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I fiammiferi di Sardegna

Quand’ero ragazzo c’era a Sassari un signore, appartenente ad una delle più conosciute famiglie della città, che dirigeva (o qualcosa del genere) il Monopolio Tabacchi. I sassaresi, facili all’ingiuglio, lo chiamavano lu re di lu fùifaru, che vorrebbe dire il re della crusca: cosicchè i filologi sostenevano che il soprannome vero doveva essere lu re di lu sòjfaru, che sarebbe appunto lo zolfo, inteso come zolfanelli.

Non credo che siano in molti a sapere che Sassari è stata, verso fa fine del secolo scorso, una delle capitali italiane della produzione di fiammiferi. È una storia curiosa, che Sandro Ruju, studioso di storia economica e sociale della Sardegna, ha ricostruito con l’abituale meticolosità in un grazioso libretto pubblicato da una casa editrice cagliaritana, AM&D, dove le iniziali stanno per Anna Maria Delogu. una sassarese che si sta facendo onore fuori casa. Il libretto è intitolato I fiammiferi di Sardegna: sono alcune decine di pagine molto bene impaginate e illustrate, che vale davvero la pena di mettersi un attimo sotto gli occhi.

Allora, la storia curiosa. Curiosa per almeno tre motivi. Il primo è che non si sa chi fosse questo signor Francesco Cosseddu che verso il 1877 fondò  a Sassari quella che doveva diventare una delle più importanti fabbriche di fiammiferi d’Italia. Stava nello stabilimento Porcellana, di fronte ai giardini pubblici, in qualcosa come trenta vani dove un piccolo esercito di dipendenti fabbricava zolfanelli fosforici e fiammiferi: più di cento persone, quasi tutte donne, con oltre la metà di operaiette di meno di 15 anni, che lavoravano dalle sette del mattino alle otto di sera, con i gravissimi pericoli per la salute rappresentati dalle esalazioni di zolfo.

Questo signor Cosseddu era nato a Bolotana nel 1833. Era venuto a Sassari a fare l’usciere della Corte d’Assise, poi s’era «giubilato» e aveva messo su, pare, un gabellotto (forse un istanghigliu), che aveva presto chiuso per aprire la fabbrica. Aveva un figlio, Giuseppe, nato nel 1858, che fu anche il capo-tecnico dell’azienda.

Primo mistero: di questo signor Cosseddu e della sua famiglia non è rimasta traccia. Sandro Ruju ha cercato un po’ dappertutto, e se lo dice lui che di Cosseddu non se ne sa più nulla c’è da credergli.

Secondo mistero. Nel 1882 la fabbrica fu poco meno che distrutta da un incendio. I danni vennero valutati a 27mila lire (di allora). Fu indetta anche una pubblica sottoscrizione, ma prima ancora che la si mettesse a punto la fabbrica era stata già riaperta e rimessa in produzione. Da dove venivano a Cosseddu questo coraggio e i capitali per ricominciare?

Terzo mistero. Nei primi mesi del 1895, quasi di colpo, la fabbrica chiude. Negli ultimi anni aveva un fatturato intorno alle 75-80mila lire. È vero che da una parte lo Stato con nuovi dazi e dall’altra la concentrazione delle maggiori fabbriche continentali in funzione di concorrenza possono aver indotto i Cosseddu ad abbandonare il campo: ma senza fallire, solo con una decisione improvvisa di cui resta difficile darsi una ragione.

La fabbrica, dopo aver prodotto le cilindrette che contenevano i fiammiferi, da un certo punto in poi produsse le scatole tradizionali che avevano per immagini una serie di costumi sardi, di vedute di Sassari e di ritratti di uomini illustri di Sardegna (tutti riprodotti nel libro). Con quelle immagini ritagliate dalle scatole (li màgghjni, in gullurese) ci abbiamo passato l’infanzia.

(Tratto da “Memorie Sassaresi” di Manlio Brigaglia – La Nuova Sardegna)


Anche Enrico Costa, nella sua opera “Sassari”, racconta della fabbrica di fiammiferi di Ferdinando Cosseddu:

Era una vasta fabbrica di ceriní e di zolfanelli di tutte le qualità, dai più fini, del genere di quelli De-Medici, a quelli in legno colla capocchia di zolfo. Lo stabilimento fu aperto il 3 Gennaio 1877, e andò sempre prosperando, tanto che nel 1888 vi s’introdussero importanti miglioramenti e prese un tale incremento da potere occupare circa 300 operai. Coll’attività indefessa, la costanza, l’amore al lavoro, Ferdinando Cosseddu e l’unico suo figlio videro coronate le loro speranze da un risultato corrispondente ai loro sforzi, perché da ogni parte dell’Isola affluivano le richieste, essendo l’unica fabbrica del genere in Sardegna, e così buoni i suoi prodotti.

Il 16 Giugno 1882 un terribile incendio recò alla fabbrica un danno di oltre 27.000 lire; molte operaie restarono senza pane per parecchi mesi, ma gli operosi industriali ripararono al danno, e non tardarono a riaprire lo stabilimento, migliorandolo anzi in molte sue parti; e così continuò con prospera fortuna fino al 1891. Gli affari però cominciarono a diminuire, mancò sfortunatamente agli industriali il credito, e i due Cosseddu, padre e figlio, invocarono invano un soccorso. Lo stabilimento venne meno, decadde, e alla fine si chiuse. Il paese non poté o non volle dare l’aiuto necessario ad un’industria già tanto florida e vantaggiosa che col progredire sarebbe stata anche di maggior utilità e decoro e avrebbe continuato a dare pane a centinaia di operaie e operai.