di tanti nobili istigatori.

Fu appunto allora, che la regina Marianna d’Austria (la quale reggeva la monarchia spagnuola in nome di Carlo II) inviò in Sardegna con pieni poteri il Viceré Duca di San Germano, coll’incarico di scoprire ad ogni costo i rei, e di punirli senza riguardo né misericordia.

Gli inquisiti nel nuovo processo furono oltre una settantina, poiché vennero coinvolti, non solo quelli ch’erano intervenuti alle conventicole in odio al Viceré, ma anche quelli che nel Capo di Sassari avevano protetto il marchese di Cea. Questo vecchio gentiluomo, avvisato della caccia che gli si dava, erasi recato a Sassari, poi in Ozieri, ed in altre ville e castelli del Logudoro, protetto dovunque, e difeso con amore e fedeltà a tutta prova. Fra gli inquisiti di Sassari noto: Don Matteo Boil; Don Girolamo Zonza, Commissario della Cavalleria; Don Dalmazio e Don Felice Sanjust, figli del governatore; Nicolò Pinna, segretario della Reale Governazione; il Conte di Sedilo, Don Andrea Manca e Don Giovanni Battista dell’Arca.

Il galante Don Silvestro, don Francesco Cao e Don Francesco Portugues, anch’essi fra i principali indiziati, si erano dati subito alla fuga, e ripararono nel continente italiano. Così pure la vedovella Francesca, che si fermò a Nizza, e molto più tardi il marchese di Cea, che raggiunse i compagni.

Il traditore sassarese

E qui ci appare la trista figura di un nobile sassarese, Don Giacomo Alivesi – uomo già rotto ad ogni vizio e reo di molti misfatti. Trovo il suo nome tra gli inquisiti di Sassari, ma questa fu arte per allontanare il sospetto della sua perfidia.

A costui il Duca di San Germano aveva affidato l’inseguimento dei rei e Don Giacomo si accinse all’impresa, valendosi del più nero dei tradimenti. Fatto partire per Napoli, ivi fu arrestato, e poi rimesso in libertà. Recatosi a Roma, riuscì ad avvicinare Don Francesco Cao. Infingendosi caldo partigiano della causa dei fuggiaschi, li indusse a ritornare in Sardegna, dicendo che tutta la popolazione, a loro favorevole, li avrebbe difesi con le armi alla mano.

L’infame traditore, che aveva tenuto la maschera per più mesi, era riuscito con arte finissima a trarre nell’Isola Rossa (in vicinanza di Castelsardo) il marchese di Cea col suo servo Lucifero Gancella, Don Silvestro Aymerich, Don Francesco Cao e Don Francesco Portugues.

Era il 27 Maggio del 1671. Calate le tenebre, e dopo aver cenato allegramente nell’isoletta, si misero tutti a letto, perché stanchi dal lungo viaggio di mare.

A un certo punto, sbarcarono silenziosamente nell’isoletta molti uomini armati, guidati da un Don Gavino Delitala, che in precedenza aveva preso accordi con l’Alivesi, dal quale era stato sempre informato delle mosse dei fuggiaschi.

Il traditore Don Giacomo e il suo degno compagno Don Gavino, aiutati dai loro sgherri, arrestarono e legarono il marchese di Cea e il suo servo (che si volevano vivi), indi si gettarono sugli altri tre dormenti, li uccisero barbaramente, e spiccarono le teste dai loro busti.

Ciò fatto, si misero tutti in viaggio alla volta di Sassari, portando seco i due prigionieri e le tre teste sanguinanti. Fecero una breve sosta a Sedini; e di là Don Giacomo Alivesi mandò una lettera al governatore di Sassari, dandogli notizie delle prodezze fatte, e pregandolo d’inviare alcuni uomini all’Isola Rossa per seppellire i tre cadaveri scapezzati che colà giacevano.

Il corteo proseguì la marcia trionfale, e giunse a Sassari il giorno 29. Don Giacomo Alivesi, seguito dai due prigionieri e dalle tre teste, presentossi a Don Diego Scalz, delegato viceregio il quale, dopo la ricognizione delle teste e dei prigionieri, affidò le une e gli altri in custodia al marchese di Villarios e a Don Michele Manca, fornendo loro un buon numero di armati.

E il povero Marchese venne esposto per alcune ore al pubblico, dinanzi ad una folla che commentava in diversi modi quell’arresto brutale, lanciando improperi all’indirizzo del vile che lo aveva dato in mano alla giustizia. L’Aleo racconta, che i tre cadaveri degli uccisi vennero collocati nelle forche fisse del Carmine vecchio. Nella relazione questa circostanza è taciuta.

Esposizione feroce

L’indomani (30 Maggio), il Delegato del Viceré mandò a chiamare tutti i chirurghi di Sassari, ordinando loro di togliere le cervella dalle tre teste, e di riempire i crani di sale. Ciò eseguito, le teste vennero collocate sopra un palco, in precedenza costrutto, ed eretto sulla pubblica strada di Santa Catterina (così è detto nella relazione autografa). A guardia di esso palco era stata messa una compagnia di soldati.

Allo stesso tempo venne affisso nei soliti luoghi della città un bando in lingua castigliana, che qui riporto per intiero, tradotto in italiano:

«Il Nobile e Magnifico Dottor Don Diego Scalz e Salzedo del Consiglio di Sua Maestà, Giudice della Reale Udienza, Delegato ed Alternos di Sua Eccellenza.

«Illustre e fedele Città di Sassari, Titolati, Nobili, Cittadini e Plebe:

«Queste sono le tre teste di Don Francesco Cao, di Don Francesco Portugues e di Don Silvestro Aymerich, rei principali dell’esecranda, atroce e barbara morte perpetrata nella persona dell’Eccellentissimo Signor Don Emanuele Gomes de los Cabos, Viceré, Luogotenente e Capitano Generale di questo Regno di Sardegna; le quali si espongono in questo catafalco eretto sulla piazza pubblica, affinché tutti le vedano, e servano a ciascuno di esempio, e perché d’ora in avanti si viva con le attenzioni che sono necessarie; ordinando e comandando ad ognuno di qualunque grado e condizione, che non ardisca levarle, né toccarle dal loro catafalco, ove sono e si vedono, sotto pena della vita, confisca di tutti i beni, e di essere dichiarato nemico della Patria, traditore del Re, oltre ad essere perpetuamente macchiato con nota d’infamia. E acciocché tutto quanto sia notorio a ciascuno, ordina che sia pubblicato ed affisso da per tutto nei luoghi soliti di questa città di Sassari con tromba e voce di Banditore. – Fatto in Sassari li 30 Maggio 1671. – Don Diego de Scalz y Salzedo».

Un’ora dopo pubblicato il suddetto bando, il Delegato Vice Regio ne fece affiggere un altro, ordinando a tutta la cavalleria della Milizia, ai Nobili, Cavalieri, Titolati, Cittadini e Plebe, che alle ore sei dello stesso giorno si tenessero pronti con armi, cavalli e tutto l’occorrente, per accompagnare a Cagliari il corteo – pena la vita e la perdita dei beni a chi non avesse ubbidito.

E all’ora indicata, tutti a cavallo, preceduti dal Delegato Vice Regio, si recarono alle carceri per prendere i prigionieri – dopo aver levato le tre teste dal catafalco per chiuderle in un sacco.

Ciò fatto, i componenti il corteo s’incamminarono alla volta di Alghero, ed entrarono in questa città alle due dopo la mezzanotte.

Da Alghero a Cagliari

Appena arrivati in Alghero i prigionieri e la lugubre processione dei nobili e degli sgherri, il Delegato viceregio aspettò il mattino per dare esecuzione a quanto era stato fatto a Sassari. Anche colà si affisse lo stesso bando, e si collocarono le tre teste sopra un catafalco, già pronto dal giorno precedente; ma siccome intorno alle teste nessuno poteva stare per il gran fetore che mandavano, si diè ordine di collocarle sulla torre di Porta Terra, in modo che tutti potessero vederle.

Poche ore doppo, il triste corteo parti alla volta di Cagliari, dove arrivò il 9 Giugno, scortato da due compagnie di corazze e da un battaglione di fucilieri, mandati all’incontro dal Duca di San Germano.

In Cagliari era un’agitazione indescrivibile. La gente accorreva da ogni parte per vedere quel vecchio gentiluomo, un tempo da tutti venerato, arrivare cosi malconcio nella sua città nativa, dopo un viaggio di tredici giorni da un capo all’altro dell’Isola.

Dopo messi in prigione il marchese ed il suo servo, il carnefice portò in giro per le vie di Cagliari le tre teste di Don Silvestro, del Cao e del Portugues, e fini per collocarle sul catafalco, eretto dinanzi la casa, donde erano partite le fucilate che avevano ucciso il Viceré Camarassa.

Il 12 Giugno fu letta la sentenza di morte: e il giorno seguente, alle ore 5 pomeridiane, la mannaia troncava il capo dell’infelice marchese, zio di Donna Francesca Zatrillas.

E cosi finì la tragica storia dei tre marchesi di Cea, di Laconi e di Camarassa.

Il Duca di San Germano e Don Giacomo Alivesi ebbero premi ed onori dal governo di Spagna per la buona riuscita della caccia fatta. Scrive l’Aleo, che non essendosi potuti pagare per mancanza di fondi i 6.000 scudi promessi dal re, questi concesse all’Alivesi le ville di Siligo e Banari con le terre circostanti, già appartenenti al Marchese di Cea, con l’obbligo di pagare a Don Gavino Delitala 120 scudi ogni anno per l’assistenza prestata nella felice impresa compiuta.

Donna Francesca (vedova del Marchese di Laconi e del secondo marito don Silvestro Aymerich), erasi ritirata in un monastero di Nizza, e morì in odore di santità, protetta dal Duca di Savoia e dalla madre del re Carlo II.

Ma la città di Sassari segnalò sempre con una nota d’infamia il suo indegno figlio Don Giacomo Alivesi, traditore venduto ed obbrobrio della terra che gli diede i natali.

Riassunto del secolo XVII

Oltre gli avvenimenti da me finora riassunti, darò un cenno delle notizie più rilevanti che riguardano la città di Sassari durante il Seicento.

Nel 1631 – e così per una trentina d’anni – i sassaresi e la magistratura furono vivamente impressionati dalle numerose squadriglie di banditi che scorrazzavano per le campagne di Sassari. Fra i più terribili banditi è notato Giovanni il Galluresu, ucciso dai soldati ad Osilo, mentre usciva dalla casa di una sua ganza. L’Aleo ci dice, che gli fu spiccata la testa dal busto, la quale fu portata a Sassari infissa in una lancia, per essere inchiodata sulla forca pubblica, insieme al corpo fatto a pezzi.

La notizia che i francesi avevano approdato all’Asinara impensierì i sassaresi nel 1637 e il Governatore spedì colà molti cittadini armati per scongiurare qualche brutta sorpresa.

Fra le numerose pesti che decimarono la città di Sassari, a cominciare dai primi del secolo XV, quella del 1652 fu la memorabile, poiché uccise quasi la metà della popolazione, togliendo al paese molti distinti e valorosi cittadini, fra i quali l’Arcivescovo Don Andrea Manca.

Nell’anno seguente (1653) la stessa peste minacciò seriamente la città di Cagliari, ed il Viceré Conte di Lemos se ne venne a Sassari, dove convocò uno di quei famosi Parlamenti, per cui i sassaresi avevano tanto brigato, supplicando invano i diversi re, perché ne ordinassero la convocazione, ora in una, ed ora nell’altra delle due città primarie. Il Parlamento riunito dal suddetto Viceré, fu l’unico che si tenne in Sassari, fra i sette convocati nel secolo XVII, tre dei quali sotto il regno di Filippo III, e quattro sotto quello di Filippo IV.

Gli altri Parlamenti convocati a Sassari nei due secoli precedenti non furono che parvenze – sedute monche, iniziate e non portate a termine, a solo scopo di far cessare le mormorazioni dei sassaresi, o meglio dei Nobili e Sindaci di Sassari ai quali tornavano disagiose, quanto umilianti, le gite a cavallo che dovevano fare fino a Cagliari, per prendere parte alle assemblee.

Provvida fu la legge votata dal Parlamento sardo nel 1624. Essa obbligava i contribuenti (cioè quelli che pagavano il fuoco) ad innestare ogni anno almeno dieci olivastri nei luoghi in cui mancavano – ed in premio l’innestatore diventava proprietario di essi. Più di ogni altra regione, la campagna di Sassari avrà certamente approfittato di questa legge per aumentare il numero dei suoi oliveti.

Abbiamo già parlato, alla rubrica Primato e reliquie, dei numerosi santi e delle continue funzioni religiose, che caratterizzarono il secolo XVII in Sassari – a differenza del secolo XV, in cui la troviamo calda di amor patrio, ribelle ad ogni signoria, ed armigera per eccellenza.

Fra le funzioni o feste religiose di quel tempo bisogna segnalarne due che avevano in Sassari la prevalenza, e continuarono ad averla per altri due secoli – fin quasi alla metà del secolo XIX. La prima è quella di San Gavino, per la quale i Consiglieri, con gran pompa, si recavano due volte l’anno a Portotorres per visitarvi la basilica e per gozzovigliare lautamente a spese del Comune. La seconda festa, non meno pomposa, era quella dei Candelieri, alla quale erasi data maggior importanza e solennità dopo la peste del 1652.

Dei conventi e monasteri ho fatto un cenno nella rubrica Benefattori. Il loro numero era rilevante, poiché alla fine del secolo se ne contavano ben diciassette.

Taccio per ora delle numerose corporazioni delle arti e mestieri (Gremi) e delle numerose Confraternite, a cui si ascrivevano i più distinti cittadini di Sassari, a cominciare dai nobili.

La gelosa e ridicola cura dei cerimoniali e delle preminenze gerarchiche raggiunse il colmo in questo secolo delle forche, delle processioni e dei roghi, eretti o minacciati dalla Santa Inquisizione (processioni e forche continuate anche nel secolo susseguente, come vedremo). I sassaresi, sotto l’impero dei pizzi, dei gingilli e delle parrucche, avevano in generale la grave posa spagnolesca, rifuggendo dalle armi e dalle ribellioni. Il popolo sassarese, durante il Seicento, era piuttosto quieto, e a governarlo bastavano una dozzina di feste, o pochi tratti di corda.

Lungo il secolo XVII non sorsero in Sassari edifizi d’importanza, all’infuori dei modestissimi conventi e chiese da noi menzionati. Possiamo solamente notare la fabbrica dei locali della Università e del Convitto Canopoleno: più la fontana di Rosello, ch’era stata restaurata in miglior forma nel 1605, sotto il regno di Filippo 111.

E in siffatte condizioni si mantenne l’edilizia in Sassari per un altro seco-lo e mezzo poiché le case signorili, chiuse nella cerchia delle vecchie muraglie, non erano allora, nella massima parte, che catapecchie più volte restaurate, o più volte ricostrutte, prive di comodità e di buon gusto estetico.

Ci resta a parlare degli uomini illustri sassaresi del secolo XVI. Primo fra tutti era salito in fama l’arciprete Fara, il padre della storia sarda, non solo nella città nativa, ma in tutta l’isola, ed anche fuori. Tanto è vero che il visitatore Carrillo (quando nel 1612 visitò la Sardegna per incarico di Filippo III) parlando dei sardi illustri, nella sua relazione ne citò solo due: il dottor Francesco Fara, arciprete turritano, che pubblicò il primo libro De rebus sardois nel 1580; e il Dottor Girolamo Olives, che pubblicò i suoi commenti alla Carta de Logu nel 1567.

Durante il secolo XVII si distinsero i seguenti sassaresi:

Don Francesco Angelo Vico, Reggente nel supremo Consiglio di Aragona nel 1639 pubblicò in Madrid la Storia di Sardegna in due grossi volumi – e nel 1640, a Napoli, le famose sue Prammatiche. La prima di queste opere divenne popolare, e in quei tempi era in mano di tutti, specialmente dei Nobili che la consultavano per la successione dei feudi. Dirò anzi, che essa contribuì ad accendere le gare municipali fra Sassari e Cagliari, ed accrebbe nei patrizi sardi e nei borghesi arricchiti la smania dei diplomi di nobiltà e dei titoli di cavalierato.

Altro cittadino sassarese in fama (ma oggidì quasi dimenticato) fu Don Pietro Frasso Pilo. Studiò nell’Università di Salamanca, e fu nominato dal Re avvocato fiscale in America (prima a Guatemala, poi nel Messico ed in Lima). Nel 1677 pubblicò in due grossi volumi De regio patronatu Indiarum, stampati in edizione di lusso, col ritratto suo, in Madrid – dove morì nel 1693. (Il Tola e il Martini ignorarono il luogo e l’anno della sua morte).

Al Vico ed al Frasso dobbiamo aggiungere altri tre sassaresi di valore: i due distinti medici Don Andrea Vico Guidoni e Don Gavino Farina, che pubblicarono monografie nel 1638 e 1651; e il pittore Diego Pinna, autore di alcuni quadri eseguiti verso il 1614 e 1626.

Veniamo ora alla fine del XVII secolo, per gli avvenimenti politici che si prolungarono fino ai primi anni del secolo susseguente.

Morto nel 1700 Carlo II, questi aveva lasciato la corona al nipote Filippo V, al quale la contrastò Carlo, Arciduca d’Austria, che pretendeva avervi diritto. Da siffatta contestazione nacque la così detta guerra di successione, che scisse i popoli in due partiti.

Ai Sardi, che da oltre due secoli vivevano in pace col governo di Spagna, non parve vero di darsi alla lotta per togliersi al noioso quietismo.

I tumulti cominciarono in Gallura, e quindi in Sassari. La popolazione si divise in due parti: l’una voleva i tedeschi perché stanca degli spagnuoli – l’altra voleva gli spagnuoli per conservare i favori, o per essere di parere contrario… tanto per fare un po’ di chiasso contro gli avversari.

E con questa altalena, tra un Filippo ed un Carlo, si chiuse un vecchio secolo e se ne aprì uno nuovo.

Sotto i tedeschi

I frutti della così detta guerra di successione non si fecero a lungo attendere. Fra l’altalena dei Carlisti e dei Filippini, la flotta anglo-olandese il 12 Agosto 1708 comparve nel golfo di Cagliari e le porte della Capitale si schiusero tranquillamente al nemico, per opera dei partigiani dell’Arciduca d’Austria.

Alghero, Castellaragonese e Sassari seguirono l’esempio di Cagliari, e da quel giorno anche i sassaresi furono tedeschi… anzi continuarono ad essere spagnuoli.

L’avvenimento più importante per Sassari nel periodo tedesco fu la violenza subita per la imposizione della gabella, ossia estanco del tabacco.

Il 20 Luglio 1714 venne d’urgenza convocato il Consiglio comunale, per rispondere ad una carta spedita dal Viceré conte d’Hatalaya, con la quale egli invitava i padri della patria ad annuire alla imposizione dell’Estanco. I consiglieri gli risposero, che non potevano accondiscendere all’invito, perché vi si opponevano i privilegi concessi alla città dai Reali di Spagna.

Indignato il Viceré per la irriverente risposta, venne furioso a Sassari con le sue soldatesche ed i cannoni. Pregò, minacciò, ma inutilmente, perché i consiglieri furono irremovibili.

Dopo ripetute ripulse da una parte, e altrettante minaccie dall’altra, il Consiglio del comune fini per accondiscendere, protestando però altamente che cedeva alla sola violenza, senza rinunciare ad un diritto che aveva il dovere di far valere.

Il contegno dei consiglieri era degno di encomio e basta leggere le deliberazioni di quelle memorande giornate per ammirare il patriottismo, la fierezza ed il coraggio dei rappresentanti della città di Sassari.

Il dominio tedesco ebbe la durata di nove anni – dal 1708 al 1717 – e si svolse fra i tumulti, le ribellioni e gli arresti di molti sassaresi. Continuo nonpertanto il cozzo tra coloro che volevano ritornare agli spagnuoli e quelli che preferirono rimanere coi tedeschi, forse nella speranza di averne favori ed ingraziarseli.

Fra le ribellioni ed i tumulti, non mancarono nondimeno le feste e le processioni, la tortura e le frustate in piazza, gli omicidi e le impiccagioni, le luminarie ed i fuochi d’artifizio. I tempi erano calamitosi, e gli abitanti vivevano in angustie.

Di nuovo spagnuoli

Il ministro ed abate Alberoni, che menava per il naso il re Filippo V di Spagna, si propose di ricuperare la Sardegna, in opposizione ai trattati, e vi spedì  una potente flotta.

Il marchese di San Filippo, Baccalar, alla sua volta, adoperava tutta la sua autorità nel Logudoro e nella Gallura perché venisse proclamato il Re cattolico spagnuolo.

Il governatore di Sassari (il marchese di Benites) fece subito arrestare diversi cittadini sassaresi, partigiani di Filippo, e li mandò nelle carceri di Alghero.

Non mancarono in Sassari i gravi tumulti, per opera dei due partiti fautori di Filippo di Spagna o di Carlo d’Austria; ma gli uni e gli altri furono colti da sgomento, quando appresero che molte galere spagnuole erano già arrivate a Portotorres, e che un reggimento di fanteria e trecento cavalli aspettavano un cenno per prendere d’assalto la città di Sassari.

Dietro accordi presi, i sassaresi decisero finalmente di non far resistenza, e si lasciarono prendere dai nuovi dominatori, i quali non erano che gli antichi! – La città di Cagliari fece altrettanto il 29 Settembre – e così in seguito Alghero e Castelgenovese. Bestemmiare in lingua spagnuola contro gli spagnuoli sembrava una cosa troppo strana per tutti i sardi, e perciò decisero di tornare all’antico.

Il governo austriaco erasi affrettato a mandare in Sardegna rinforzi di truppa, ma non sufficienti a tener fronte agli invasori. I quattrocento soldati tedeschi inviati da Napoli non tardarono a cadere nelle mani dei Filippeschi di Gallura, dai quali vennero fatti prigionieri e mandati nelle carceri di Sassari.

E così i sassaresi, insieme a tutti i sardi, sottostarono nuovamente al dominio spagnuolo per altri tre anni – cioè dal 1717 al 1720.

Niente di notevole accadde in Sassari durante questo triennio, tranne le continue lagnanze o ribellioni contro le autorità ed i soldati spagnuoli, i quali erano rientrati nell’Isola come tanti cani idrofobi – forse per vendicarsi dei sardi che li avevano posposti agli austriaci.

Le vessazioni e le spese eccessive, a cui i sassaresi erano stati assoggettati dal governo spagnuolo della seconda maniera, avevano inasprito tutti gli animi; tanto è vero che il Municipio sassarese ne fece rimostranze al re con memoria del 10 Agosto 1718.

Mentre la popolazione di Sassari malediceva a denti stretti tutti i tedeschi e gli spagnuoli del mondo, un bel giorno giunse la notizia del famoso trattato sottoscritto a Londra ed a Parigi nel Novembre del suddetto anno. L’Isola di Sardegna era stata destinata a Vittorio Amedeo di Savoia, in cambio della Sicilia, in cui regnava da soli sei anni.

Il passaggio dell’Isola alla nuova signoria non si effettuò che due anni dopo, e precisamente l’8 Agosto del 1720.

E i sassaresi – dopo essere stati pisani, genovesi, spagnuoli e tedeschi – una bella mattina si svegliarono piemontesi!