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Sobborghi e appendici

Aria e luce

Diventate quasi inutili le muraglie dopo la invenzione delle artiglierie, la popolazione si lusingò di vederle atterrate per poter meglio respirare. Il Governo, però, era ben lontano dall’appagare il desiderio dei buoni sassaresi, sia per tenerli in freno, sia per evitare gli sfrosi a danno del Regio Erario.

Alla mancanza d’aria e di luce si aggiungeva l’angustia e la penuria delle case. La popolazione cresceva, e le abitazioni diminuivano. Centinaia di casette da più secoli erano scomparse sotto i colpi di piccone dei muratori, per dar posto alle vaste fabbriche dell’Episcopio e del Seminario, dei due Collegi dei Gesuiti, di parecchie chiese nuove, dei conventi e monasteri dei Domenicani, Carmelitani, Clarisse, Isabelline e Cappuccine.

Gli abitanti, moltiplicandosi giorno per giorno, si agglomeravano in tane tenebrose e senz’aria, dentro il cerchio inesorabile delle muraglie, le quali non vollero mai cedere all’impeto di quell’onda umana che saliva, ma non riusciva a straripare. La Sassari del 1820, chiamata dagli storici la città delle pesti, occupava la stess’area della Sassari del 1280. La peste era stata più umana dei Governatori del paese!

Ma non era soltanto il timore delle ribellioni e delle frodi che impediva l’allargamento della città. Il patriziato ed il clero, principali proprietari delle misere casette, influivano presso il Governo ed il Comune perché negassero il permesso di fabbricare fuori delle mura: ciò per poter percepire il 10 ed il 15 per cento sui capitali impiegati.

Il Municipio era dalla parte dei magnati del paese; perciò più volte deliberò di conservare le muraglie di cinta, proibendo a chicchessia di costrurre case fuori di porta.

In una deliberazione del Consiglio leggesi: «Borghi non si facciano nella città di Sassari per le ragioni esposte nel testamento del 1607».

In altra del 1687, notata dall’Angius, si proibisce di fabbricare per le molte ed evidenti ragioni (?).

Lo stesso Angius scrive: «I più notevoli oppositori influenti erano i canonici ed i frati, proprietari di molte case». E le ragioni evidenti erano forse queste!

Nel Novantatré

E con queste speranze deluse si venne al famoso anno della rivoluzione francese. Dopo la vittoria ottenuta dai sardi con la cacciata dei francesi da Cagliari e dalla Maddalena, il re Vittorio Amedeo si congratula con gli isolani, invitandoli a chiedere una ricompensa. E le domande di grazia furono molte!

Quattro mesi dopo la vittoria (nel Giugno 1793) i Gremi degli artigiani e zappatori di Sassari inviarono al Re una lunga supplica, da cui stralcio il brano più saliente:

«I sottoscritti…, prostrati al Real Trono, espongono umilmente a V.S.M., altra non esser stata da diversi anni la loro mira, che quella unica di far presente le angustie in cui si trovano per essere il popolo a segno tale che, oltre di essere occupate tutte le case della città anche ai piani di terra, e di essersi veduti molti costretti abitare nei sotterranei, sono ora nella dura necessità di doversi unire in due o tre famiglie per vivere in una sola camera, che trovano quasi a stento; il che è causa di molti mali, oltre quello di pagare con tanta inconvenienza li affitti a prezzo di gran lunga eccedente i loro redditi, che per lo più consistono nel loro quotidiano lavoro… Sendo, com’è la città, cinta di muraglie, non vi sarebbe dentro il circuito della medesima di poter edificare altre case…».

E continuano in questo tono, chiedendo la formazione di qualche borgo, ad esempio di altre città del Regno, fra le quali Cagliari ed Oristano. Questa supplica è firmata dai dodici rappresentanti dei diversi Gremi.

Il 17 dello stesso mese la R. Governazione, dopo averne informato il Viceré, dà agli operai un parere contrario, per le seguenti ragioni, che riassumo:

1°) Essendo la popolazione cresciuta da quindici anni a questa parte, non vi è ragione di fabbricare fuori città, perché dentro le mura vi è luogo abbastanza; altrimenti si spopolerebbe l’interno per popolare l’esterno, con grave ed irreparabile danno dei Monasteri, ed anche del Capitolo, consistendo la maggior parte dei loro redditi in quelle case terrene e in quei palazzotti .Oltre di ciò, restando le case vuote, queste servirebbero giorno e notte di nascondiglio ai birbi e male intenzionati, dei quali pur troppo abbonda questa città (?);

2°) I furti crescerebbero a dismisura nelle vigne, giardini ed oliveti. L’essere chiusi in città, serve di contegno ai birbi, mentre fuori di essa avrebbero tutta la libertà di andare e tornare di notte a loro arbitrio;

3°) Tutto il terreno intorno alla città trovasi occupato da orti; e siccome i proprietari ne tirano grossi affitti, li venderebbero a troppo caro prezzo; e così i poveri non otterrebbero il desiderato fine. Da quindici anni in qua sono oltremodo cresciuti i fitti delle case signorili di Sassari, non però quelli delle case e palazzotti di S. Nicola, S. Donato e S. Apollinare, che si trovano in brutte vie.

«Se poi crescesse ancora la popolazione (conchiude la lettera) si potrebbero avere case comode anche dentro città, mettendo in esecuzione le R. Prammatiche le quali prescrivono che i proprietari di case basse debbano venderle a coloro che vogliono fabbricare case alte, e da ciò risulterebbe l’abbellimento della città, perché essendo basse la maggior parte delle case situate nelle parrocchie di San Nicola, San Donato e di Sant’Apollinare, esse sembrano un villaggio!».

Con siffatto buon senso ragionavano la Reale Governazione di Sassari ed il Viceré di Sardegna nel Giugno del 1793, anno terribile della rivoluzione francese.

Il Governo vinse… ed i poveri lavoratori tornarono al loro covo, sperando, od aspettando tempi migliori.

Ai tempi di Angioi

I tempi incalzavano, e la rivoluzione faceva cammino. Due anni dopo, nel 1795, avvennero in Sardegna i famosi torbidi, ch’ebbero a strascico la guerra contro il feudalismo. Il popolo di Sassari era ringhioso, ed i magnati del paese avevano paura.

Volendo il clero e la nobiltà cattivarsi la benevolenza dei popolani – i quali imprecavano contro il divieto di fabbricare, eccitati dal tribuno Gioachino Mundula – si decisero a soddisfare i malcontenti.

Il 15 settembre del 1795 i capi dei Gremi di Sassari rinnovarono al Governatore la domanda dei sobborghi fuori di porta. Il Governatore consultò il Magistrato Civico; e questi finì per assentire, a condizione che gli abitanti di fuori sottostassero ai pesi ed ai benefizi di quelli di dentro.

Nello stesso giorno venne redatto nel Palazzo Civico un atto notarile, col quale il teologo Delmestre, parroco di S. Caterina, nella qualità di deputato dell’Arcivescovo e del clero – e Don Ignazio Carruccio in qualità di deputato del Duca dell’Asinara, dichiararono, che clero e nobiltà non si sarebbero opposti alla formazione del Borgo novello; ma instarono presso il Capo del Consiglio civico, Cav. Martinez di Monte Muros, perché la loro adesione fosse espressa in atto notarile, non in pubblica forma, «per scansare il bisbiglio, movimento ed insurrezione che potevano nascere in paese». (Tanta era la loro paura!).

Un mese dopo – il 16 di Ottobre – fu convocato il Consiglio doppio per deliberare sulla costruzione dei sospirati sobborghi e venne stabilito, come confacente ai bisogni materiali e spirituali dei nuovi popolatori, quella linea di territorio che dalla sommità del colle dei Cappuccini si distende alla strada di Rosello; e tutto ciò per i seguenti riflessi:

1°) Perché trovandosi il borgo fra due conventi (Cappuccini e Trinitari) gli abitanti avranno tutto il comodo di soddisfare ai doveri di buon cristiano;

2°) Perché gli abitanti quasi ai piedi delle loro case avranno l’acqua tanto necessario alimento (?);3°) Perché il sobborgo, trovandosi vicinissimo alle mura della città, potrà godere tutti i vantaggi per i bisogni della vita.

Le condizioni imposte, per ottenere siffatti benefizi, erano le seguenti:

1°) Chiunque domanda di fabbricare una casa, dovrà sottostare all’obbligo, verso la Città, di costrurla entro l’anno;

2°) Non sarà lecito a chiunque di fabbricare, fino a che non si abbiano un numero d’iscritti, non minore di quaranta o cinquanta capi di famiglia per formare un’Appendice;

3°) Nessuno potrà fabbricare a capriccio, ma attenersi all’allineamento, direzione e distanza che verrà indicata dall’architetto;

4°) Le case dovranno essere costrutte di pietra pulita, ed imbiancata al di fuori, a guisa di case basse o di palazzotti, secondo il genio (!) e le forze di ciascuno;

5°) Nessuna casa potrà avere cortile a fianco, di dietro, o davanti;

6°) Gli abitanti dei sobborghi dovranno sottostare a tutti i pesi ed ai benefizi di quelli dell’interno della città.

Il Viceré Vivalda accettò queste condizioni, riservandosi di proporre le misure per evitare i contrabbandi, in pregiudizio dell’Azienda Civica e delle Regie Finanze.

Trent’anni dopo

Le sorti, però, volsero fatali per Angioi e per i suoi aderenti; ed i marchesi, i conti, ed i baroni non tardarono a riprendere il sopravvento sui popolani ribelli. I caldi sostenitori dei diritti del popolo avevano scontato sul patibolo la loro audacia; e così le promesse dei sobborghi (fatte con molta furberia!) vennero violate l’anno seguente, 1796.

E le cose rimasero allo stato antico fino al 1829, anno della venuta in Sassari di Carlo Alberto, principe di Carignano.

I Gremi ed i capi delle maestranze, che invano avevano supplicato l’attuazione dei sobborghi, approfittarono del passaggio del principe nel Maggio, e si rivolsero a lui per ottenere quanto si era loro negato. Tre mesi dopo (nell’ Agosto) rinnovarono la domanda, inviando a Torino un memoriale, che fu accolto dal Re favorevolmente.

Il 29 Agosto 1829 il municipio dà schiarimenti al Viceré sulla supplica dei Gremi, esponendo tutti gli inconvenienti ed i danni che risentiva la intiera popolazione: il caro degli affitti e la ristrettezza dei locali. Gli fa però osservare, che formando i sobborghi sul colle dei Cappuccini, e vicino alla porta Rosello, si pregiudicherebbe con le immondezze la cotanto celebre (?) fonte di Rosello. L’ingrandimento (esso scrive) dovrebbe aver luogo verso levante (?!), cominciando da Porta nuova a Porta Castello, come nel disegno presentato dall’ingegnere Cominotti (1829). Il nuovo popolato avrebbe quasi nel centro le acque buone ed abbandonate del Pozzo di Rena; la gioventù studiosa avrebbe in vicinanza l’Università, e per i conforti religiosi la vicina chiesa di S. Agostino e la popolazione si accrescerebbe con le numerose famiglie dei villaggi, che verrebbero a stabilirsi a Sassari, nel cui territorio tengono attualmente il bestiame e fanno seminerio…

Il Municipio continua enumerando tutti gli altri benefizi che si otterrebbero coi sobborghi, e deplorando l’enorme fitto delle case, da non potersi paragonare a quello di qualunque altra più che florida città di Europa!!

Meraviglioso trasformismo! I Consiglieri, prima così feroci, ora si stemperavano in tenerezze!

Il governatore Crotti

Trascorsero altri due anni in lusinghe e trattative, finché nel 1831 fu mandato a Sassari il nuovo Governatore Crotti, al quale deve la città molte riforme.

Interpellato dal Viceré Montiglio (di passaggio a Sassari nella primavera del 1834) il Crotti perorò la causa dei Gremi, che avevano di nuovo supplicato per avere i sobborghi. Il professore di medicina Sacchero avvalorò la viva descrizione del Governatore con una dotta memoria, nella quale espose il pericolo di un’epidemia che minacciava la città, indicando i diversi punti da demolire.

L’anno seguente i Gremi tornarono a implorare il permesso di poter fabbricare fuori porta e siccome il Governo piemontese era impressionato per il contagio che serpeggiava in diverse città della Francia e dell’Italia, così la domanda dei popolani fu accolta con sollecitudine. La paura della peste fu più efficace della pietà verso i disgraziati che da un mezzo secolo chiedevano un po’ d’aria e un po’ di luce, pagandole coi propri denari.

Il Viceré Montiglio aveva affidato lo studio del tracciamento delle Appendici all’ingegnere Enrico Marchesi e in quello stesso anno 1835 si cominciò intanto a demolire qualche vecchia muraglia, e a costrurre qualche nuova casa fuori di porta.

Tracciamento

I lavori delle Appendici continuarono con attività febbrile.

Intorno alla città, alla distanza di pochi metri, erano una infinità di orti, ai quali i popolani accorrevano con frequenza, per divorare migliaia di lattughe. Fin dal 1580 il Fara scrisse che il Castello era in mezzo agli orti; ed orti erano pure fuori di Porta nuova, di Porta d’Utzeri e di Porta S. Antonio. Si cominciò a sterrarli verso il 1836, per ridurli ad area fabbricabile.

Secondo il progetto presentato dal Cominotti nel 1829, la città doveva estendersi verso ponente, da Porta nuova, fino al di là di Porta Castello, occupando l’attuale Piazza d’armi. Notavasi una grande piazza esagonale, nel cui centro era pozzo di Rena. Questo progetto venne in gran parte modificato dall’ingegnere Marchesi, tra il 1835 e 1837. La nuova città risultava più grandiosa, più regolare, ed occupava tutta l’area dell’attuale Giardino pubblico. Due vaste piazze vi erano tracciate: una ottagonale (al posto dell’attuale Piazza d’Italia); ed altra perfettamente circolare, coll’indispensabile pozzo di Rena nel centro, che il Municipio e la popolazione volevano rispettato.

L’innovazione più notevole del Marchesi consisteva nei portici, che dovevano fiancheggiare la grande piazza ottagonale, e parecchie vie principali, specialmente l’attuale Via Roma. Questi portici provocarono le lagnanze dei proprietari dei nuovi fabbricati, a causa delle ingenti spese che richiedevano. Tanto nel progetto Cominotti, quanto in quello del Marchesi, si erano destinate apposite isole per un nuovo ospedale, una nuova chiesa, una nuova caserma, ed un nuovo carcere.

Il progetto Marchesi subì in seguito diverse modificazioni, sotto gli ingegneri od architetti comunali Pau, Piretto ed Agnesa. I portici vennero aboliti; si tracciò la Piazza d’Italia in quadratura, anziché in forma ottagonale; la piazza circolare (già per metà costrutta) fu sospesa, e così divenne l’attuale Emiciclo Garibaldi; vennero soppresse tutte le isole fabbricabili verso ponente, destinandole all’attuale Giardino pubblico; e così pure vennero cambiate di posto le isole destinate dal Marchesi a chiesa, caserma, ospedale e carcere.

Verso il 1849 i fabbricati cominciarono a sorgere nelle vicinanze delle muraglie e nelle Appendici: verso il Molino a Vento, sulla strada della chiesa dei Trinitari, nel rione di Sant’Anna, di fronte alla porta d’Utzeri, ed in altri punti.

Notizie a spizzico

Riporterò qualche altro appunto riguardante l’edilizia.

1838. – Ricorso contro i padri Domenicani, i quali non vogliono cedere a nessun costo i loro orti per area fabbricabile. I concessionari, che avevano dato principio alla costruzione, nel Dicembre di quest’anno erano già diciotto; ed altri diciotto avevano chiesto il terreno per fabbricare.

1840. – Il municipio prega il governatore perché permetta di tenere aperta durante la notte la porta Castello per i bisogni fisici e morali (?).. –

1841. – I proprietari ricorrono al Governatore perché si facciano aperture lungo la cinta delle muraglie.

1844. – Le monache Isabelline chiedono il tratto di terreno fra la muraglia del loro cortile e la contigua torre in vicinanza del Ponte. – Si fanno pratiche coi frati Serviti per acquisto di una loro casa nella Corte di S. Croce, per eseguire un’apertura verso lo stradone. – Dietro i lamenti e le spese urgenti per la costruzione dei portici, si delibera di mantenerli nella sola strada maestra (oggi via Roma).

1845. – Si delibera di vendere l’isola destinata alla chiesa delle Appendici all’ingegnere Ghiglione. La vendita si effettuò nel 1856.

1846. – Si delibera di abolire i portici nella via Reale e nell’annessa Piazza. Il professor Crispo legge un memoriale contro i portici, osservando che essi sono utili nelle sole città di clima freddo, come Torino. – I padri Domenicani si decidono finalmente a vendere i loro orti per area fabbricabile.

1848 (Aprile). – Si delibera di cedere gratis al Governo un’area di mq. 4.264 per costrurre l’Ospedale militare. Il Municipio raccomanda che sia costrutto a portici.

1865. – Si delibera l’abolizione dei portici anche in Piazza d’Italia e lungo la strada al molino a vento.

Dopo quest’anno i fabbricati delle Appendici si moltiplicano; e le costruzioni prendono un grande sviluppo, favorito dai buoni raccolti, e in seguito dal largo credito accordato dalle Banche locali. Come per incanto, sorse una nuova città piena d’aria e di luce: eterno rimprovero contro il clero, i nobili, i Governatori ed i Consiglieri del passato, i quali per oltre due secoli negarono ai popolani il diritto di respirare, condannandoli ad un carcere assai più duro e micidiale di quello di San Leonardo!

1908 (Luglio). – Il Consiglio comunale discute il piano di ampliamento sul colle dei Cappuccini, per iniziativa e proposta del benemerito marchese Diego Cugia di S. Orsola, proprietario di una parte del terreno, sul quale sorgeranno villini e caseggiati. Ben presto, dunque, andrà ad effettuarsi, dopo oltre un secolo, l’antico progetto del 1795.