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Sotto gli Aragonesi (dal 1323 al 1479)

Trattative di cessione

Fin dal 1295 Bonifacio VIII aveva promesso al re di Aragona la concessione dell’isola di Sardegna. Abbiamo notato la solenne investitura fatta nel 1297; poi l’ambasciata dei sassaresi nel 1306. Nel 1307 i Doria avevano promesso di aiutare il re, specialmente per la conquista del Giudicato turritano, meno la città di Sassari che apparteneva a Genova; a condizione però, che lo stesso re confermasse i diritti ed i beni che vantavano in quella regione. E l’accordo (come nota il Ferretto) fu conchiuso dal famoso Brancadoria e da suo figlio Bernabò.

Nondimeno il re Don Giacomo non fu in grado di prendere possesso dell’Isola che nel 1323.

Il re inviò in Sardegna l’infante Don Alfonso, il quale salpò da Barcellona il 31 Maggio del suddetto anno, prestabilendo di approdare ad Alghero, dove lo attendeva Branca Doria.

L’infante, invece, entrò nel porto di Palmas il 12 Giugno, e di là scrisse al padre, informandolo che avrebbe conferito con Branca e Bernabò Doria a riguardo dell’Isola. (Così il Ferretto).

Guantino Catoni

L’antico partito guelfo di Sassari, memore sempre della libertà per lungo tempo goduta, appena ebbe notizia dell’arrivo di Don Alfonso nel golfo di Palmas, pensò di ricorrere nuovamente a lui.

Capo di questo partito era Guantino Catoni, uno dei più animosi cittadini sassaresi, amico dei Doria e dei Malaspina, quanto implacabile nemico dei pisani. Ci dice il Vico che, per privilegio imperiale, il Catoni conduceva sempre seco, per suo servizio e difesa, una guardia di trenta soldati.

Quando quel fiero cittadino vide pericolare l’indipendenza del suo paese (per il mal governo dei genovesi, la cui libertà erasi cambiata in servitù), egli decise di sottrarre la città di Sassari al dominio dei signori mercanti, per assoggettarla volontariamente ad una dinastia potente – alla quale, d’altra parte, non avrebbe potuto opporre lunga resistenza, perché troppo debole e dilaniata dai partiti.

Ai suoi disegni era contrario il podestà; epperciò il Catoni, dopo aver incitato il popolo alla rivolta, cacciò i genovesi dalla città nell’Aprile del 1323, prendendo temporaneamente la direzione del Governo.

Il Consiglio maggiore, in cui prevaleva il partito di Catoni, aveva inviato il medico Pera a Barcellona, per offrire al re il vassallaggio in nome del Comune di Sassari: ed il re, fin dal 7 Maggio, concedeva ai sassaresi molti privilegi e franchigie.

Così pure, appena si seppe dell’arrivo di Don Alfonso al golfo di Palmas, il Catoni, insieme ad altri quattro cittadini sassaresi, si recarono colà per rinnovare gli omaggi a quel sovrano. Anche Ugone, Giudice di Arborea, aveva fatto altrettanto: e con lui i Malaspina ed i Doria, fra i quali Bernabò e Branca.

L’assedio d’Iglesias, per opera degli aragonesi, cominciò il 29 Giugno del 1323, ed ebbe termine il 7 Febbraio dell’anno successivo, con la sconfitta dei pisani, i quali si arresero per fame.

L’infante e la sua flotta salparono dall’Isola il 18 Agosto 1324.

Branca Doria de Nurra

La potenza aragonese nell’Isola, gli onori resi al Giudice d’Arborea, al quale il re aveva concesso in feudo il Giudicato, l’affidamento del Logudoro e della città di Sassari alla Corona; l’esclusione assoluta di Branca Doria e del figlio Bernabò, ai quali era stata vietata ogni ingerenza nei castelli conquistati dal re ed i nuovi privilegi concessi ai sassaresi, dovevano certamente generare la ribellione della potente famiglia genovese, le cui pratiche presso la Corona erano andate a monte.

Branca Doria gettò la maschera (dice il Ferretto) e si dichiarò nemico di Aragona e di Sassari, contro cui cospirava.

La storia registra un decreto del 17 Marzo 1325, col quale il comune di Sassari condannava nel capo Branca Doria de Nurra; lo bandiva perpetuamente dal suo territorio; gli confiscava i beni, e vietava a tutti i sassaresi di contrarre vincoli di matrimonio, o di aver relazione co’ suoi figli, ordinando che se ne facesse sacramento dagli anziani e dagli altri cittadini nel Consiglio maggiore.

Il Tola osserva, che mancano i documenti per poter immaginare la cagione di questo bando perpetuo ed egli suppone il Branca Doria de Nurra uno di quei cittadini che in Sassari sostenevano il partito genovese. Accenna pure, che non gli pare improbabile che si trattasse dell’uccisore di Michele Zanche.

Il Ferretto, all’incontro, lamenta che gli scrittori sardi non vogliano riconoscere nel detto Branca il vecchio parricida – e ciò per confusione di nomi.

Lo stesso scrittore aggiunge: che la morte deve aver colto Branca Doria e il figlio Bernabò, le cui teste caddero forse insieme sotto la scure del carnefice, poiché dai documenti è provato, che fra il 17 Marzo e il 3 di Agosto del 1325 mancarono di vita questi due personaggi.

Pur rendendo omaggio all’accurato e sapiente studio del Ferretto, e pur ammettendo la probabilità cui accenna il Tola, a me pare che di altro Branca Doria si trattasse. Più credibile sarebbe stato il fatto, se questo Branca fosse morto serenamente sul suo letto, a novantadue anni; ma non è ammissibile che in siffatta età cadente egli avesse avuto tanta forza ed energia da poter correre, cosi vecchio, da un punto all’altro della Liguria e delle due isole di Corsica e di Sardegna, con viaggi sì lunghi e disagiosi. Noi infatti, a 88 anni, lo vediamo in viaggio da Genova a Savona ed a Lerici; da Bonifacio a Castelgenovese; da Casteldoria ad Iglesias; ed infine, più che novantenne, capo di una ribellione a Sassari, dove nel 1325 è condannato a morte… insieme al suo figlio Bernabò, di cui non si parla nel decreto del Comune!

Vuolsi che il comune di Sassari vietasse ai suoi cittadini di contrarre matrimonio coi figli di quel Magnifico, appartenente ad una delle primarie e più ricche famiglie di Genova. Ma quale signorina da marito poteva aspirate in Sassari ad un partito sì vantaggioso? E chi erano i figli di Branca? Bernabò, forse, o Mariano, i quali certamente avevano oltrepassato la cinquantina?

Altro sospetto, che non trattasi del genero di Michele Zanche, in me nasce dalla menzione che del padre e del figlio si fa nei documenti citati dal Ferretto. In essi è sempre detto: Bernabò e Branca Doria – mentre era naturale che si dicesse, in ordine all’età e alla importanza: Branca e Bernabò Doria.

Dunque, di altro Branca Doria si tratta; ma noi non sappiamo per qual ramo sia a noi pervenuto. Lo stesso Ferretto ci ha segnalato tre antenati di Branca col nome di Nicol, due o tre con quello di Manuele, e così via via. Perché dunque non vogliamo ammettere due o tre Branca? E chi può contrastarci, che a Branca Doria fu aggiunto il de Nurra, appunto per non confonderlo col parricida, e non per un sopranome datogli dai pisani per derisione, come vuole il Ferretto? – I Doria a Genova erano prolifici come i Costa, e Dio sa quanti nomi si saranno ripetuti di generazione in generazione.

Il genero di Michele Zanche, secondo me, morì tra il 1300 e il 1316 – e l’altro Branca è uno dello stesso nome, di cui s’ignora l’ascendenza e la discendenza, e che forse aveva pur casa in Sassari. Probabilmente a quest’ultimo, e non al primo, né al marito di Eleonora d’Arborea, va attribuita la dimora in Sassari, e così pure il battesimo di torre di Branca Doria, dato ad una delle quaranta torri che attorniavano la città, conservato fino alla metà del secolo passato.

Il primo Branca era vivente nel 1300, anno in cui Dante ne cacciava l’anima sua nell’inferno, lasciando il suo corpo sulla terra in preda ad un Demonio.

Quanto al secondo Branca, è probabilissimo ch’ei fosse uno dei potenti genovesi che aveva stanza in Sassari. Lo stesso Ferretto ci fa sapere, che nel 1326, dopo la condanna a morte di Branca e di Bernabò, i Doria residenti a Sassari avevano inviato ambasciatore al re di Aragona Antonio de Camilla. Non potrebbe esser questa una prova che trattavasi di un cittadino residente in Sassari? In questo caso si spiegherebbe facilmente il divieto ai cittadini sassaresi di contrarre matrimoni coi figli del ribelle bandito già condannato a morte.

Ad ogni modo, noi per ora riterremo il Branca de Nurra come il parricida novantenne; e ciò fino a quando il Ferretto – il diligente ricercatore – non riesca a dimostrarci che abbiamo torto, o che abbiamo ragione.

Sassari ribelle

Malgrado i privilegi e le franchigie in favore di Sassari, che piovevano ogni giorno per la generosità del re di Aragona, i cittadini sassaresi non sembravano troppo contenti del nuovo governo. Le riforme introdotte non soddisfecero punto la popolazione, poiché la monarchia aragonese aveva in gran parte violato i patti giurati.

I signori di Aragona avevano molto promesso e poco mantenuto e l’entusiasmo di Guantino Catoni cominciò a venir meno. O perché egli sperasse in favori promessi e non mantenuti, o perché raggirato dai Doria, i quali tentavano riacquistare l’autorità ed i beni perduti, fatto è che il Catoni fece lega con le più distinte famiglie di Sassari (specialmente coi Pala) e formò un partito potente che andò contro ai nuovi dominatori.

Gli odî si rinfocolarono, i malumori crebbero e il popolo un bel giorno insorse, divenne feroce, e fece carneficina di un buon numero di aragonesi che stanziavano in Sassari, compreso Raimondo di Semenato, governatore della città.

Vedendo che tornava vano ogni mezzo per ristabilire la calma, il re di Aragona perdette la pazienza, e ordinò che si cacciassero dalla città tutti i sassaresi, i pisani ed i genovesi che vi abitavano, col proposito di popolarla di catalani e di aragonesi, per opera di Don Berengario di Villaragut e di Bernardo Gamir, a tal uopo inviati da Barcellona col titolo di riformatori.

Guantino Catoni, condannato nel capo, esulò dalla città natia, e riparò nella Corte di Arborea, a cui aveva chiesto rifugio; ed ivi, poco dopo, lo colse la morte.

Gli esuli sassaresi, uniti ai Doria e loro aderenti, tentarono più volte di assalire gli aragonesi dentro città, ma ne vennero respinti. In seguito decisero di sottomettersi. Ond’è che il re di Aragona, per intercessione del Giudice di Arborea, aprì di nuovo le porte agli abitanti di Sassari, restituì loro le case e gli altri beni, e fece a tutti grazia – escludendo dall’amnistia le sole famiglie dei Pala e dei Catoni.

La storia moderna giudicò molto severamente Guantino Catoni, ma fu ingiusta. Chi può giudicarlo, senza conoscere le circostanze che lo mossero ad appoggiare e a combattere il partito genovese, per poi fare altrettanto col governo del re di Aragona? L’ho già detto: il tempo non fa giustizia, perché non sempre può appurare i fatti. – Ben disse il prof. F. Mancaleoni nella sua prolusione letta nell’aula universitaria: «- Vi è uno stato d’animo, che io direi pregiudizio storico, per il quale, quando si è di fronte ai fasti della umanità, come quando si è di fronte agli eroi della storia, si altera il senso della misura, e le cose si vedono con criteri e con sentimenti, in cui vi è alcun che di passionale; e sembran vere e verosimili cose, che nella vita comune sembrerebbero repugnare alle leggi normali di attendibilità…» – E questo senso di misura deve intendersi tanto per le lodi, quanto per i biasimi, gli uni e gli altri talora immeritati.

All’amnistia sovrana susseguì, nel 1326, un’altra infornata di reali privilegi, sempre dati e ritolti agli indocili sassaresi, per premiarli o punirli.

L’anno seguente (1327) si die’ principio alla costruzione del famoso Castello aragonese, con lo scopo di poter meglio combattere i sassaresi, nel caso di una nuova rivolta.

Leggo un Diploma del re Alfonso, del 1329, col quale si dà l’incarico a Bernardo Boyxados, nominato Riformatore di Sardegna, di indurre a concordia i Doria e loro aderenti, i quali mantenevano Sassari e l’Isola in continua guerra.

Assalti e invasioni

La città di Sassari, in parvenza di rassegnata, continuò ad essere malcontenta del governo aragonese. I Doria, che non volevano darsi pace per i beni e l’autorità che avevano perduto in Sardegna, speravano sempre di ricuperarli con le armi, o con l’intrigo. Ed infatti la storia ci tramanda un tentativo di ribellione da essi rinnovato nel 1330, e sedato per la intercessione di Ugone di Arborea.

Nemici acerrimi dei re di Aragona (sebbene un tempo avessero loro offerto il proprio aiuto per la conquista del Logudoro) i Doria istigarono continuamente i sassaresi alla rivolta – ed è indubitabile che in tutti gli assalti ch’ebbe a soffrire la città, molti cittadini appartenenti al partito genovese favorirono i nemici esterni, per facilitare loro la vittoria.

Gli assalti e le invasioni principali subite dalla città di Sassari in ottant’anni (dal 1332 al 1412) furono otto. Le indicherò brevemente.

Nel 1332, i Doria e loro aderenti che dominavano in Alghero, aiutati dai sardi tentarono un assalto alla città di Sassari; ma ne furono respinti per la energia del Viceré Raimondo di Cardona, e per il valore dei sassaresi, i quali furono ricompensati con i soliti privilegi.

Nel 1347, Matteo, Nicolò, Giovanni ed Antonio Doria, assoldarono un esercito di 6.000 fanti e 600 cavalli, e tentarono impadronirsi della città di Sassari, mettendola in istato di assedio. Il Viceré Cervellon, che si trovava in Sassari, oppose viva resistenza agli invasori, con la forza dei sardi e dei corsi, e con i rinforzi chiesti e venuti da Cagliari. Alle truppe regie toccò la sconfitta nelle vicinanze di Torralba, dove le diverse schiere d’armati s’incontrarono. L’anno susseguente si riuscì a togliere l’assedio, ed a liberare la città dei quattro fratelli Doria e loro assoldati – e questo mediante gli aiuti inviati da Mariano di Arborea.

Nel 1348 (o 1349) i Doria ed i Malaspina tornarono ad assediare per due volte la città di Sassari, con l’aiuto del figlio del Doge di Genova, il quale era di là partito con nuove forze. L’assedio fu del tutto tolto nel 1351, mediante il soccorso dei soldati aragonesi, e delle truppe mandate da Oristano dallo stesso Giudice di Arborea.

La quarta invasione, composta di sardi, liguri e lombardi, avvenne nel 1353. Questa volta fu Mariano di Arborea, il quale, in urto con la Corte di Aragona, fece causa comune coi genovesi. L’assalto venne respinto dai sassaresi con molto valore. Il re Don Pietro di Aragona sbarcò in Alghero e dopo aver bloccato quella città, venne a Sassari con la moglie e con la figlia, per accordare ai valorosi cittadini i soliti nuovi privilegi, i quali non erano che i vecchi riscaldati. Due anni dopo (nel 1355) il re cacciò da Alghero tutti gli abitanti, perché questi si erano dichiarati sudditi di Mariano. Il re la ripopolò di aragonesi e catalani… e questa volta fece proprio sul serio!

Altra invasione (la quinta) fu quella di Mariano di Arborea nel 1369. Egli spinse le sue truppe contro la città di Sassari; ma, malgrado la gagliarda resistenza dei sassaresi, se ne impadronì, occupando il castello per capitolazione, dopo avervi rinchiuso i capitani aragonesi. Mariano rimase padrone di Sassari per due anni; ed il Tola ci dice, che in quella occasione egli ebbe agio di studiare gli Statuti locali, a cui s’inspirò per compilare la Carta de logu, che più tardi dovea pubblicare la famosa Eleonora, sua figliuola. Gli aragonesi, dopo parecchi tentativi, riuscirono a ricuperare la città due anni dopo, nel 1371.

Sette anni dopo (nel 1378) si ebbe la sesta invasione, dovuta ad Ugone, figlio di Mariano, nemico anch’egli degli aragonesi. Entrò in Sassari senza contrasto, come assoluto padrone, e vi nominò podestà Giacomo Alberese, persona di sua fiducia. Questo Giudice confermò gli Statuti locali, e vi aggiunse anzi quei famosi capitoli nuovi, di cui altrove ho parlato, creduti fino a pochi anni fa compilati dal consiglio comunale sotto il dominio aragonese, e rivelatici da Enrico Besta. Gli storici ci dicono, che Ugone venne scacciato da Sassari nello stesso anno (1377 o 1378), dalle truppe spedite dal re Don Pietro; ma il Besta nota, che il Giudice di Arborea era già in Sassari fin dal 1374.

Dopo una diecina di anni di tregua, nel 1390, Brancaleone Doria (marito della famosa Eleonora di Arborea) entrò in Sassari con la forza, prese d’assalto il castello, e sottomise la città alla sua ubbidienza. Fu questa la settima invasione. I più distinti cittadini (per fermo aragonesi o titolati dai re) non vollero assoggettarsi al nuovo signore, e abbandonarono la città, riparando in diversi castelli, sorvegliati da soldati di Aragona, per la sicurezza dei fuggiaschi inquilini. In seguito essi inviarono messaggi al re Don Pietro, perché con una forte armata reprimesse l’audacia dell’arborense avversario, appartenente alla famiglia dei Doria. Anche di Brancadoria abbiamo negli Statuti sassaresi un’aggiunta al capitolo sull’eredità. Questo nuovo Signore venne cacciato da Sassari, con l’aiuto delle armi aragonesi, nel 1391, o 1392.

Bisogna riconoscere, che Arborea fu l’unica regione che mantenne salda la vera libertà e indipendenza sarda; e ben dice il Tola, che Mariano IV ed i suoi figli Ugone IV ed Eleonora avrebbero forse cinto la corona nazionale, se meno avverso alla Sardegna fosse stato il destino.

Il Visconte di Narbona

L’ottava invasione di Sassari avvenne nel 1410, diciotto anni dopo.

Morta di peste nel 1404 Eleonora di Arborea, e poco dopo il suo figliuolo Mariano, i popoli di Arborea andarono in cerca di un successore, poiché non andava loro a genio Brancaleone Doria, il vedovo della sarda legislatrice. La scelta cadde su Guglielmo III, visconte di Narbona, nipote di Beatrice, sorella di Eleonora.

Il visconte si trovava in Francia, e gli mandarono un’ambasciata perché venisse in Sardegna ad occupare il trono di Arborea. Egli non si fece pregare, e giunse nell’isola nel 1408. Da principio Brancaleone voleva fargli resistenza, poscia credette miglior partito unirsi a lui per riaffermare il governo del Giudicato.

Alla lega partecipò il comune di Sassari, nonché i Doria ed i Malaspina, sempre in urto cogli aragonesi.

Il re Martino di Sicilia, udito il caso, venne in Sardegna con forte nerbo di truppe, e nel 1409 vinse in battaglia il Visconte, il quale erasi accampato nelle pianure di Sanluri.

Brancaleone Doria fu fatto prigioniero, e di lui tace la storia; il Visconte passò in Francia per procurarsi nuovi aiuti, lasciando in Oristano il suo parente Cubello.

Morto in Cagliari il re Don Martino nel 1410, il visconte ritornò nell’isola con nuove forze, deciso di occupare la città di Sassari e gran parte del Logudoro – impresa non difficile, perché ebbe l’aiuto della maggioranza dei sassaresi.

Egli si spinse fino ad Oristano, ma sentendosi debole a combattere contro la lega dei Doria, degli aragonesi e di una buona parte degli abitanti di Arborea, tornò a Sassari nel Settembre del 1410.

Nell’anno seguente propose una tregua ad Oristano, che venne accettata; sconfisse Cassiano Doria, fece prigioniero Nicolò Doria, e si avanzò fino a Macomer, col proposito di penetrare nel territorio di Arborea.

Il 15 Febbraio del 1412, dal suo campo di Chiaramonti, egli spediva al cittadino sassarese Pietro de Fenu un diploma in lingua sarda, col quale facevagli donazione della villa di Monti, in ricompensa dei servigi che gli aveva reso.

Volendo prendere di sorpresa la città di Alghero, il visconte vi  si recò nel 6 Maggio di quello stesso anno 1412, insieme ad un figlio naturale di Amedeo VII di Savoia, di un buon numero di soldati francesi, e di numerosa schiera di cittadini sassaresi, felicissimi di menar le mani sulle spalle degli odiati figli di Aragona e di Catalogna. Col favore delle tenebre si tentò di scalare le mura della città; ma gli algheresi piombarono sui nemici e ne fecero strage. Il bastardo di Savoia venne decapitato all’indomani nella pubblica piazza, e il visconte si salvò con la fuga.

I sassaresi ebbero una buona lezione; e questa vittoria venne annualmente festeggiata dagli abitanti di Alghero con l’abbruciamento di un fantoccio rappresentante un soldato di Francia, e con una canzone tramandataci dalla storia, nella quale i francesi ed i sassaresi venivano designati come traditori. Questa canzone si cantava ancora in Alghero nel 1822.

Il visconte di Narbona aveva fatto prigioniero Nicolò Doria nel castello di Monteleone, sempre con l’aiuto dei sassaresi, i quali prendevano gusto a far la guerra a tutto il mondo. Più tardi il prigioniero fu rimesso in libertà con lo sborso di 3.000 fiorini, fatto dai buoni sassaresi, certo per riguardo verso un figlio di Genova, memori forse della libertà goduta sotto la repubblica dal 1294 al 1323.

Fallito l’assalto di Alghero, il visconte venne ad una conciliazione, deciso di tornarsene in Francia.

Nel 1413 (Dicembre) egli partì da Sassari e si presentò al re Ferdinando, il quale volle gratificarlo con lo stipendio di 1.000 fiorini.

Riporta il Dessì, che durante l’assenza del visconte, il barone Americo di Talleyrand soggiornò a Sassari, come risulta da un ordine di pagamento del 16 Giugno 1414.

Nel 1415 Guglielmo di Narbona pattuì col re di Aragona la cessione di quanto possedeva in Sardegna, compresa la città di Sassari, mediante il pagamento di 153.000 fiorini… che non gli vennero pagati. Morto il re Ferdinando, rinnovò la proposta al successore Don Alfonso V nel 1416… ma non si concluse nulla.

Il visconte lasciò l’Isola verso gli ultimi del 1416, e vi ritornò nel Marzo dell’anno seguente per eccitare i popoli sardi alla ribellione contro gli aragonesi, che non gli avevano dato neppure un soldo.

Finalmente nell’Ottobre del 1417, avendo ricevuto un acconto di 10.000 fiorini, il visconte passò in Francia, ritenendo però la città di Sassari in pegno, fino al pagamento del saldo… che forse non gli fu mai sborsato! Egli morì in Francia nel 1424, trasmettendo i suoi diritti sul Giudicato di Arborea e sugli altri beni di Sardegna al suo fratello uterino Pietro di Tinières.

Stanchi i sassaresi di sottostare alla signoria di un principe assente, inviarono nel 1420 alcuni ambasciatori ad Alfonso V, che trovavasi in Alghero, perché li accogliesse sotto la sua protezione. Il visconte di Narbona fu l’unico Giudice che coniò monete in Sardegna (forse perché non era Giudice!).

Un tradimento in Corsica

Nel 1410 venne abolito il titolo di Giudice di Arborea; e, per i nuovi patti conchiusi col re di Aragona, i Cubello (eletti dal popolo) diventarono Marchesi di Oristano e Conti di Goceano.

Dopo un secolo di guerre, l’Isola sarda, fin dal 1479, riconobbe un solo dominio. Spento, o affievolito lo spirito nazionale, in Sassari prima e poi in Oristano, la Sardegna indossò addirittura la giubba aragonese, e parve rassegnata al proprio destino.

Fra gli avvenimenti del secolo XV sono degni di nota la congiura di Bonifacio, l’assassinio di Don Angelo Marongio, e le gesta del Viceré Ximene Perez. Riassumerò i diversi fatti, che servirono di base al mio racconto storico Rosa Gambella, a cui rimando i lettori che desiderassero maggiori particolari.

Tanto il re Don Giovanni II, quanto il re Ferdinando il Cattolico, volendo impadronirsi dei litorali della Corsica (allora posseduti dal Comune di Genova) pensarono di conseguire l’intento con un tradimento, temendo d’andare incontro ad una sconfitta ed a spese ingenti, se s’impegnavano in un’aperta e leale battaglia.

I preparativi di questa losca impresa risalivano al 1458, anno in cui vi fu un tentativo andato a monte.

I capi della congiura avevano fatto assegnamento sugli ecclesiastici, in gran parte affezionati al governo spagnuolo, benefattore di chiese e conventi.

Nel 1460 era venuto a Sassari il Conservatore Generale di Aragona, il quale fu ospite del cittadino sassarese Don Antonio Cano, arcivescovo turritano. Dolendosi il Cano delle tristi condizioni in cui versavano gli abitanti di Bonifacio, in Corsica (fra i quali contava cari e devoti amici), il Commissario gli rispose, che l’unico mezzo per toglierli alle angustie era quello di raccoglierli sotto la bandiera del monarca di Aragona, il quale avrebbe loro concesso terre, danaro ed altri benefizi.

L’arcivescovo Cano, con lettera del 25 Luglio 1460, riferì in buona fede e con tutta segretezza il dialogo avuto col Commissario ad un certo Catharolo in Bonifacio, incaricandolo di comunicarlo agli amici più fidi.

Trascorsero circa venti anni senza che palesemente nulla si facesse – o perché più urgenti affari di Stato lo vietassero, o perché la storia non ce ne ha lasciato traccia.

Nel Febbraio del 1479, dopo la morte del re Giovanni II, le pratiche del tradimento furono riprese sotto il re Ferdinando il Cattolico, come diremo più avanti.

Le fila della congiura mettevano capo ad altri avvenimenti, che riepilogherò brevemente.

Alagon ed Angelo Marongio

I Cubello, nominati marchesi di Oristano e Conti di Goceano, avevano serbato fedeltà ai re di Aragona. Venuto a morte senza prole il terzo marchese (Salvatore) egli proclamò suo erede e successore il nipote Leonardo Alagon.

Per contese e screzi domestici, avvenuti col Viceré Carroz, Leonardo ebbe serî conflitti con lui, e nell’Aprile del 1470 attaccò le sue truppe, e le sconfisse in uno scontro.

Il re Don Giovanni finse di essere dolente di questo fatto, ma in segreto tentava di atterrare perfidamente il marchese di Oristano, per venire così in possesso dell’intiera Sardegna.

Da questa guerra sorda e mal celata nacque l’odio degli Alagon verso il re e gli aragonesi – odio continuato tenacemente, con tal coraggio e fierezza isolana, da rendere immortali nella storia quei prodi figli di Arborea.

Dopo diversi scontri fra i due nemici, e dopo alcune trattative di conciliazione andate a monte, il Viceré Carroz si decise a combattere strenuamente gli Alagon con tutte le forze possibili; e perciò egli chiese aiuto ai sassaresi, in fama di armigeri e di valorosi.

Il ricco, nobile e prode capitano Don Angelo Marongio, alla testa di 300 suoi concittadini armati, prese viva parte in diversi scontri contro Leonardo Alagon e le sue schiere; e nella giornata del 19 Maggio 1478, in unione alle truppe regie capitanate dal Viceré Carroz, egli riuscì a sconfiggere nelle vicinanze di Macomer l’armata del valoroso Leonardo Alagon.

L’infelice marchese di Oristano, dopo aver veduto cadere suo figlio Artaldo sul campo di battaglia, si diede alla fuga con alcuni suoi congiunti ed amici; riparò coi suoi fidi a Bosa, e di là s’imbarcò per mettersi in salvo. Ma in alto mare s’imbattè in un Villamarì, che lo condusse con tradimento a Palermo; di là fu trasportato in un castello della Spagna, dove morì nel 1490, dopo una lunga prigionia di oltre undici anni.

Appena sconfitto Leonardo Alagon in Macomer, i 300 vincitori sassaresi, con a capo Don Angelo Marongio, fecero l’entrata solenne in Sassari, portando seco una parte del bottino, e quattro figli bastardi del marchese, fatti prigionieri nel castello del Goceano. Come risulta da documenti il bottino fu diviso fra i combattenti sassaresi, ed i quattro fanciulli furono rinchusi nel castello di Sassari, dove morirono. Un profondo silenzio regna sulla morte di codesti infelici!

Il capitano Don Angelo, ricco di molti feudi, anche per parte della moglie, aveva il titolo di podestà de Sacer, y lugarteniente de Governador y Verrey (luogotenente del Governatore e del Viceré).

Assassinio in chiesa

Ma se in Sassari il capitano Marongio aveva molti ammiratori del suo valore, non mancavano i numerosi nemici che lo guardavano di malocchio. Un partito liberale propugnava in Sassari le ragioni di Leonardo Alagon, strenuo difensore dell’indipendenza sarda contro il dominio aragonese. Fra i nemici del Marongio erano i nobili Gambella, congiunti suoi e della moglie. Ma non era la sola ragione politica che accumulava tanti odi intorno al valoroso capitano, già condannato a morte dai misteriosi congiurati.

Pochi mesi dopo l’entrata trionfale in Sassari del Marongio (nel 1479), mentre costui pregava nella chiesa di San Nicola, venne barbaramente trucidato da alcuni sicari. Il Tola ci disse che fu assassinato nell’antiportico; altri in un altare della detta chiesa; ma da un recentissimo documento mi risulta, che egli era inginocchiato dinanzi all’altare maggiore, e che gli esecutori del delitto furono un Baingio Puliga sassarese, uno Stefano Delitala corso, ed altri corsi con lui.

Ma perché quei corsi? E’ indubitabile che l’assassinio del Marongio faceva capo ai congiurati di Bonifacio, e che il colpo era stato fatto per istigazione di un misterioso personaggio taciuto dalla Storia, ma che facilmente noi possiamo immaginare. Contro codesti esecutori del mandato di sangue venne spedito da Sassari un ricorso al re Ferdinando – e costui, in data del 22 Marzo 1480, rilasciò da Toledo un privilegio, di cui s’ignora il testo, ma che certamente si riferiva al barbaro assassinio.

Rosa Gambella e il Viceré Perez

Il capitano Marongio aveva per moglie una bellissima dama sassarese, Rosa Gambella, la quale aveva portato in dote al marito la Romangia, vasto territorio poco distante da Sassari, che comprendeva le ville di Sorso e di Sennori. L’assassinato lasciò tutti i suoi beni di Mores, Ardara, Bonorva ed altre ville, di cui era feudatario, alla vedova ed all’unico suo figlio Salvatorico, giovinetto di circa nove anni.

La giovane, bella e ricca vedovella era un partito che faceva gola ai più distinti giovinotti ed uomini maturi di Sassari, molti dei quali aspiravano alla sua mano.

In quel tempo veniva con frequenza da Alghero (dove trovavasi per segrete ragioni di Stato, che mettevano capo alla famosa congiura di Bonifacio), il Viceré Don Ximene Perez Scriva. Egli aveva fatto la conoscenza dei Marongio e dei Gambella, e forse, nell’avvicinare la bella moglie di Don Angelo, gli balenò l’idea infernale di diventar ricco con un delitto. Non dobbiamo dimenticare,che il capitano Marongio aveva il titolo di Podestà, e di Luogotenente del Viceré, e che forse egli era a parte della congiura che doveva far passare alla Corona aragonese i litorali della Corsica meridionale.

Pochi mesi dopo l’assassinio di Don Angelo, era pur morto Salvatorico, il suo figliuolo unico; ond ‘è che l’avvenente vedovella si trovò sola, libera, e padrona d’una ricchezza colossale.

Morì Salvatorico di morte naturale? La storia lo tace, ma è facile indovinare il vero.

Fatto è che il Viceré Don Ximene Perez sposò la ricca vedova sassarese e nello stesso giorno delle nozze (il 31 Maggio 1480) Rosa Gambella sottoscrisse un atto di donazione, legando al suo secondo marito tutti i suoi beni, in riconoscenza delle pratiche da lui fatte presso la Corte di Madrid per liberare essi beni dalle unghie del regio fisco, il quale li aveva sequestrati, presumendo vantarvi diritto lo Stato.

I beni ceduti al Perez erano l’incontrada di Oppia, Mores, Romangia, ed altre ville. Ma non basta. Sempre nello stesso giorno del matrimonio, la novella sposa sottoscrisse un atto (il suo testamento) col quale istituiva il marito Viceré Perez erede universale di tutti i suoi beni mobili ed immobili, cioè a dire terre, ville, vassalli, bestiame, ecc., ecc.

La bella Rosa era stata raggirata da quell’ingordo barattiere spagnuolo – acciecata certamente dall’ambizione di voler essere la moglie di un Viceré: la carica più importante e più onorifica di tutta l’Isola.

Ma non tardò ella ad accorgersi della perfidia di quell’uomo… istigatore forse dell’assassinio del primo marito e del suo figliuolo Salvatorico, morto probabilmente avvelenato.

Congiura e processo

Ritorniamo alla congiura politica, le cui fila mettevano capo a Bonifacio ed a Sassari – congiura autorizzata da due re di Aragona, i quali volevano impossessarsi dei litorali della Corsica, togliendoli con un tradimento alla Repubblica di Genova, cui appartenevano.

Morto il re Giovanni, suo figlio Ferdinando riprese le pratiche segrete, per conseguire l’intento per mezzo dei corsi e dei sardi. Egli aveva affidato nel 1479 la direzione della losca impresa al Viceré Ximene Perez, inviato in Sardegna verso il Maggio dello stesso anno. Ed il furbo funzionario approfittò certamente della segreta missione per abbindolare la ricca Rosa Gambella, mantellando l’amore con la politica. Suoi cooperatori principali furono l’ammiraglio Villamarì e il R. Commissario della flotta spagnuola Don Bernardo Boil.

Si cominciò nel 1480 coll’inviare a Bonifacio un certo Giovanni Peralta, sotto pretesto di mercatura; ma in effetto con molti dispacci del Viceré Perez, con lo scopo di prendere d’assalto la rocca di Bonifacio, per mezzo degli stessi corsi che vi stavano dentro.

Giovanni Peralta conferì con Iacopo Mancoso vescovo di Aiaccio, congiunto dei Gambella, e stretto in amicizia coi principali congiurati. Venuto in sospetto, il Peralta fu preso, torturato, ed impiccato.

Fallito il colpo, venne inviato in Corsica come legato viceregio un certo Leonardo Stefano, catalano di nascita e domiciliato in Alghero, dove il Viceré Perez stanziava con frequenza. Leonardo Stefano era incaricato di concertare col vescovo di Aiaccio il famoso piano della ribellione dei bonifacini per facilitare la presa della rocca. Ma, caduto anch’esso in sospetto ai capi della Repubblica, fu tratto in arresto e sottoposto alla tortura. Non potendo resistere allo strazio, egli finì per confessare tutto, rivelando le istruzioni ricevute dal Viceré Perez, e denunziando i principali congiurati, a cominciare dal vescovo Mancoso. Il catalano consegnò agli anziani della Repubblica genovese tutte le lettere scritte col sugo di limone e a lui dirette – fornendo così le prove del tradimento.

Il processo durò sei giorni, e il 28 Giugno di quell’anno 1480 il catalano Leonardo Stefano venne impiccato, seguendo la sorte del suo predecessore Giovanni Peralta.

Si procedette in seguito all’arresto del vescovo Mancoso, al quale fu fatta subire più volte la tortura, malgrado le proteste della chiesa di Roma che vi si oppose formalmente. Il povero vescovo venne trasportato entro una barca a Portovenere (nella Liguria), e di là al castello di Lecci, dove fu sottoposto a strazianti supplizi.

Anche lui, come Leonardo Stefano, sotto la tortura non seppe resistere, e finì per confessare molte cose: che il Viceré gli aveva fatto  promessa del cappello cardinalizio e di mille scudi di pensione annua; che i tre complici principali della congiura erano il Viceré Perez, l’ammiraglio Villamarì e il Commissario Boil; che il catalano Leonardo Stefano, domiciliato in Alghero, era il principale conductore de lo tradimento, e conduceva le pratiche col vescovo per mezzo del prete corso Vinciguerra. Insomma, il povero monsignore denunziò circa venticinque persone; e fra esse specialmente Lorenzo Gambella figlio di Giovanni e parente di esso vescovo Mancoso e del Viceré Perez.

La parentela del Viceré Ximene Perez con Lorenzo Gambella e col vescovo Mancoso, dimostra che da tre soli mesi lo stesso Viceré aveva sposato Rosa Gambella, la vedova di Don Angelo Marongio, assassinato dinanzi all’altare maggiore della cattedrale di Sassari.

È chiaro dunque, che Ximene Perez erasi servito di congiurati politici corsi e sardi per pugnalare in chiesa il prode capitano Marongio… e forse anche per avvelenare il figlio di lui, Salvatorico!

Il processo del vescovo Mancoso (sempre per mezzo della tortura) era durato tre giorni, e fu chiuso il 20 Agosto di quell’anno 1480.

Non risulta dai documenti se il vescovo di Aiaccio abbia subito la condanna capitale: ma da una nota di spese per il suo mantenimento in carcere apprendiamo che morì un mese dopo: il 17 Settembre. Morì  egli in prigione, o sul patibolo? La storia non ce lo dice!

Uxoricidio e rivolta

Il Viceré Perez, possessore di tutti i beni di sua moglie e di Don Angelo Marongio, continuò a viaggiare da Cagliari ad Alghero, da Alghero a Sassari, e da Sassari a Mores ed a Sorso, dove aveva le sue vaste tenute.

Egli era in odio ai sassaresi per la sua crudeltà e per i modi aspri e violenti, ed in odio a tutti i congiunti, perché questi non vedevano in lui che l’usurpatore dei loro diritti sulle incontrade di Oppia e di Romangia.

Non erano trascorsi due anni e mezzo dal giorno solenne degli sponsali, quando Donna Rosa Gambella venne assassinata dal proprio marito il Viceré Perez, il quale ne ereditò la pingue eredità, per gli atti da lei sottoscritti il 31 Maggio del 1480.

Durante la sua permanenza a Sassari, Ximene Perez aveva commesso ogni sorta di prepotenze; fra le altre egli violò apertamente le leggi del Regno nella elezione dei consiglieri, che nominò a suo capriccio. I Gambella e loro aderenti, insieme a notevoli cittadini, eransi ribellati, ed avevano eccitato il popolo alla rivolta. Una schiera di congiurati, con le armi alla mano, erano corsi alla casa comunale per cacciarne tutti i consiglieri nominati dal Viceré, sostituendoli con altri di loro scelta. Allo stesso tempo mandarono una memoria al re Ferdinando, denunziando gli abusi ed i misfatti commessi.

Il Viceré intanto si affrettò a vendicarsi, facendo imprigionare molti cittadini – quattro dei quali vennero giustiziati in quello stesso anno 1483. Lo storico Fara ce ne dà i nomi: i fratelli Lorenzo e Giacomo Gambella, Giovanni Solinas, e Leonardo Trumbetta (o meglio Trumbita, come trovo nominati alcuni cittadini di quel tempo).

I parenti di Donna Rosa, ed altri notevoli cittadini sassaresi, indirizzavano al re di Spagna un secondo memoriale, denunziando Ximene Perez come assassino della propria moglie, come unico fomentatore dei disordini popolari, e come autore delle prepotenze e delle ignominiose impiccagioni avvenute.

Il re Ferdinando sospese dalla carica il Viceré Ximene, il quale recossi subito a Valenza per disarmare la collera sovrana. Difeso valorosamente dall’avvocato sassarese Don Andrea del Sasso, egli venne assolto da tutte le imputazioni, e rimandato in Sardegna, con la stessa carica di Viceré, nel 1485. Denunziato due anni dopo dai cagliaritani per gravi estorsioni commesse a danno della Cassa regia, Don Ximene Perez venne addirittura destituito dall’impiego con decreto reale del 20 Gennaio 1488. Egli aveva frodato 12.000 scudi al regio tesoro. Aggiungerò, che tra le istruzioni date dal sovrano al Viceré Ximene nel 1485, era quella di contendere al Municipio di Sassari la possessione della Nurra e Fluminargia; prova evidente che il Ximene aveva ciò consigliato al re Ferdinando in Madrid, per vendicarsi dei sassaresi, ai quali voleva togliere la ricca incontrada, nella quale erano i suoi beni.

Nel 1483, prima di partire da Sassari a Valenza per discolparsi, Don Ximene aveva nominato per procuratore il suo amico Donno Antonio Còntena, simulando a suo favore la vendita dei propri diritti sull’incontrada di Sorso e Sennori – e ciò per poter continuare la lite contro la cognata Maddalena Gambella (sorella di Rosa) che gli contendeva i beni in virtù del testamento paterno. Il padre di Rosa e di Maddalena era Don Antonio Gambella, del quale si ha una lapide, con inscrizione e stemma, nella facciata di una casa, in Sorso.

Rimasta vedova del marito Don Francesco Milia, Maddalena Gambella si trovò alquanto imbarazzata nella continuazione della lite intentata dal Viceré Perez, suo cognato. Ella non trovò che un mezzo per appianare la via: quello di dar la mano di sposa a Don Antonio Còntena, il procuratore dell’assassino di Rosa. Don Antonio, dal suo canto, tirò l’acqua al proprio molino, e lasciò in asso il lontano cliente, il quale fu radiato dalla lista dei proprietari di Sassari.

Sono queste le fila che si conoscono dell’emozionante dramma che impressionò i sassaresi sullo scorcio del secolo XV. Immagini ora il lettore tutte le frodi, le infamie ed i delitti che la storia a noi tacque. Ed erano questi, in gran parte, gli onesti rappresentanti che la Corte di Aragona mandava in Sardegna, a far le veci di Re!

Sassari ricordò per parecchi secoli l’alto onore di aver concesso la mano della sua più distinta cittadina a quel ladro ed assassino spagnuolo, che aveva un titolo ed una carica così eminenti!

Riassunto del secolo XV

Il secolo decimoquinto fu per Sassari uno dei più notevoli per fatti d’armi, per coraggio civile, per sentimento patriottico. Esso si aprì con la peste del 1404 che infierì in tutta la Sardegna, fece strage in Sassari, ed uccise in Oristano la famosa Eleonora.

Alla peste seguì il dominio del visconte di Narbona, al quale i sassaresi avevano prestato largo aiuto per combattere i figli di Aragona, di Arborea e di Alghero.

Tenne dietro l’assedio del castello di Monteleone nel 1434 – non tanto glorioso per i fatti d’armi, quanto per i numerosi sassaresi che vi accorsero, ricompensati con titoli di cavalierato. Da quest’assedio, infatti, ebbe origine la Nobiltà dei più distinti cittadini di Sassari.

Abbiamo in questo secolo la traslazione della Sede arcivescovile da Torres a Sassari, autorizzata dal papa con Bolla del 1441, sebbene da oltre due secoli gli arcivescovi turritani passassero la maggior parte dell’anno nella loro casa od episcopio di Sassari.

Si riunì a Sassari nel 1456 il parlamento, con malumori e dispetto dei cagliaritani, che vedevano di malocchio siffatta novità. Questo Parlamento era stato istituito dal re Alfonso V fin dal 1416, e convocato a Cagliari in quest’anno, e poi nel 1421 e 1452.

Nel 1467 l’arcivescovo Antonio Cano ed i Consiglieri di Sassari avevano chiamato i frati Minori Osservanti, ai quali venne concesso l’antico monastero di San Pietro di Silki, deserto da oltre un secolo e mezzo. Fu questo il secondo convento fondato a Sassari, poiché da oltre due secoli vi erano i francescani di Santa Maria. – Al convento di San Pietro seguì quello degli Agostiniani verso il 1480, e dieci anni dopo il monastero delle Isabelline, riformato più tardi.

Abbiamo già riassunto i tristi fatti avvenuti fra il 1478 e il 1484, riferentisi ai trionfi ed assassinio del Capitano Marongio, all’uxoricidio del Viceré Perez, ed alla congiura di Bonifacio.

Il secolo XV, quasi iniziato con la peste del 1404, venne chiuso con altra peste: – quella del Santissimo Tribunale della Inquisizione, la cui sede centrale nel 1492 venne stabilita in Sassari, solo perché i cagliaritani rinunziarono all’onore di averla nel proprio seno. Il regalo fatto ai sassaresi da Ferdinando il Cattolico era degno di quel monarca, il quale non ebbe che un onore: quello di aver coperto di ferri Cristoforo Colombo, in ricompensa della scoperta dell’America.

Scrisse l’Angius, che verso la metà di questo secolo XV l’onore di città principale dell’isola era toccato a Sassari; la quale primeggiava per ricchezza, potenza, e per cittadini zelanti della nazionalità; e in conseguenza essa aveva la rappresentanza di tutti i popoli sardi – mentre la città di Cagliari, sebbene la dominante, non era allora che la residenza di una colonia straniera. Siffatte condizioni fra le due città primarie della Sardegna (continua lo stesso autore) durarono per poco tempo – fino a quando Cagliari si riempì di gente sarda e Sassari, disertata dalle pesti, si ripopolò di stranieri.

Questo giudizio non è esatto – anzitutto perché le pesti non colpirono mai oltre la metà della popolazione, e ce lo dice il Pillito, il quale notò, che gli storici, enumerando i sassaresi superstiti, scambiarono la parola vezinos (che vuol dir famiglie) con quella d’individui.

Sassari conservò a lungo l’autonomia sassarese (non sarda), quantunque le famiglie nobili, la maggior parte d’origine spagnuola, abbiano sempre frapposto ostacolo allo spirito di libertà e d’indipendenza, innato nella maggioranza della popolazione. Questa lottò continuamente, con rivolte e ribellioni, fin dal secolo XIII, durante il XIV e in tutto il XV secolo.