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Superstizioni e pregiudizi

Numerose sono le superstizioni popolari dei tempi antichissimi e antichi, che furono in gran parte comuni a tutta l’Isola come anche al continente. La civiltà, la scienza, l’istruzione popolare, riuscirono soltanto in parte ad estirparle, ma vanno per fortuna scomparendo. Ne noterò le principali, di cui si occuparono diversi scrittori, fra i quali Antonio Mannazzu nel 1886 e Ignazio Longiave nel 1904.

Li fatturi (le fattucchierie)

Si cercava di impossessarsi di qualche brano di vestito appartenente alla persona presa di mira e con esso si formava una pupattola di stracci, che poi si tempestava di spilli, ognuno dei quali indicava un danno od una sofferenza da infliggere al nemico. Indi si buttava questa pupattola sulle scale, o dentro la casa di colui che si voleva tormentare, se l’offesa era lieve; se poi il danno ricevuto era grave, si faceva di tutto per seppellire il fantoccio nei pressi della casa della vittima di cui si desiderava la morte. E si aspettava il risultato… che, fortunatamente, non sempre rispondeva al desiderio del fattucchiere.

Lu foggu di lu Purgaddoriu (il fuoco del purgatorio)

Non è che una malattia della pelle, con manifestazioni di grave arrossamento e bruciori tormentosi. La superstizione attribuiva questa malattia ad un misterioso contatto avvenuto con qualche anima del purgatorio e siccome qualunque rimedio della scienza si credeva impotente a domarla, così si ricorreva a mezzi estranei ad essa. Un rimedio efficace credevasi fosse quello di questuare dai buoni vicini la somma necessaria da darsi a un prete per celebrare una Messa in suffragio delle anime del Purgatorio. Dopo celebrata questa Messa si faceva una pasta composta di incenso, d’olio e di cera e si applicava all’infermo il quale, se non peggiorava, guariva di certo!

L’ossu di lu cori (l’osso del cuore)

Era questo un dolore fra il petto e lo stomaco, che doveva essere guarito con misteriose parole pronunciate da un fattucchiere o da una fattucchiera. Questi si servivano di un fazzoletto, o di una pezzuola qualsiasi, di cui consegnavano un capo al sofferente, il quale lo puntava sullo stomaco. In seguito la fattucchiera lo ripiegava più volte, lo stendeva dal gomito alla parte sofferente e, se la piegatura cadeva sullo stomaco, la guarigione era effettuata; altrimenti si cominciava da capo l’operazione fino a che l’infermo non guarisse!

Un fattucchiere popolare, verso il 1835, era il zappatore Giuseppe Magnapezzi.

L’eba miragulosa (l’acqua miracolosa)

La vigilia di Santa Maria Maddalena, alla mezzanotte in punto, i credenti affetti da mal d’occhi correvano alla chiesa di S. Maria dei frati claustrali e picchiando tre volte alla porta maggiore, dicevano: Santa Maria Maddalenagiuntu soggu! feddimi la grazia! Indi si recavano al vicino abbeveratoio del bestiame, la cui acqua per miracolo si faceva bianca, e con quella si lavavano gli occhi ammalati. Il fatto era però che la guarigione non si effettuava sempre e che gli oculisti non potevano lagnarsi troppo della concorrenza fatta loro da Santa Maria Maddalena e dall’acqua miracolosa.

Punì occi (portare il malocchio o jettatura)

La credenza che con le lodi o con una esagerata ammirazione si possa cagionare un male al proprio simile è molto radicata in quasi tutti i popoli del mondo. Per scongiurare il malocchio di cui particolarmente erano colpiti i bambini, da noi si usava, e si usa ancora, di appendere al loro collo qualche amuleto, una mano chiusa di corallo o d’osso, col dito pollice tra il medio e l’indice, oppure un cornetto o più semplicemente un nastrino verde.

Per i cavalli bastava questo nastrino legato alla criniera; per gli stazzi, per le stalle e per qualunque altro stabilimento, un paio di corna di bue appese bene in vista. Si ricorreva pure a speciali recite di preghiere.

Qualche volta si gettava in un bicchiere colmo d’acqua una pietruzza, e dalle bolle che comparivano a galla, dopo fatto il segno della croce, si desumeva se il malocchio era andato via o se si doveva tentare ancora la prova.

Veniva pure adoperato il semplice mezzo di sputare sui bambini lodati – mezzo rilevato (e questa volta con verità) dal maldicente professore svedese nel 1773.

La baglia (la tarantola)

In sassarese è chiamata la baglia, quel grosso ragno la cui puntura produce uno spasimo, che qualche volta dura assai a lungo, e impressiona il paziente.

Esiste ancora l’imprecazione: chi ti pugnia la baglia (che ti punga la tarantola!). Gli effetti dolorosi e strani di questa puntura venivano scongiurati un  tempo con la musica, i canti o le nenie. Se l’insetto pungitore era un vedovo, il che si deduceva dal suo colore scuro, le donnicciuole si riunivano intorno al paziente e cominciavano le nenie e i pianti; se l’insetto era celibe, e lo si desumeva dal suo colore chiaro (baglia vaggiana), si facevano canti e musiche allegre e balli intorno alla vittima della puntura.

La guarigione, che avveniva più o meno rapidamente, si doveva forse al fatto che il sofferente, distratto dai canti e dalla musica sopportava meglio le torture dell’infezione, la quale non era così grave da portare serie conseguenze.

Lu pindacciu (l’incubo)

È l’oppressione che talvolta si sente durante il riposo. I sassaresi, per antonomasia lo chiamano di setti barretti (dalle sette berrette) poiché le donnicciuole assicuravano di avergli veduto la testa così acconciata. Lu pindacciu appartiene al genere degli spiriti, ossia folletti matterelli od imbecilli, i quali nella notte, ed anche di giorno, amano sedere a cavalcioni sui dormenti e talvolta di farsi cavalcare da essi. Vi erano donne che aspiravano ad essere visitate da simili folletti, per poter loro strappare di testa il settimo berretto, che pare apportasse fortuna.

Lu traigoggiu

Era costui, in tempi antichi, un diavolaccio che percorreva le vie, producendo un rumore sordo, foriero di disgrazie ed anche di morte vicina; e tutti quelli che giuravano di averlo sentito vivevano in ispasimi per tutta la vita, aspettando la morte, che certamente avveniva, magari dopo una settantina d’anni! Più tardi si diede il nome di traigoggiu agli ubbriaconi che facevano chiasso per le strade: segno evidente che la superstizione aveva perduto di prestigio col passar degli anni.

L’ombra di li molthi (le ombre dei morti)

Rara era la donna che non dicesse di averne vedute parecchie nella vita e questo avveniva quando anche le donne correvano curiose e ansiose fuori delle porte di città per vedere i morti di morte violenta, che si trasportavano dalla campagna e si esponevano nei pressi della chiesa della Trinità e di quella dei Serviti. Queste ombre o spiriti, si vedevano in molti luoghi; talvolta accennavano ad un siddaddu (tesoro nascosto); tal altra ad una prossima sventura. Le prime solevano annunziarsi con sordi rumori, gemiti, strepito di catene; le seconde apparivano luminose nella oscurità della notte. Non di raro era lu pizzoni di la strea, il gufo, la civetta o altri uccelli rapaci, i quali stridevano sui tetti, ma si credeva che s’accostassero al letto delle madri, per succhiare il sangue ai loro teneri bambini.

Tralascio tutte le altre superstizioni e pregiudizi, parecchi dei quali non sono purtroppo ancora sradicati dal popolo. Dirò solamente che quasi tutte le superstizioni di Sassari e dell’Isola sono comuni a quelle di molte regioni dell’Italia. E così tutti i pregiudizi sui sogni, sui ragni, e poi il canto del cuculo, il diavolo, le streghe, i tesori nascosti, le leggende dell’orco, la stella vicina alla luna, il venerdì, le tre candele accese, i coltelli incrociati, l’olio versato, il sale sparso, lo zuffolio alle orecchie, le macchiette bianche alle unghie che svelano le bugie, e cento altre, la cui origine si perde nella notte dei tempi. Si direbbe quasi che le superstizioni siano state trasportate da un punto all’altro del mondo, come il vento porta il seme delle piante!