Il 28 aprile 1794 i sardi si ribellarono al governo piemontese. Sono i giorni de s’aciapa (la caccia ai piemontesi ancora in città). Furono catturati tutti i 514 funzionari continentali, incluso il viceré Vincenzo Balbiano, e furono cacciati via dall’isola. L’esempio fu seguito da altre città e la rivolta si propagò per tutta la Sardegna. L’isola viene provvisoriamente governata dalla Reale Udienza.
L’anno successivo, il 6 luglio 1795, ci fu una seconda insurrezione, guidata dal partito dei novatori e dalle milizie cittadine che erano state create dopo la prima sollevazione del 28 aprile 1794. Stavolta, il bersaglio erano i “normalizzatori”, i membri del “partito” conservatore, i più eminenti dei quali erano il Generale delle Armi Gavino Paliaccio Marchese della Planargia e l’Intendente Generale Gerolamo Pitzolo. Nel corso del tempo, questi ultimi si rivelarono estremamente avversi ad ogni politica che concedesse alla borghesia e alle masse popolari un ruolo nel governo e nell’amministrazione della nazione sarda. Lo scopo dei moti rivoluzionari, secondo il Pitzolo e il partito dei normalizzatori, doveva limitarsi all’ottenimento di un riconoscimento e un ruolo per gli aristocratici e i possidenti sardi, lasciando però immutati gli assetti istituzionali e socio-economici esistenti. Intriso di cultura politica dell’Ancien Régime, il Pitzolo era contrario ad ogni concessione democratica o riformatrice. Inoltre, tra l’autunno 1794 e l’estate 1795, il Pitzolo e il Marchese della Planargia lavorarono assiduamente ad un progetto reazionario per instaurare un vero e proprio stato di polizia. Questi personaggi infatti non vedevano altra soluzione per stroncare l’ala democratica degli Stamenti e le riforme che gli Stamenti stavano attuando nell’amministrazione della Sardegna. La determinazione del Pitzolo e del Paliaccio a ricorrere a misure repressive venne anche accentuata dal fatto che il nuovo viceré, Vivalda, cercò in ogni modo di assecondare le istanze riformatrici dei novatori. Agli occhi del partito dei “normalizzatori” il viceré stava in questo modo minando la stessa autorità reale. La determinazione del Pitzolo e del Paliaccio a ricorrere a mezzi repressivi era anche indotta dalla loro preoccupazione per il fatto che gli Stamenti avevano istituito milizie cittadine che rispondevano direttamente alla volontà degli Stamenti, e quindi avevano un ulteriore strumento di azione. Le milizie cittadine ebbero la meglio sulle truppe del Generale delle Armi, Marchese della Planargia. Il popolo armato si recò presso l’abitazione del Pitzolo che era difesa da alcuni armati. In seguito a trattative, il Pitzolo acconsentì ad arrendersi per farsi trasdurre presso il viceré che avrebbe dovuto garantire l’incolumità del Pitzolo e l’istituzione di un processo contro di lui e i suoi associati. Tuttavia il viceré, per motivi che non sono stati chiariti, non volle prendere in custodia il Pitzolo il quale, rimasto in mano alla folla cittadina, venne trucidato. Il Generale delle Armi, Gavino Paliaccio Marchese della Planargia, venne arrestato e tenuto in custodia. Tuttavia, quando le lettere che sia lui che il Pitzolo avevano scritto vennero lette pubblicamente rivelando i loro piani di arrestare o eliminare i simpatizzanti del partito riformatore, le milizie cittadine presero il Paliaccio e lo uccisero lasciando il cadavere in balia della folla.
Il 13 agosto 1795 iniziano a Cagliari le pubblicazione del quotidiano Il Giornale di Sardegna, organo politico del movimento angioiano, redatto da quattro collaboratori di Angioy e diretto dal teologo Giuseppe Melis Atzeni.
Il nuovo viceré piemontese Filippo Vivalda di Castellino, richiamato dalla nobiltà locale, rientrò a Cagliari il 6 settembre, ma le rivolte e i tumulti non si placarono. Approfittando dei disordini, i feudatari logudoresi e la nobiltà sassarese chiesero al re maggiore autonomia dal viceré e chiesero anche di staccarsi dal governo viceregio e dipendere direttamente dalla Corona.
Queste richieste irritarono i cagliaritani, che fomentarono ancora di più la rivolta e il 28 dicembre 1795 una grande massa di rivoltosi accorsi da tutto il Logudoro manifestò a Sassari contro il sistema feudale, intonando il famoso canto di Francesco Ignazio Mannu: Procurade ‘e moderare, Barones, sa tirannia. A quella rivolta parteciparono tutte le classi sociali: borghesia, nobiltà e popolo, che in quell’occasione si ritrovarono uniti per rivendicare l’autonomia del Regno.
Nel Logudoro i moti antifeudali si svilupparono nel 1795. In questa regione i diritti feudali non erano ben precisati ma pagati mediante barbare estorsioni. Si ribellarono i vassalli dell’Anglona: Sedini, Nulvi, Osilo si rifiutarono di pagare i diritti feudali. Più tardi i moti si propagarono a Ittiri, Ossi, Tissi, Uri, Thiesi, Pozzomaggiore e Bonorva, e ad Ozieri e Uri i contadini s’impossessarono dei granai dei feudatari mentre ad Ossi il rettore parrocchiale De Quesada si allontanò temporaneamente dalla villa.
A sostegno dei moti cagliaritani, dai quali i nobili e i notabili sassaresi intendevano distinguersi, in molti paesi si strinsero patti d’intesa per non riconoscere più il feudatario e chiedere il riscatto.
Così avvenne che nei giorni di Natale del 1795 numerosi uomini a piedi e a cavallo circondarono Sassari. Ai primi colpi d’artiglieria il duca dell’Asinara e alcuni feudatari fuggirono e la città venne occupata dai rivoluzionari; i capi degli assedianti furono Gioachino Mundula e Francesco Cillocco. Fatti prigionieri il governatore Santuccio e l’arcivescovo Della Torre, i rivoltosi si avviarono verso Cagliari.
Al fine di sedare questi disordini, il 13 febbraio 1796 il viceré Filippo Vivalda e i rappresentanti degli Stamenti decisero di inviare nell’isola Giovanni Maria Angioy, allora magistrato della Reale Udienza. A lui venivano dati i poteri di Alternos: poteva, cioè, esercitare il potere vicereale (al viceré spettava il plurale maiestatis nos, il suo alter ego in periodo spagnolo veniva chiamato alter nos).
Con un’esigua scorta, egli partì da Cagliari inoltrandosi nel cuore della Sardegna. Durante il viaggio, nei vari paesi che attraversava, venne accolto con manifestazioni di simpatia mentre gli venivano esposti tutti i disagi sociali e i bisogni delle popolazioni.
Apparve a tutti come un liberatore e accese negli animi molte speranze. Si rese conto delle reali condizioni dell’Isola, con un’agricoltura arretrata e l’oppressione feudale, con i disagi dei contadini e la profonda miseria dei villaggi.
Ogni paese volle fargli omaggio di una scorta di uomini e quando giunse alle porte di Sassari il suo seguito era imponente. L’accoglienza fu trionfale: accorse tanta folla e anche i canonici della capitale turritana intonarono il “Te Deum“. Nel grande affresco che Giuseppe Sciuti dipinse alla fine del XIX secolo nel salone delle assemblee del Palazzo della Provincia, si vede Giovanni Maria Angioy che entra a Sassari da trionfatore. Per la gente non era soltanto l’Alternos cioè un “facente funzione” viceregia; non era soltanto un alto magistrato, ma era il liberatore.