Sassari Piemontese

Un ritratto di Vittorio Emanuele I

• 1802. Vittorio Emanuele, Duca d’ Aosta

Vittorio Emanuele accettò la corona che gli offriva suo fratello, con atto sottoscritto a Napoli l’8 giugno. Egli non si mosse da Roma, dove stava colla speranza di ricuperare il Piemonte – I moti galluresi non lo turbarono; approvò i provvedimenti presi dai fratelli, e secondò in tutto Carlo Felice, che fu da lui confermato nella carica di Viceré.
Tanto Cagliari quanto Sassari fecero pubblici festini per l’avvenimento al trono del nuovo re, annunziato con Proclama di Carlo Felice in data 18 giugno 1802.

• Combattimento

Il 17 giugno 1802 si diede principio in Gallura alla temeraria impresa. Gli Angioini assalirono ed occuparono le tre torri di Longosardo, di Vignola e dell’Isola Rossa. Mores fu il centro designato per l’unione delle regie truppe che dovevano marciare contro i rivoltosi. Il 18, fra le acclamazioni e le cannonate, i rivoltosi inalberarono sulla torre di Longosardo il vessillo tricolore, in luogo del regio che prima vi sventolava. Essi, nello stesso giorno, catturarono la regia nave corriera dei dispacci sardi, che colà approdava. Vi fecero prigionieri il capitano, l’equipaggio, e i passeggieri, e si impossessarono della corrispondenza ufficiale e privata. Arrivarono in quella, a debellarli, lo sciabecco, e la gondola regia capitanata dal valoroso Vittorio Porcile. Sopraggiunsero i distaccamenti, e s’impegnò una lotta accanita, disperata. La vittoria fu per le truppe regie. Il parroco Sanna Corda, dopo grandi prove di coraggio, combattendo a cavallo con una temerità senza pari, cadde colpito dalle palle dei soldati, e morì in vicinanza della torre di Longone. Egli avea finito il suo doppio sacerdozio di libertà. Il Frau, il Bottina e il Martinetti caddero prigionieri, e furono condannati in via sommaria ed economica. I due primi furono impiccati in Gallura, il terzo a Sassari, con sentenza del 12 luglio 1802. Insieme a loro furono fatti prigionieri tre Corsi, fra cui il Segretario Fouchè, i quali furono consegnati al Governo francese da Carlo Felice, in prova di devozione al primo Console. Gli altri presero la fuga, si sbandarono, e cercarono rifugio sui monti della Gallura, aspettando un’occasione propizia per toccar la Corsica.

• Assassinio

Il 19 giugno venne barbaramente scannata in Piazza Castello, certa Angela Salamone, di Sassari per depredarla. Era una venditrice di commestibili. La mattina del 20 fu trovata la porta semiaperta, il cadavere disteso in terra, e la cena approntata. Sebbene abitasse vicino al quartiere dei Dragoni, e fossero passate là molte pattuglie, non si poterono scuoprire i rei. (Relazione del Governatore al Viceré).

• Fuga

« La notte del 30 luglio tentarono fuggire due condannati dalle galere site nella strada Ospizio di S. Pietro, (S. Appolinare). Essi gettarono i cappotti sulla faccia della sentinella; questa spianò il fucile, fece fuoco sopra di uno (Garau) e lo uccise; l’altro (Antonio Muresi) fu preso e frustato. La suddetta galera consiste in due case terrene: una destinata per i forzati a vita e a lungo tempo; l’altra per quelli a tempo breve e per gli schiavi turchi. (Relazione al Viceré).

• Arresto e morte

La sera del 2 luglio l’ufficiale di piazza Giuseppe Arrica (coll’aiuto di due Ordinanze) arrestò un certo Malau di Castelsardo, che trovavasi in quel momento dirimpetto al Caffè della vedova Volpi. Essendosi però, allo stesso tempo, avvicinato un villico di Cuglieri per vedere la curiosità, l’Arrica trasse la sciabola dal fodero colla quale, prima lo percosse sulla testa, poi lo passò da parte a parte, sotto la mammella destra. Il detto Arrica venne subito arrestato. La popolazione fu indignata di questo fatto, e spiacque anche a S. A. Conte di Moriana – sebbene il villico ferito, per combinazione, non fosse altri che un bandito venuto dalla nota spedizione di Gallura (Rapporto al Viceré).

• Un frate laico

I frati del Convento di S. Paolo supplicano, in data del 10 luglio, il Governatore Moriana, perché faccia mettere in libertà il loro confratello laico Fra Luigi Ledda, questuante, arrestato fin dal 13 luglio 1800. Essi dicono, che stante le pressanti urgenze non poterono più avere le solite elemosine per mancanza del loro questuante. Se non fosse stato un questuante, forse lo avrebbero lasciato in carcere, Dio sa per quanto tempo!

• Martirio di Cilocco

 Cilocco, perseguitato dalle truppe regie, e da quanti agognavano alla taglia ch’era stata posta sul suo capo, errava di montagna in montagna. Il generoso Cicicello Muntoni-Decandia gli diede ospitalità, e lo tenne gelosamente custodito per qualche tempo. Poco dopo, e sfinito, s’imbattè in un affamato certo Giovanni Mazzoneddu a cui chiese asilo e protezione. Questo finse di accordargli 1’uno e 1’altra; ma avvisò segretamente il Governo, dicendogli che lo avrebbe consegnato a patto della taglia, e della grazia, da accordarsi ai 14 malvagi, che lo avrebbero arrestato. – Il Governo accordò la grazia, e Cilocco il 31 luglio passò nelle mani dei regi. Fu chiuso nelle carceri di Tempio, e il 3 agosto tradotto a quelle di Sassari, dove subì la fustigazione per ordine dell’augusto Governatore. Il povero Cilocco fu tradotto a Sassari, e lo si fece passeggiare per la città, legato sul dorso di un asino, mentre il boia lo flagellava orribilmente con una sferza di cuoio, tanto che il suo corpo ne restò tutto rotto e lacero E qui non si può tacere della barbara e crudele gioia che invase l’animo dei baroni di Sassari, a quella vista; la qual gioia dimostra di qual tempra fossero quei cuori. Mentre Cilocco, in mezzo ad una folla immensa, attraversava le vie della città, fu fatto oggetto di vili insulti e contumelie; non contenti di ciò, i baroni facevano a voce alta promesse al carnefice, perché aggravasse i colpi sulle membra di quel disgraziato. Primo fra tutti fu il Duca dell’Asinara, che innalzavasi sopra tutti in potenza e in prepotenza. Tutti gli storici hanno parole di biasimo per questo fatto – l’Angius, e il Martini, e il Sulis, ecc; ma fra tutti mi piace riportare le parole del Manno, sul quale non può cader dubbio di partigianeria.
Ecco quanto quello storico scrive nelle sue Note sarde:
«… La rifatta però fu barbara e feroce, indegna sopratutto di gentiluomini. Mi basti notare, che alla mano del manigoldo non fu lasciato l’arbitrio di quella naturale umanità che poteva sorgere anche nel cuore di un carnefice. Egli fu talmente aizzato da quei notabili andatigli incontro, che il carnefice stesso ebbe a mostrarsene indispettito. Il Duca dell’Asinara, dal balcone del suo palazzo, lanciava parole di crudele beffa contro l’infelice frustato; e parole di uguali improperi lo accolsero dappertutto, durante quella ferale passeggiata per tutta la città. Questo inasprimento scandaloso di punizione, che toglieva alla pubblica vendetta la dignità del suo giudizio, fu causa che quel disgraziato non potè dappoi essere sollevato al patibolo, che semivivo; ma quanto restogli di parola e di vita impiegollo a morire, come scrisse il Martini, con animo forte.
« Impasti d’uomini si videro in Sardegna in quei tempi (conclude lo stesso Manno) che meglio guidati dal proprio senno e dalla sorte, avrebbero potuto, come altrove avvenne, diventare non rei, ma eroi. »
L’infelice Cilocco dunque, col corpo lacero, insanguinato dalla sferza del carnefice, la mattina dell’11 agosto 1802, colla corda al collo usciva da quella stessa Porta Nuova, nella quale era entrato vincitore, insieme a Gioachino Mundula, la mattina del 29 Dicembre 1795! –
Col Cilocco caddero le speranze di quelli cui era insofferente il giogo del feudalismo. Si rassegnarono tutti al proprio destino, e aspettarono pazientemente tempi migliori.

• Morte del Governatore

Il 28 ottobre, moriva a Sassari quasi improvvisamente il Conte di Moriana, a soli 37 anni. Il Grondona ne dava avviso a Cagliari colla seguente lettera, scritta il 29 a 3 ore e mezza del mattino.
« Appena ho la forza di prendere la penna… L’adorato nostro Principe Placido Benedetto è morto ad un’ora e mezza dopo mezzanotte del giorno 28, da un attacco di contrazioni o di apoplessia. Aspetto gli ordini del Governo».
A Sassari fece viva impressione la morte fulminante del Principe; anzi corse voce nel popolo che Moriana fosse morto avvelenato. Vi fu chi disse che il Governatore, poche ore prima, chiese una limonata, e che dopo aver bevuto fosse colto da fortissimi dolori, i quali lo condussero alla tomba. Nella cattedrale di S. Nicolò, dove fu seppellito, fu eretto un mausoleo a spese di Carlo Felice – opera dello scultore Finelli.

• Carlo Felice

Carlo Felice, addolorato per la morte di quest’altro fratello, commise il governo della città e capo di Sassari, per la parte politica a quella buona lana di Valentino, che ben conosciamo, e per la parte militare a Vincenzo Amat di S, Filippo. Il dissesto nelle casse pubbliche cominciò ad essere più sensibile, perocché la povera Sardegna faceva sforzi inauditi per mantenere la famiglia reale, la quale, pressata dagli avvenimenti politici, viaggiava qua e là – da Firenze a Roma – da Roma a Frascati – da Frascati a Gaeta ed a Napoli. Dopo la partenza di Vittorio Emanuele e la morte di Placido Benedetto, restava solo in Sardegna Carlo Felice. Gli Stamenti avevano fissato 150.000 scudi al re, dei quali quasi 60.000 per i due Principi.
Morto il Conte di Moriana, Carlo Felice volle intiera per sé la somma oltre le circa 85.000 lire che gli venivano pagate per onorario e proventi nella sua qualità di Viceré. Gli Stamenti, rassegnati, tacquero. Da queste somme Carlo Felice formò la sua Cassa, di circa 200.000 lire. Il clero, toccato negli interessi, si agitò, volendo ricuperare le toltegli franchigie. Carlo Felice, stanco di governare, si portò a Roma nell’Aprile del 1803 per visitarvi il fratello re, Vittorio Emanuele, il quale non si occupava che di cambiare e ricambiare continuamente le forme degli abiti alla milizia – una delle sue più serie preoccupazioni. Nominò a Governatore di Sassari e del Logudoro Don Giacomo Pes di Villamarina, represse gli spiriti ardenti, spaventò i malvagi, e ottenne un po’ d’ordine. Carlo Felice fece ritorno a Cagliari il 14 novembre 1803.

• 1803. Arresto

La sera del 27 maggio fu arrestato Don Leonardo Sanna, mentre attraversava la piazza Castello per uscire fuori della Porta. Gli fu tolto uno stocco lungo tre palmi, che teneva dentro al suo bastone. Fu rinchiuso nel castello, e venne scarcerato dopo un mese.

• Esecuzione

Il Governatore di Sassari faceva il seguente rapporto al Viceré di Cagliari, in data del 3 luglio. « Lo spiacevole infortunio d’essere stato il condannato Dettori Era di Pattada, appena messo in Confortatorio, assalito da un forte accidente apopletico, ha fatto sì che la sentenza di morte proferitasi contro il medesimo non abbia avuto effetto sino a questo dopo pranzo, essendosi solamente domenica sul tardi potuto disporre alla confessione (non però alla comunione) con molto stento, e previ i rimedi di questi fisici o chirurghi… ».

• I Commercianti

 I Commercianti di Sassari furono tutti chiamati dal Villamarina, alla presenza del Reggente Valentino e dell’Intendente Fois. Essi vennero invitati a deliberare quali somme intendevano anticipare alla Regia Cassa per occorrere gli ingenti e gravi bisogni; promettendo loro di essere rimborsati co’ R. Donativi che si sarebbero esatti alla fine dell’anno; di più, che avrebbero goduta a suo tempo la privativa sull’estrazione dei grani vecchi e nuovi per fuori Regno, oltre ad altri riguardi che verrebbero loro usati dal Governo.
« …Non c’è stato nessuno (scrive il Governatore al Viceré) che siasi esibito alla prestazione della benché tenue somma, aducendo che i fondi che avevano non bastavano a pagare i loro creditori. » Eccovi, per curiosità, i 24 negozianti principali della piazza di Sassari, chiamati la mattina del 19 luglio 1803, al Regio Palazzo: G. B. Federci – Gregorio Conti – Filippo Tealdi – Luigi Talongo – Gavino Mascharello – Nicolò Frazioli – Fratelli Binna – Giuseppe Conti – Paolo e Ignazio fratelli Pompeiano – Pietro Frassetto – Nicolò Carneglia – M° Carlo Santoni – Pietro Palomba — Gaetano Denegri – Gio. Antonio Langé – G. B. Musso – Giuseppe Torchiani – Gio. Dappello – Antonio Piras Picolina – Don Lorenzo Sanna – Antonio Vincenzo e Francesco Sechi, padre e figlio – Salvatore Porqueddu – Filippo Panzaveroni – Domenico Bellomo – Luigi Chiappe.

• Arco trionfale

Il Villamarina scrive una lettera al Viceré il 6 agosto 1803, contro la scandalosa renitenza e petulanza di un Nobile e di un negoziante, i quali non vogliono pagare la loro quota per l’erezione dell’Arco Trionfale fatta in occasione delle feste per la venuta di Carlo Felice. Esorta a prendere le più efficaci misure pel maggior decoro del Governo – tanto più per il nobile, il quale ha sempre resistito alle contribuzioni, mentre sarebbe dovuto essere il primo a dare il buon esempio.

• Guarnigione

Eccovi per curiosità il movimento della truppa di guarnigione a Sassari, la sera del 6 agosto 1803. Soldati in servizio n. 337; fuori servizio n. 177; totale presenti n. 514; assenti perché comandati nei villaggi, n. 196; totale n. 710. Servizio giornaliero della Place (sic): – Al Palazzo del Governatore n. 13; al Quartiere n. 4; alla Prigione n. 14; a Porta Nuova, n. 11; a Porta Castello, n. 5; al Palazzo di Città, n. 4; a Porta Rosello n. 4; a Porta S. Antonio n. 4; a Porta d’Utzeri, n. 4; per le pattuglie n. 12; picchetto ai forzati n. 5; totale n. 80; – Cioè: un Officiale – 4 sergenti – 11 caporali – 1 tamburo, e 63 soldati.

• Battesimo di un turco

« Il 29 novembre 1803, è stato solennemente battezzato in questa chiesa Cattedrale dal signor Canonico Bianco Vicario Generale, dopo essere stato fedelmente istruito nei sacrosanti misteri della nostra Santa Fede e Cattolica Religione, il turco nominato Brachaim. Il Cav. Gran Croce Marchese della Planargia, che ha assistito ad un atto così eroico in qualità di Padrino, se lo verrebbe ritirare al suo servizio, cessata essendo la di lui schiavitù; ma non potendo io rilasciarglielo senza un ordine di S. A. R, La prego a volermelo procurare – » (Villamarina al Viceré).

• Una grazia

Il soldato Gio. Marras Cocco, del villaggio di Illorai, del Reggimento Sardegna, conosciuto col nome di Guerra Illorai, condannato alla fucilazione per un delitto di insubordinazione in pregiudizio del Sergente La Bellezza, dalle Carceri di Alghero ricorre al Re per la grazia. Il Villamarina, in data del 20 dicembre, appoggia la supplica, dicendo di meritare riguardo, «in vista massime del particolare servizio reso da esso soldato già un anno e più, di svelare la fuga del reo di Stato Vincenzo Sulis dalla Torre dello Sperone in Alghero. » – Questa notizia potrebbe avere una certa importanza per la storia del celebre tribuno cagliaritano.

• 1804. Nuovo Governatore

Nei primi di febbraio arriva a Sassari il nuovo Governatore Conte Thaon Revel, in sostituzione del Villamarina richiamato a Cagliari.

• Nelson

Nel febbraio si aveano forti timori di un’aggressione gallo-corsa, per l’allontanamento dall’isola della Maddalena della flotta Inglese capitanata dall’ammiraglio Nelson. Nei quindici mesi che stette alla Maddalena, Nelson non scese mai a terra; ma la sua marineria frequentò sempre quell’isoletta e la vicina Gallura, portandovi l’agiatezza, ed il benessere – come nota il Martini. Nelson partì nel 19 gennaio dell’anno seguente 1805, lasciando alcuni ricchi doni al paese. Egli era innamorato della Sardegna; e scrisse: « La Sardegna vale cinquanta, ed anche cento Malte. Più la conosco, più mi persuado del suo valore inestimabile per la positura, per li porti, per li vantaggi di ogni specie da lei offerti».

• Sospetti

Pare che il Governo piemontese temesse sempre qualche segreta intelligenza fra gli angioini sassaresi e la Repubblica francese. Riporto in proposito due lettere di Carlo Felice (Viceré) dirette da Cagliari a Vittorio Emanuele I, a proposito di un certo Felice Leoni.
23 febbraio 1804. « Dopo i dettagli che ho umiliato a V. M. non ho avuto altre rappresentanze dal detto Commissario francese, fino a che, giunto non ha guari in questa capitale Felice Leoni corso, destinato Vice Commissario di relazioni commerciali a Sassari, mi ha Egli inoltratole patenti riportate dal Primo Console per essere riconosciuto in tale qualità. La novità che presenta la straordinaria destinazione di un Vice Console Estero con patenti direttamente spedite dalla Potenza cui appartiene le ho fatte sentire al Commissario suddetto nella memoria che per copia so qui compiegare, unitamente alle aditate patenti Attenderò pertanto le disposizioni della M. V…. Non può ravvisarsi indifferente che il Governo francese voglia stipendiare per Sassari un Vice Commissario da risiedervi, e che dalli dritti del suo impiego non può lucrare nemmeno per la manutenzione in una settimana della moglie e famiglia che vi ha condotta, giacché sono ben pochi i bastimenti che approdano in quel porto, il di cui commercio cercò di rianimarsi colla sua ristaurazione, già prescritta sotto il glorioso governo del nostro fratello Conte di Moriana.
28 aprile 1804. Per evitare ogni motivo di doglianza al Governo francese, inerentemente alle di lei intenzioni, si è ammesso il Felice Leoni all’esercizio delle funzioni di Vice Commissario di quella Repubblica in Sassari. Ho reso pure inteso, di quanto, riguardo all’ammessione di questo Soggetto, si è degnata V. M. di significarmi… il Governatore provinciale di Sassari, che mi assicurò che la condotta finora tenuta da detto Leoni è molto circospetta, benché si sappia da più parti che Egli conosce tutti gli emigrati Sardi che si trovano in Parigi, e che per suo mezzo abbiano fatto pervenire delle lettere ai loro parenti, ciocché è pressoché impossibile d’impedire, mentre non mi sono creduto autorizzato dissigillare, o di far trattenere, le lettere di simili Agenti, per non dar luogo a clamorosi richiami.

• 1805. Morte del Duca

Il 16 gennaio muore, quasi improvvisamente, il Duca dell’Asinara, Capitano generale dei miliziani. Morì nel suo palazzo della Carra Grande (oggi Piazza Tola) e dicesi in seguito ad un’indigestione di tordi!

• Consiglio di Guerra

Il 12 gennaio si riunisce in Sassari un Consiglio di Guerra contro alcuni individui corsi, per reclutamento a favore di estera potenza.

• Giustiziati

Il 18 febbraio sono giustiziati a Sassari i due celebri banditi Cupeddu e Cossu, terrore dell’Anglona. I delitti in quest’anno crescono in una misura spaventevole. Dappertutto uccisioni, furti, scontri di squadriglie.

• 1806. Il Re a Cagliari

Il 17 febbraio, sopra una nave da guerra russa, arrivò a Cagliari Vittorio Emanuele I, in compagnia della moglie e delle tre principesse sue figlie. La battaglia di Austerlitz, fatale all’Austria, e la buona stella che accompagnava Napoleone, lo determinarono a cercar nuovamente rifugio in Sardegna. Carlo Felice dovette rinunziare al potere viceregio che aveva tenuto sin dal 19 Settembre 1799 – e tornò a’ suoi ozi beati, che amava teneramente.
Il ritorno della Corte nocque al pubblico bene. Si dispensavano a dritta ed a manca retribuzioni d’ogni sorta. Tutto era favoritismo; potente chi era in grazia della regina, la quale menava il re per il naso; fortunato chi aveva in corte un cuoco od un barbiere, amico o parente. Corruzione, tumulto, disordine generale, e sanguinose nimicizie. La Sardegna era sulle spine. A mezzogiorno cortigiani, lusso smodato, favoritismo; a settentrione ire, fazioni, delitti d’ogni sorta. Per colmo di misura i tunisini, che piombavano sopra Orosei.
I rimedi poi, peggiori del male. Delegati per ogni dove, arresti arbitrari, sovvertimenti di comuni – venalità nel foro, negli ufficiali, nei militari.
E in mezzo a tanta miseria e a tanto sciupìo di danaro speso per la riforma delle milizie, sorse l’ambizioso prete Pietro Sisternes, e persuase gli Stamenti ad offrire alla moglie del re, Maria Teresa, durante la sua dimora in Sardegna, 25.000 scudi per lo spillatico; non badando che le spille doveva comprarle il popolo a caro prezzo, per piantarsele in cuore. E la superba tedesca accettò il dono con fretta indecente come nota Siotto Pintor.
Qualche cosa di bene però si fece, e specialmente per l’agricoltura. Il Governo pensò sfruttare la vanità degli uomini, per giovare alla campagna. Il re concedeva la nobiltà progressiva al piantatore di 4.000 olivi; e minacciava la galera a chi distruggeva un albero o un innesto di ulivo, o diroccasse i muri di cinta di olivastri innestati.

• I banditi in convento

(21 Gennaio). Il Governatore si lagna col Viceré dello scandaloso ricovero che si dà ai banditi dai Conventi fuori città, e specialmente da quello di S. Maria di Betlem; e annunzia intanto l’arresto del famigerato Fanis, detto la frine, che da tanto tempo ivi si ricoverava.

• Furto in Chiesa

(25 Gennaio) Si propone giudicarsi in via sommaria ed economica contro i ritenuti autori del sacrilego e ingente furto perpetrato nel Convento dei Cappuccini di Sassari, donde esportarono il simulacro della Vergine di Valverde. I suddetti ladri sacrileghi furono impiccati otto giorni dopo – il 4 febbraio.

• Feste a Sassari

Saputosi il 22 febbraio, a Sassari, il ritorno del re, con tutta la Reale famiglia, nella Capitale, furono eseguiti i soliti tre tiri di cannone, colla più viva dimostrazione di gioia e fra i lieti evviva d’immenso popolo, accompagnati dal suono di tutte le campane. Alla notte, pubblica e splendida illuminazione; alle 3 e mezza di sera Inno ambrosiano nella Cattedrale, con intervento dei rispettivi Capi e della Nobiltà. Spedironsi Dragoni per annunziare in Alghero e in Castelsardo il fausto avvenimento. L’illuminazione continuò per varie notti, con generale entusiasmo.

• Morte dell’Arcivescovo

Il 23 febbraio, a mezzanotte, morì l’Arcivescovo di Sassari. Il domani sera si fecero 1 funerali. L’orazione funebre fu recitata dal padre Antonino Quesada, prof. di Sacra Scrittura e lingue orientali, e Preside del R. Convitto Canopoleno.

• Il Re a Sassari

Il 22 aprile si seppe in città la determinazione di S. M. di visitare Sassari. Fu un giubilo generale; e si cominciò col dar provvedimenti per il ricevimento. Il 26 si pubblicarono circolari a stampa sul modo di presentare le suppliche al Re. Si nominò Filippo Garavetti Maggiore di Piazza, e in sua vece a Castelsardo fu nominato Blum di Rielfelden, capitano dei Cacciatori esteri.
Negli ultimi di aprile Vittorio Emanuele (partito da Cagliari coll’intenzione di visitare il Regno) arrivò a Sassari e vi ottenne una dimostrazione, se non più affettuosa degli altri paesi (scrive l’Angius) certo più splendida.
Il re entrò per la Porta di S. Antonio, e salì lungo la Piazza, in mezzo ad una folla immensa di plaudenti e di curiosi.
Il 26 luglio i Consiglieri di Sassari mandarono una supplica al re, nella quale imploravano il permesso di poter ribattezzare la Porta di S. Antonio col nuovo titolo di Porta Reale – e ciò a perpetua ricordanza del felicissimo suo ingresso in questa città. Non saprei dirvi se il re concedesse la grazia; posso soltanto dirvi, che la Porta mantenne sempre il nome di S. Antonio anche dopo che la porta non c’era più! Il Re era partito da Cagliari il 25 di aprile, e vi fece ritorno alla metà di maggio.

• La Giustizia

Di ritorno dal visitar l’isola, il re fu impressionato delle piaghe della Sardegna, ch’egli ebbe campo di vedere da vicino; e allora si diede a migliorare l’amministrazione della giustizia. Le bande però dei facinorosi crescevano a dismisura, spalleggiate dai ribaldi magnati delle ville, i quali giunsero persino a sottrarre alla forza pubblica gli arrestati, e a scarcerare i prigionieri. Il re allora emanò un decreto di sangue. Si comminò la pena di morte a questi nemici dell’ordine pubblico e a qualunque li ricoverasse o li aiutasse; si dichiararono questi ultimi infami, tanto da perdere i privilegi di nobiltà. Si promise l’impunità anche agli assassini, purché catturassero i compagni; si decretarono due colonne mobili di truppe regie in ambi capi dell’isola; insomma si ricorse a mezzi estremi – ma i delitti non diminuirono!

• 1807. Prefetture

Fu deliberato di dividersi la Sardegna in provincie e d’istituirvi altrettanti centri intermedi di autorità, sì giudiziaria, che amministrativa e militare; da ciò l’ordinamento delle Prefetture. Quelle del Capo settentrionale furono sette, cioè: Sassari – Alghero – Bosa – Tempio – Ozieri – Nuoro – e Bono.

• 1808. Milizie

Il re, con editto del 1 aprile, organizzò gli antichi corpi dei Miliziani; istituì 12 Reggimenti di Fanteria e 6 di Cavalleria provinciale, rispondenti i primi ad uno per provincia (eccettuate quelle di Cagliari, Sassari ed Alghero) ed i secondi ad uno per ogni due provincie. Queste leve furono tutte fondate sul privilegio, e ad arbitrio dei Consigli comunali. Erano tali e tanti gli esenti, che tutto il peso ricadeva unicamente sui celibi e sugli ammogliati senza prole delle classi povere di campagna.
In quest’anno si creò un nuovo comune nella Gallura, la cui prima idea si deve al Conte di Moriana. Per onorare la regina che lo prendeva per il naso, Sua Maestà pensò di raccogliere alcuni pastori nomadi, e fece sorgere un paese nuovo, che prese il nome della superba Maria Teresa, coll’aggiunta di un epiteto che non meritava certo: Santa Teresa.
Il 22 marzo di quest’anno morì in Parigi Gio. Maria Angioi, la cui morte – come nota il Martini – fu una gran perdita per l’emigrazione sarda.
Cinque mesi dopo – il 6 agosto – moriva meschinamente quel certo Valentino, la cui crudeltà rimarrà famosa nella storia sarda. Non fu compianto da alcuno.

• 1809. Misfatti

Dinanzi al Governatore di Sassari, comparvero tutti i rappresentanti dei Consigli comunali e i più notabili della Gallura, per gli eccessi a cui si erano lasciati trascinare, volendo impedire l’applicazione della legge relativa al servizio militare provinciale. Dopo lunghe trattative, e intermediari, furono fatte le paci; e i galluresi si assoggettarono come gli altri alla leva.
A questo punto mi è impossibile registrare tutti i misfatti che si commettevano; sono tanti e tali, che non basterebbe l’intiero volume per registrarli – Orrende e molte fazioni private – assassini atroci crimini di ogni genere – lotte micidiali tra comuni e comuni, tra pastori e agricoltori in fatto di pascoli e di terreni; movimenti continui di regie truppe per il capo settentrionale; missioni di delegati speciali da uno in altro luogo per la compilazione di procedure criminali; giudizi eccezionali; arresti di prepotenti magnati delle ville per cautela; pene economiche inflitte dal dispotismo militare; ruine di comuni invasi da truppe regie o nazionali; giusdicenti corrotti; denari e doni profusi a giudici, ad intriganti di Corte, a comandanti militari che facevano mercato della giustizia contro il volere di un monarca ottimo di cuore e zelante del giusto e dell’onesto, ecc. » – Così il Martini – ed è anche molto lontano dal vero!

• 1811. Fazioni

La Gallura, lacerata da due fazioni furibonde, era in iscompiglio. Fatto centro Tempio, esse saccheggiavano, devastavano, assassinavano, assetati di vendetta e di sangue. Fu ucciso colà il Censore Diocesano, il Sostituto Procuratore Fiscale, l’Avvocato Fiscale della Pretura, il Giusdicente. Tutti gli ufficiali tremavano. Una spedizione fatta dal Governatore di Sassari, un indulto pei reati leggieri, rimise un po’ d’ordine nella Provincia. La lotta partigiana fini colle paci, ottenute per opera del Clero e del popolo di Tempio, e rogate il 9 maggio 1813 dal notaio Fois Cabras. La grazia fu firmata dal re, con carta reale del 29 stesso mese.

• Franchigia

Il 3 agosto il Comandante il Battaglione dei Cacciatori di Savoia inoltra domanda al Municipio per ottenere franchigia della civica gabella per le paste da somministrarsi alle truppe acquartierate. I consiglieri si rifiutano recisamente, dicendo che da secoli non si era usato dar franchigia se non per il solo grano, e farina puramente necessaria per il pane di munizione. Essi scrivono al Viceré: che si crederebbero rei di massima indolenza e mancanti al loro giuramento se gravassero più oltre il comune. Espongono le tristi condizioni in cui versano, non essendo in grado di pagare i due R. Donativi, la tassa per strade e ponti né quella delle Dogane imposta fin dal 1627; non i censi arretrati per i due Seminari e per li Ospedalieri, e nemmeno il pagamento di circa 2.000 lire sarde, imposto per il mantenimento degli spuri.

• 1812. Fame

All’odio delle fazioni si aggiunse un’altra terribile calamità, che avea fatto capolino fin dall’anno precedente: la fame.
La mancanza delle piogge rovinò i seminati; gli esorbitanti calori del maggio compirono l’opera. A Cagliari si ebbe il vaiuolo, che fece una vera strage di fanciulli; mancò colà l’acqua per dissetarsi.
I denari abbondavano negli scrigni, e si moriva di fame. I negozianti co’ contrabbandi impinguavano, e molte fortune improvvisate ebbero origine da quest’anno fatale – Mentre i più morivano di stenti e di miseria, i baroni crescevano in potenza, e prepotenza.
Si legge che ad uno dei principali cittadini di Sassari parve gran fortuna l’aversi procacciato tre rasieri di grano al prezzo di cento scudi! Dalle lettere del Governatore di Sassari, esistenti nel R. Archivio di Cagliari, si deprendono le seguenti notizie:
(21 Gennaio). « Il comune di Santa Teresa chiede grano a Sassari e a Castelsardo per sollievo della popolazione; gli viene negato stante le gravissime condizioni in cui versavano i due paesi. »
(28 Gennaio). « Non meno per occorrere agli urgenti bisogni della classe miserabile e famelica, che per diminuire per quanto è possibile la distribuzione del pane, s’invitano i benestanti a contribuire L. 6, per aprire cinque macelli a benefìzio dei poveri nelle parrocchie e negli stessi siti ove ora si vende il pane; fissando la carne al più basso prezzo possibile pendente la quaresima. »
(8 Febbraio). « Si è radunato un fondo sufficiente, massime dai negozianti. Il compratore dovrà esser munito di un biglietto del Rettore. A dispetto dei maldicenti ed invidiosi che censurarono l’operato dei Governo, verranno sollevati i poveri. Si assicurerà la pericolante tranquillità pubblica. »
(22 Febbraio). « Il termine fissato pel sussidio di 7 denari a ogni soldato spira col mese – Però è indispensabile continuarlo – Il soldato soffre la fame – Le paste sono a prezzo enorme – la strettezza è estrema in ogni genere di sussistenza – Non fave, non faggiuoli, si trova nulla – A ogni individuo poca carne senza pane, perché non se ne trova – Da una libbra e mezza di carne, dopo cotta, dopo tolte le ossa, le cartilagini, resta assolutamente nulla – un uomo forte, robusto, che lavora, ogni 2 o 3 notti non dorme; come resiste? 5 soldati sono morti di consunzione e di miseria, in una settimana! Tutti sono estenuati dalla fame. »
I nostri vecchi ricordano ancora, che molti pastori dei villaggi avevano piantato le tende all’imbocco dell’antica strada di Portotorres, e propriamente vicino alla casa cosìdetta Palazzo dei morti. Ivi arrostivano della carne all’aria aperta, e la vendevano all’immensa folla che accorreva là per sfamarsi. Il pane era un lusso, e non potevano mangiarne che i soli signori!
Non basta la parola per descrivere tanta miseria. I nostri vecchi ricordano d’aver veduto degli straccioni a torme girar la città, tirandosi dietro i vecchi, i fanciulli e le spose, tutti pallidi e scarni, chiedendo la carità a voce alta, con grida strazianti. Furono trovati dei morti d’inedia, colla bocca piena d’erbe… A questa disgrazia se ne aggiunsero altre due: la notizia che i corsari girovagavano per i littorali dell’isola, aspettando il destro di gettarsi sulle prede umane; – e la notizia che la febbre epidemica ripullulava in alcuni paesi del levante. Quest’ultima notizia però non intimoriva che la classe elevata; i poveri invece invocavano la peste come unico rimedio ai loro lunghi digiuni.
Il 19 settembre uno sciabecco turco, piombato sulle coste della Nurra, fece schiave circa venti persone, donne e fanciulli. Un turco fu ucciso dai pastori. Eppure, con tanta fame, fu chiesto il saldo del Contributo di S.M. la Regina; e i Consiglieri scrissero il 3 marzo a S. E. che era impossibile incassare un centesimo dai molti morosi; accennarono all’impotenza ed allo stato d’indigenza la più deplorabile dei Contribuenti, che il Governatore voleva costringere colla forza – Nella suddetta lettera è scritto: « La maggior parte del pubblico è ridotto, senza alterazione di espressione, all’agonia per mancanza di mezzi »…

• Un Arciduca a Sassari

Il 3 marzo di quest’anno, alle ore 3 di sera, arrivò a Sassari S. A. R. l’Arciduca Francesco, fratello di S. M. la Regina. Mentre la popolazione moriva di fame, si erano emanati da Cagliari le disposizioni per il degno ricevimento di questo principe. Nella relazione del Governatore di Sassari è detto: « L’Arciduca è stato ricevuto nella stessa brillante foggia colla quale fu ricevuta e complimentata S. A. R. il Duca del Genovese. Intervennero tutti i Cavalieri, Magistrati, Corpi, dai quali fu arringato e complimentato con proprietà tale e decenza che ne è rimasto pienamente contento – Alla sera illuminazione con fuochi; domani Tedeum con tutta la possibile pompa e solennità ecc. – È veramente un principe amabile della più grande bontà. »

• Una congiura a Sassari

Nel marzo di quest’anno il re fu turbato dalla denunzia di una congiura ordita in Sassari per sollevare la popolazione, sprigionarvi i carcerati e manomettere le proprietà e le vite dei cittadini agiati e teneri del governo. Non si tardò però a ritenerla come una chimera. Per quanto si fece non si giunse a chiarirla, quantunque molti fossero stati detenuti come rei o come testimoni, e quantunque fosse stata subito creata a Sassari una speciale Commissione, mista di togati e di militari. Non si venne a capo di nulla, e questa congiura è tuttora un mistero. Ciò però non tolse che si lasciassero in carcere gli imputati fino al 1815, cioè a dire, fino a che la Commissione dichiarò al governo di Maria Teresa le inutilità delle sue procedure – O la congiura era dunque una chimera, o i congiurati questa volta seppero con molta fede ed accortezza mantenere il segreto, anche fra le mura di un carcere. Anche a Cagliari – un mese dopo – fu ordita una congiura per cacciare i pubblici ufficiali piemontesi, a ragione invisi. La congiura però mancò di effetto – ed i congiurati andarono a finire sui patiboli, nell’esilio, nelle carceri, o nelle galere – Questa rivoluzione, anche essa, fu avvolta nel mistero. Si parlò di alti personaggi, di molti danari, di speranze per alcuni nella protezione britannica, e per altri nell’impero francese; del concetto di togliere la corona a Vittorio Emanuele per darla a suo fratello Carlo Felice, ecc, ecc. Comunque sia, è bene si sappia, che a Cagliari in quell’anno era grande rivalità fra la Corte del Re e quella del principe fratello. Si voleva mettere in trono Carlo Felice, e farne discendere Vittorio Emanuele… Fra i due fratelli non era troppo buon accordo; i cortigiani, col troppo zelo, soffiavano nei loro animi. Chi può dirci che quelle due congiure non avessero rapporto colle gelosie delle due corti?

• 1813. Giudici istruttori

Con carta reale del 16 gennaio fu data facoltà straordinaria al Governatore di Sassari per scegliere a suo arbitrio giudici istruttori degli atti criminali relativi ai gravissimi e frequenti misfatti che funestavano senza tregua il capo settentrionale.

• Tassa sull’olio

Il Municipio manda un memoriale al Re in data del 13 febbraio, supplicandolo di sopprimere la tassa di 6 reali per ogni barile d’olio d’olivo che si spedisce al continente. Si fa osservare che essa tassa – imposta fin dal giugno 1807 – grava solo sui sassaresi, rimanendone esente ed immune il rimanente del Regno; anzi può dirsi opprima la classe povera, poiché la raccolta delle olive è la maggior risorsa di essa, impiegandosi uomini, donne e fanciulli durante il tempo della maggior carestia, cioè nell’inverno.

• La vedova Dupont

« In quest’anno fu a Sassari la vedova Dupont – la donna che a Parigi aveva soccorso Gio. Maria Angioi nell’indigenza. Essa veniva in Sardegna per chiedere agli avari eredi del morto esule qualche compenso. Il nome del defunto sgomentava gli ufficiali regi; e la Dupont, che lo celebrava con religiosa commiserazione, per oltre sei mesi aspettò in Sassari che se le concedesse la gita a Cagliari, ove proponevasi di ottenere il bramato indennizzo, che non sappiamo se veramente ottenne » – Così il Sulis. La Dupont ebbe in Sassari ospitale ricetto nella casa del signor Esperson.

• 1814-15. La regina Maria Teresa

Caduta Parigi sotto le potenze confederate, risorsero i re caduti, e fra questi Vittorio Emanuele che fu subito chiamato a Torino.
Il re trasmise il potere regio, in qualità di Reggente del Regno, a Maria Teresa d’Austria sua moglie – e il 20 maggio partì da Cagliari dopo aver abbracciato piangendo la donna che lo menava per il naso. Il regno di questa donna, da nessuno amata, non lasciò memoria degna di nota.
Nell’anno seguente – 1813 – il breve risorgere e il pronto ricadere di Napoleone, stramazzato a Waterloo e sepolto vivo a S. Elena, fece fremere di gioia Maria Teresa; la quale l’odiava tanto, che ne avea fatto scolpire in rilievo l’effigie nel suo orinale d’argento. Rassodati i troni, la regina tentò ravvicinarsi al marito; e il 16 di agosto ripartì per Torino, colle tre sue figliuole, deponendo il fardello della Reggenza; tanto più che voleva sfuggire il pericolo dell’invasione dei barbareschi che a Tunisi preparavano una forte squadra per piombare sui mari sardi. I popoli furono contenti, nella speranza di non più pagare le spille della Regina… Ma le spille rimasero sempre!
Carlo Felice, colla partenza della Regina, tornò alla carica di Viceré.

• 1815. I Gesuiti

I Consiglieri supplicano S. M. perché siano richiamati a Sassari i Gesuiti; ricordano’ che conservasi ancora in buon stato il primo Collegio dei Gesuiti fondato da Alessio Fontana, e fanno osservare al Re che i Gesuiti del Capo di Sassari sono in maggior numero di quelli del Capo di Cagliari!

• 1816. Pirateria

Per la convenzione colla Tunisia in data del 28 agosto, e coll’intervento di altre potenze, cessa finalmente la pirateria che per oltre cinque secoli travagliò l’isola e il continente. Le spiagge della Sardegna furono libere – ma i sardi stettero sempre sui monti, ed ebbero in genere avversione per la marineria.

• Fame

Nell’anno 1816 la fame fu uguale a quella dell’anno 1812. Scrive l’Angius: « Si potrà intendere quanto sia stata la penuria ne’ paesi poveri, se in Sassari era disperata e mortale. Apparivano ad ogni tratto quasi spettri di morti, a passo lento e vacillante, mestamente gementi, spesso appoggiatisi, e dopo piccol tratto assidentisi nella fievolezza de’ nervi, ed appena potenti a porger la destra per un soccorso, che meno domandava la fioca voce, che lo sguardo spento. Il languore invadea finalmente i principali organi della vita, sentivano i digiuni il deliquio del core, stridevano miserabilmente nell’estremo lamento, e stramazzavano morti nelle contrade. La memoria di questi giorni quando viene negli spiriti, e si riflettono nell’immaginazione quelle scene lugubri, i cuori pietosi restano compresi da una angosciosa mestizia; però il pensiero rifugge di ritornare a quell’anno fatale. »
In quanto all’epidemia, che insieme alla fame era venuta a tormentare gli uomini, proveniva da certe febbri prima sviluppate a Cagliari; erano d’indole maligna; cagionate, secondo i medici d’allora, dalle vicissitudini atmosferiche. Dopo Cagliari il contagio afflisse Sassari; la spaventosa mortalità decimò la sua popolazione. I medici curavano i malati con generose cavate di sangue e con purganti; l’infermo soffriva l’arsura, e gli si proibiva l’acqua.

• I «fidellai»

Si ordinava dal Municipio ai fidellai (pastai) – in data del 1° febbraio – di tenere in bottega provvista di paste per il pubblico, acquistando il grano dalla Frumentaria (e non da altro luogo) al prezzo di scudi quindici al rasiere. Le paste bianche dovevano vendersi a soldi 3 e danari 4 la libbra – e quelle zanferate a soldi 3 e danari 8 sotto pena di scudi 10 al contravventore. I fidellai di Sassari erano: Salvatore Bibiana – Bacigalupi – Luigi Sturla – Giacomo Temussi – Giuseppe Puppo – Giuseppe Raffo – Francesco Canepa – Baingio Ghera – e Giovanni Boeto.

• Mortalità dei condannati

Nella corrispondenza dell’anno 1816 trovo nei R. Archivi moltissime lettere del Cav. Cugia Governatore di Sassari al Viceré, dove si parla della grande mortalità dei prigionieri e dei galeotti nelle carceri e nell’ergastolo di Sassari. Questo fatto preoccupò molto il governo, e fu oggetto di segrete pratiche e investigazioni. Si mormorava di peste; pare però che la causa di questa malattia non fosse altra che la scarsa o cattiva nutrizione, come i lettori potranno rilevare dai seguenti brani, che io tolgo dalle lettere del suddetto Governatore.
(16 Luglio) « Ieri si sono fatti passare soli 4 ammalati dalle carceri di S. Leonardo allo Spedale del Castello, e se ne tolsero dodici convalescenti. Il numero degli infermi giornalmente diminuisce… In detto Spedale vi sono ancora 31 forzati (!) dei quali alcuni gravemente malati, e due viaticati…
(20 Luglio. Lettera confidenziale). « A riguardo delle malattie che hanno regnato in queste carceri, che tanta sensazione hanno fatto nell’animo del Sovrano, farò un rapporto che toglierà ogni sospetto di ciò che si è voluto far credere da persone che, prese forse da panico timore, ne hanno esagerato l’indole ed il carattere; né dimenticherò quelle che al presente flagellano li servi di pena dell’Ergastolo, che sono della stessa natura e che spero non avranno conseguenza di rimarco, in grazia di averli tolti dall’ergastolo che si fa giornalmente disinfettare, e messi nell’Ospedale del Castello. »
(3 Agosto) « Nelle carceri non vi sono che i 12 affetti di cronicismo; e dei forzati non vi sono che soli 24 ammalati (!)».
(24 Settembre). « Da domenica scorsa hanno cessato di vivere cinque detenuti, cioè 3 nel nuovo Spedale del Castello, di malattia, e li altri 2 nelle Carceri principali di S. Leonardo – uno improvvisamente, e si crede di pura fame, perché la razione giornaliera che si somministra non basta – e l’altro di malattia grave, e questo è appunto il famoso Proto Cappeddu, perfetto ladro e Sicario che mi costò tanto per farlo arrestare, e che, per non fuggire, si lasciò nelle medesime carceri ad instanza finale – rimanendo in S. Leonardo altri sette malati… »
Nel 1816, come nel 1812, tanto i carcerati quanto i soldati mancavano di pane! Aveva ragione l’Angius: si moriva di fame in mezzo ai danari!

• I Consiglieri offesi

I Consiglieri, in data del 19 maggio 1816, mandano un ricorso al Viceré contro il Governatore, il quale pretendeva che essi dovessero, in persona, fare il giro della città per verificare e descrivere tulle le fariniere, alle quali poi dovevano distribuire il grano incettato per i bisogni del pubblico. Dicono i Consiglieri, di non voler accettare quest’incarico per tre ragioni: 1° Perché in nessun tempo i Consiglieri sono andati in persona a verificare le fariniere, ma si sono sempre serviti degli uffiziali pubblici e subalterni. 2° Perché non pareva loro decoroso andarvi, dal momento che il Magistrato Civico non venne ammesso all’amministrazione e governo dei fondi delle contribuzioni, cui furono nominati due deputati dalla pubblica confidenza. 3° Perché comprendevano la nessuna necessità di un incarico così odioso; ben sapendo che tutto il peso ricadrebbe sulle povere fariniere, le quali levavano al cielo le loro doglianze, e delle quali molte, disperate, avevano persino abbandonatole loro case e le loro famiglie.
Pare che il Viceré non abbia data alcuna soddisfazione ai Consiglieri; poiché essi il 6 di giugno si rivolgono direttamente al Re colla seguente supplica:
« È da gran tempo che il Magistrato Civico di Sassari, decaduto dal suo antico splendore, e spogliato di quella giurisdizione di cui era rivestito, va soffrendo delle umiliazioni per le quali non è libero nelle sue funzioni e non riscuote presso il pubblico quei riguardi e quelle considerazioni che per l’addietro gli venivano tributati.
« Per un piccolo residuo di quel decoro che ancora in Lui rimane, e per un puro zelo di conservare il lustro delle sue funzioni, ha creduto di non essere tenuto all’incombenza appoggiata dal Governatore, di fare, cioè, personalmente una perquisizione a tutte le fariniere…
 Qui i Consiglieri espongono le ragioni da noi già esposte, e poi continuano cosi: « …Le dette ragioni non piacquero a S. E., ed ebbe il Magistrato la disgrazia di attirarsi i suoi rimproveri e la mortificazione di essere assoggettato alla domanda di una pubblica scusa in Corpo, di otto giorni di arresti in casa per tutti, di un mese di sospensione dei salari e proventi al Consigliere in Capo e al Consigliere in seconda, con essersi altresì ordinato al Segretario del Magistrato Civico di registrare tali provvidenze nei Libri di Città, affinchè non perisse in verun tempo la funesta memoria di questo loro solenne … Quindi, non osando comparire sotto gli occhi del pubblico con un’onta che farà epoca negli annali della patria, implorano da S. M. la grazia di potersi ritirare nelle loro case, coll’accordarsi loro l’esimizione dall’ulteriore servizio dall’impiego di Consiglieri. »
                                                 Firmati: Delrio, Sanna Manca e Pinna Mula.
Il re non accettò le loro dimissioni.

• Partenza di Carlo Felice

In quest’anno di penuria e di mortalità Carlo Felice si ritirò nella deliziosa villa d’Orri, vicino a Cagliari. Nel mese di giugno partiva per Napoli, portando seco come Segretario il nostro storico Barone Giuseppe Manno; e lasciando in Sardegna, come Luogotenente Viceré, il Villamarina.

• Corriere postale

Il 2 agosto, di mattina, fu grassato in Monte Santo il corriere di Bonorva Andrea Pala, da sette uomini armati; i quali, dopo averlo assalito e ben legato, lo depredarono di quanto portava in danaro, effetti, valigia e sacchetti di lettere diretti all’Ufficio di Posta. Il Pala dichiarò di non aver conosciuto alcuno, ma dal linguaggio giudicò essere tutti paesani di Mores, non di Bonorva.

• In campagna

Nei primi di agosto il Governatore riferisce al Viceré sul malcontento che regnava in Sassari per le ronde. Si attribuiva ad esse, o alla loro poca sorveglianza, lo spezzamento ed apertura di molte case di campagna, donde levarono persino le serrature. Si aprirono e spezzarono 1 cancelli dei giardini per rubarne gli agrumi, e di frequente si lamentava l’abbruciamento di molte viti e il taglio di molti alberi fruttiferi per aver legna da ardere.

• Un sottotenente bastonato

Il 29 ottobre 1816 il Governatore di Sassari, Cav. Cugia, informa il Viceré dell’insulto fatto a Don Gavino D. P., Sottotenente nel Reggimento dei Cavalleggieri, da sei sergenti del Battaglione dei Cacciatori italiani. Don Gavino aveva riportato sei ferite, cinque delle quali con arma di punta e taglio, e l’altra cagionata da strumento contundente. Il Governatore nel suo rapporto dice risultargli, che i sei sergenti erano usciti in quella notte dal quartiere per fare una serenata; tre di essi avevano il permesso, gli altri no. Egli unisce alla lettera la relazione dettata dallo stesso Don Gavino alla presenza dell’Aiutante Maggiore Cav. De Sedulo Della Croce, di un Cicu e di un certo Pettenadu; e mentre trova veridica la detta relazione riguardo all’insulto e alle ferite, la crede esagerata per quanto concerne il numero degli assalitori. Lo stesso Governatore aggiunge che il Pro Reggente Rugiu trovavasi assente, perché occupato nelle vendemmie. (!)
A titolo di amenità, e perché il lettore possa farsi un’idea della vita militare d’allora, riporto la relazione del bastonato sottotenente, il quale dovette tornarsene al suo quartiere in maniche di camicia.
« Ieri notte, 25 dell’andante mese, allorché saranno state le ore 10 e forse le ore 10 e mezza, trovandomi in questa camera, ossia Torricola, in arresti già da cinque mesi, aspettavo che il mio servo per nome di guerra Richetto, Trombetta dei Cavalleggieri, mi portasse al solito la cena; ed allorquando saranno state così per le 10 e mezza, (non potendo stabilire l’ora fissa per non ricordarmene) lo veggo comparire portandomi del pane, non però companatico. A tal vista non ho fatto altro che vestirmi la cappa che avevo in questa torricola, di panno color grigio, rinchiudere dentro il mio servo, e sortirmene fuori, avendo al disotto di essa cappa l’intiero uniforme, senza spada però né altra sorta d’arma, avendo precisamente il mio polverino in saccoccia, e col berretto in testa invece di cappello; e passando nella porta d’ingresso di questo Quartiere non ho veduto alcuno, giacché a quell’ora è quasi solito mancare in quel posto la sentinella (!) « M’incamminai dunque verso la stretta in cui abita presentemente il Regio Signor Avvocato dei poveri, Gio. Usai Mannu d’Ozieri, ed in essa introdottomi solo, picchiai alla porta d’una casa bassa posta in totale prospettiva al portone d’ingresso dell’abitazione del predetto Sig. Avv. dei poveri; nella qual casa bassa abita una certa Catterina, maritata, e piuttosto avanzata in età, ignorando io il suo cognome, come il nome e cognome del marito, nonché la denominazione della strada in cui è collocata la surriferita casa bassa, tuttoché sia posta alla parte sinistra entrando in detta stretta dal pian Castello; e poiché al picchiar della porta nessuno mi ha risposto da dentro, giacché non ero solito andarvi, ed in quella notte cercavo di portarmi per trattenermi, mi son trattenuto appoggiato alla stessa porta.
« Dopo qualche minuto ho veduto che un numero di Sergenti di Cacciatori italiani collo Stato maggiore e Sergente maggiore, che benissimo conosco tutti di vista per quanto oltre di averli veduti ieri notte e ben ravvisati allo splendore delle stelle (?) li ho anche veduti sin dal momento che sono arrivati in Sassari, dalla finestra che esiste all’ingresso di questa torricola, che mira al suddetto pian Castello, perché posta in vicinanza alla Torre del Campanone. Portava ciascuno di essi strumenti per suonare, ed appena mi han veduto così appoggiato, il detto Aiutante Maggiore, ossia Stato Maggiore, che era armato di sciabola al par di tutti gli altri, avvicinatosi con essi, mi domandò che cosa ivi facevo. Io risposi che non cercavo loro; e subito ho lasciato andare in terra la cappa acciò vedessero la divisa militare che portavo colle rispettive spallette – portando, come dissi, il bonetto in testa. Nulla di meno il detto Stato Maggiore mi disse di andarmene. Io gli risposi che non me ne andavo. Lui mi replicò che se non me ne andavo me ne farebbe andare mio malgrado. Al che, distaccandomi io da quella porta perché vedevo che quasi quasi mi si avventavano il detto Stato Maggiore e suoi compagni, mi guadagnai un altro sito più vicino al pian Castello, e cavandomi da saccoccia il polverino, fingevo di essere una pistola, onde potermi sottrarre da qualche inconveniente, sebbene non lo abbia scansato, poiché vedendo che essi tutti cercavano di avvicinarsi a me, feci loro sentire che il primo che avanzerebbe cadrebbe, dimostrando di essere il polverino, come dissi, una pistola; ed in tal modo li feci stare lontani da me per qualche quarto d’ora (?).
« Poi, dopo aver fatto vedere che se ne andavano, facendo alcuni passi verso il pian Castello, un Sergente che ha una bellissima voce, perché l’ho sentito cantare al di sotto di questo quartiere, mi si avvicinò dicendomi: « – Camerada, facciamo pace – » tenendo però egli la sciabola sfoderata in mano. Io risposi al medesimo (per quanto gli altri saranno stati sei passi ordinari lontani): Sappiate che son vostro Superiore!
« Appena proferite queste parole mi viene uno dalla parte di dietro, che ho ben conosciuto essere dei detti Sergenti, e di quelli appunto ch’erano colli precitati Stato Maggiore e Sergente Maggiore, e mi dà le mani addosso; e, fattomi fermare in quel sito, il detto Sergente che ha la voce così bella mi scaricò un colpo di sciabola, e mi fa distaccare dall’uniforme una delle spallette, che ora non saprei dire se fosse quella della parte destra o quella della sinistra (?).
« Affollatisi allora tutti contro di me, sfoderando le rispettive loro sciabole, mi caricarono di colpi, e per conseguenza m’infersero delle ferite, per cagion delle quali son dovuto cadere in terra, versando sangue da quella riportata nella testa. « Li suddetti Stato Maggiore e Sergente Maggiore erano travestiti; il primo di questi due aveva un flaco blu col suo bonetto in testa, ed il Sergente Maggiore aveva anche il suo bonetto in testa, o per meglio dire berretto, giacché detti berretti, sì dell’uno che dell’altro, erano coperti di pelle colla lana.
« Essendo io sdraiato in terra, essi ritirarono la cappa che avevo lasciato cadere in terra, mi cavarono a forza l’uniforme di cui ero vestito, e s’incamminarono, tutti uniti, a passi frettolosi, verso il loro quartiere.
« Io tenni loro appresso, in guisa tale che giunsi primo (?) alla sentinella del quartiere di detti soldati Cacciatori italiani, (giacché essi fecero vedere di trattenersi qualche poco al di fuori). Dissi a quello che era in sentinella, (erano allora le 11 e mezza salvo sbaglio) di arrestar tutti quelli perché mi avevano ferito; al che la detta sentinella mi rispose, che andassi, che ero ubbriaco!
« In vicinanza della sentinella vi era un Sergente, che ignoro del pari come si chiami, ambedue però sono dello stesso reggimento italiano. Avendo veduto che la suddetta sentinella e Sergente nulla operavano dietro alla mia lagnanza, son venuto in questo quartiere, ed appunto nella stanza del fu soldato Fanciola, da dove avendo preso la carabina, senzachè vi fosse alcuno (!) giacché la porta era aperta, ignorando se la detta carabina fosse o no carica per non averla osservata, nel supposto però di esserla, mi sono incamminato per incontrarmi cogli aggressori, e nel sortire da questo quartiere il Caporale di guardia, per nome di guerra Rinardi, mi ha dato la voce ferma là! – al che ho abbandonato la detta carabina, e mi sono scappato per sortire da questo medesimo quartiere, come son solito, portandomi in casa del Cavalleggiere Melis, che sebbene lui non vi fosse, vi erano due donne, delle quali ignoro il nome e cognome, una però è sua moglie, e l’altra ho inteso dire essergli amica (!), ed in detta casa, che è posta al di sotto dell’abitazione del Sig. Segretario di questo R. Governo Don Pietro Paolo Massidda, ignorando la denominazione della contrada, mi son trattenuto insino alle tre ore di mattina, da dove alcuni soldati mi han trasportato in questa detta Torricola, forse per relazione fatta a detti soldati, che erano Cavalleggieri, da una di quelle due donne, che erano in casa del detto Cavalleggiere Melis. Alla qual casa è venuto il detto mio servo Richetto, il quale forse, nel veder che non ero rientrato in quartiere, sarà sortito; poiché, sebbene egli abbia detto di averlo io qui dentro rinchiuso, non ho chiuso a chiave la porta, ma bensì la ho lasciata socchiusa.
« Trattandosi d’un affare molto disdicevole al mio carattere, e di una offesa non indifferente, mi querelo criminalmente contro tutti li sunnominati Stato Maggiore, Sergente Maggiore e Sergenti, accusando loro tutte quelle pene sì corporali che pecuniarie nelle quali sono incorsi; la qual querela non la do per odio né malavoglienza che abbia loro, bensì per essere tale la genuina verità, come così l’ho giurato con altro speciale giuramento, che ho prestato nella forma consueta, e mi sottoscrivo.
« Fatta lettura, la confermo. »
Non so dirvi la soddisfazione data dal Viceré al Sottotenente Delitala, né la ragione per cui egli si trovava da cinque lunghi mesi in quartiere, condannato agli arresti. Se il Delitala si fosse contentato di cenare col solo pane, avrebbe di certo risparmiato molte seccature. Ma Dio sa che razza di companatico andasse a creare nella stretta dell’Avvocato dei poveri!

• 1817. Ritornello

Continua la solita nota: – i seminati in pessimo stato – il timore della peste che imperversava in Algeri e Costantina – i furti, le fazioni e i delitti che crescono in una terribile proporzione. Dalla partenza di Carlo Felice comincia il periodo così detto della dominazione di Tempio e di Gallura. Villamarina divise con loro l’esercizio del potere. Scrive il Martini: « – Eglino quasi tutte occupavano le maggiori e minori cariche pubbliche, e posero anche piede dovunque, nell’ecclesiastica gerarchia, e direttamente o indirettamente governarono le cose a loro talento. Insomma, il governo locale non era altro che una consorteria di Tempiesi e Galluresi; e coloro che non appartenevano alla loro stirpe dovevano tacere ed ubbidire; ché se avevano il coraggio della resistenza, rovinavano immancabilmente. Si giunse a tale che, fra tanti facinorosi che pagarono sulle forche il fio dei delitti, un solo gallurese non vi si annoverò… »
Villamarina faceva di tutto per reprimere gli animi torbidi – e vi riuscì. Il regno si reggeva colle prammatiche: la berlina, la fustigazione e la forca. L’arbitrio dei magistrati era senza limiti. Le teste sempre inchiodate – i corpi spezzati, squartati, e sempre esposti.  

• 1818. Insulto

Il Sindaco di Città Antonio Branca, la mattina del 29 Settembre, insolentiva il Membro del Magistrato Civico Antonio Sanna Manca. Il Corpo intiero dei Consiglieri si rivolse al Governatore esponendo il fatto, come insulto al Municipio, e chiedendo soddisfazione. Il Sindaco domandò scusa al Corpo – e il Corpo scrisse al Governatore, in data del 2 ottobre, che era soddisfatto.

• Olio

Il negoziante Gio. Battista di Diano presenta al Municipio, in data del 9 novembre, il progetto di un pubblico lavatoio per estrar l’olio dalle sanse. Il Municipio trova utile questo progetto, sconosciuto sin allora al paese; però lo trova di pregiudizio al pubblico, in quantochè (dice la lettera) dovendosi lavare i sansi per mezzo dell’acqua pubblica che scorre nel luogo prescelto, detto della Murighessa, quella verrebbe torbida e pregna di particelle che possono essere nocive ai bestiami che passano nelle vicine terre. Conchiude dicendo, di non poter accordare il permesso per 12 anni, come si chiede, ma per un solo anno, in via di esperimento.

• Nuovo Governatore

(2 dicembre) In occasione dell’arrivo a Sassari del nuovo Governatore Cav. Don Antonio Grondona, maggior Generale della R. Armata, il Magistrato Civico delibera di andare in corpo a complimentarlo, con gli abiti consolari, e incarica il Consigliere Capo Avv. Francesco Pinna Flores per fargli l’arringa.

• 1819. Lettere anonime

In mezzo alle turpitudini d’ogni sorta che regnavano in quei tempi, non mancarono certo le lettere anonime. Eccovene una spedita il 14 settembre al Cav. Luigi Raiberti, Reggente la Real Cancelleria di Cagliari. Si avrà così un’idea dello spirito dei tempi.
« Eccellenza. Non potendo soffrire la notoria birbanteria del negoziante Antonio Vincenzo P…. Doganiere Civico, consistente in essersi resistito a rendere i giusti conti della sua amministrazione per lo spazio di anni cinque consecutivi, giusta quanto venne da V. E. ordinato, non posso dispensarmi di farle sapere che da questa Città gli venne prefisso il termine di un mese per presentarli; ed ecco un mese e mezzo trascorso senza che abbia presentato neppure quelli dell’anno 1815; e ciò perché si ha mangiato e dissipato tutti i danari; ed il poco che ha, sta negoziandoselo; ed i Signori Consiglieri, perché sono ben regalati e non perdono da casa loro, ci passano sopra e non curano il vantaggio della città e del pubblico. Eccellenza, trattasi di cinque anni senza dar conti; trattasi di migliaia che si ha mangiato e dissipato, e quindi si deve provvedere senza perdita di tempo».
                            « Un vero cittadino. »

• 1820. Funerali

Il 14 gennaio si celebrano nella Cattedrale le solenni esequie di S. M. Carlo Emanuele IV, morto nel dicembre del 1819. I Consiglieri prevengono i Canonici che il Municipio è disposto a dispensar loro una candela di libbra, ed ai Beneficiati una di mezza libbra; però avvertono, che le candele, unitamente all’altra cera che si disporrà intorno al catafalco, sull’altare, ecc. dovranno restituirsi finita la funzione. Prevengono pure, che per solennizzare maggiormente i funerali si desidera il concorso della musica stipendiata annualmente dal Capitolo; e ciò perché non succeda come per i funerali di Vittorio Amedeo III, per i quali il Capitolo esibì la musica col solo organo.

• Boschi

L’8 febbraio i Consiglieri mandano un lungo memoriale al Re, in cui si espone: che il negoziante genovese Antonio Filippi, fin dal dicembre del 1819 presentò il progetto di tagliare degli alberi nella Baronia della Nurra, per farne carbone, onde imbarcarlo liberamente all’estero. Il Municipio negò; ma il Governatore pare fosse disposto ad accordare quanto chiedeva il Filippi, con beneplacito del Viceré.
« I nostri boschi – è detto nella supplica – non sono inutili, come il signor Filippi dice. Dippiù egli vorrebbe farli tagliare da continentali, non da sardi. Se le selve offrissero oggetto di speculazione per l’Estero la Città vi farebbe i suoi calcoli, e inizierebbe un’industria nazionale. Laddove il Filippi non ha esibito compenso alcuno né aggio, e vuole arricchirsi colla rovina delle selve altrui.
Le Regie Prammatiche proibiscono il taglio delle selve, quindi il Municipio si rivolge al Re perché proibisca il taglio come niente proficuo ed assai pregiudizievole alla Città, non meno che contrario alle leggi più fondamentali del Regno, o almeno provveda perché la Città si mantenga come Baronessa della Nurra e Fluminargia nel godimento dei dritti annessi al feudo.
Da quei tempi cominciò purtroppo l’ingorda febbre del taglio dei nostri boschi, al quale si opponevano le leggi spagnuole!
« Nel 1819 – scrive l’Angius – si estrassero dal littorale di Pittinuri 7.500 grosse quercie tagliate l’anno precedente nelle selve di Scano infeudate al Duca di S. Giovanni, al quale si diedero due lire sarde per pianta. Il legname trasportato ne’ cantieri di Tosone fu per densità e docilità riputato preferibile a qualunque altro legname d’Europa. Il felice successo animò gli impresari Chiappa, Peloso e Balbo, i quali si associarono alla marina genovese e fecero nel 1822 nuovi contratti col R. Patrimonio per la selva di S. Leonardo – col Barone di Sorso per quella di Montiferro – e col Marchese della Planargia per quelle che aveva nel fondo di questo nome, patteggiando Lire italiane 9, per ogni pianta di S. Leonardo e Montiferro, e Lire 7 per quelle della Planargia. Si fecero più di 300 mila piedi cubi di legname, e questo si diresse parte a Livorno e parte a Genova. Si volle poi dalla stessa Società tentare un taglio più cospicuo nelle selve del Goceano per 12.000 piante, e nelle foreste di Sauccu per 6.000. Sauccu aveva allora 800 mila querce e 4.000 elci, maturi per il taglio.»
Ed oggi la Sardegna è calva, o quasi; e il Governo pensa al rimboschimento, per attirar le pioggie, e per discacciar la malaria!

• Guarnigione

Lo stato generale della forza effettiva componente i corpi di Guarnigione nel Capo di Sassari, alla rivista del 30 dicembre 1820, era il seguente: Forza effettiva n. 868; cioè Cacciatori della Regina n. 638 – Cacciatori Franchi n. 169 – Artiglieri n. 3 – Invalidi n. 58. Più lo Stato maggiore composto di n. 19.

• 1821. Assassinio

Il 2 gennaio, in domenica, tra le otto e le nove di sera, l’Avvocato e R. Professor Gavino Farina, mentre si ritirava in casa, fu ucciso con un colpo di pistola. La notte era oscura e piovosa, né si potè scuoprire l’assassino. Indignazione generale nella popolazione e nelle Autorità.

• Rivoluzione in Piemonte

L’anno 1821 fu memorabile per l’Italia. Il Piemonte era in fermento, e chiedeva riforme. La gioventù studiosa, i letterati, gli scienziati fremevano; tutti volevano emanciparsi dal giogo straniero. La Società de’ Carbonari, con sede a Napoli, lavorava. Il Governo pauroso, fece una carneficina di studenti. Venuto il Re da Moncalieri concesse perdono e grazia, ma tardi. Insurrezione su tutta la linea. Il Principe Carlo Alberto viene sul luogo a chiedere che si volesse. – Costituzione e guerra all’Austria! – gli si rispose.
Fattosi capo della rivoluzione, Carlo Alberto corre al re, nunzio degli avvenimenti; Vittorio Emanuele I, codino sino all’osso, anziché concedere libertà a’ popoli, preferì togliersi dal capo la corona; e la notte del 12 marzo abdicava, nominando Reggente il Regno Carlo Alberto, col patto che smettesse il comando a un cenno del vero successore, Carlo Felice. Il quale se ne stava in Modena nella corte dell’austriaco Duca, suo cognato.
Carlo Alberto credette bene proclamare la Costituzione, salvo il beneplacito di Carlo Felice; ma Carlo Felice da Modena disapprovò i deliri di quel principe. Egli minacciò i ribelli dell’intervento dell’Austria – e per fare ammenda de’ peccati, mandò Carlo Alberto nel suo castello di Racconigi, e lo fece sorvegliare.

• I fatti di Alghero

Mentre in Piemonte scoppiava la rivoluzione, i sassaresi erano atterriti dalle notizie che pervenivano dalla vicina Alghero. Nello stesso mese di marzo in cui Vittorio Emanuele I aveva abdicato, dando la Reggenza a Carlo Alberto, la città di Alghero era afflitta da seri guai. Il caro del pane, la scarsezza dei grani, e soprattutto il timore che i commercianti, avidi di guadagno, fossero tutti propensi a imbarcare il frumento, sconvolse la popolazione, la quale si recò dal Governatore Suni perché vietasse l’esportazione. Il Governatore rispose alla folla con tanta buona grazia, che un popolano indignato gli strappò la croce dal petto. Il popolo si alzò a tumulto, reagì con la forza armata, fermò per la via i carichi di grano, e si recò al porto per dar l’assalto a un legno che era sotto carico di grani – Il giorno seguente (che era il 26) i fratelli Caneglias, a capo di un’immensa folla, s’impadronirono delle due porte della città. Si corse alla casa del Picinelli e si domandarono con minacce le chiavi dei magazzini di grano, che vennero saccheggiati.
Incoraggiati da un primo successo, corsero allora alla casa del negoziante Gaetano Rossi, e si cominciò col prendere a sassate le finestre. Per sfortuna, una pietra colpì la testa un figlio del Rossi, il quale, inasprito dal dolere e dall’indignazione, afferrò un fucile carico a pallini e lo scaricò sulla folla, ferendo leggermente due popolani – Fu un colpo di grazia. Una turba furente si precipitò alle porte; le atterrarono, e penetrarono nell’interno della casa. Il Rossi colla famiglia fuggirono sopra un terrazzo, attraversando i tetti. Si fece fuoco sopra di essi; il Rossi si salvò, ma la figlia Anne Maria diè un alto grido, e cadde sanguinosa e moribonda. Fu raggiunta, la rialzarono semiviva, e, con una ferocia da tigri, la precipitarono nella strada, dove rimase sfracellata.
Il Rossi, che al grido della figlia era tornato indietro per implorare pietà per lei, ebbe il petto trapassato da una palla di piombo, e il cranio spaccato da un colpo di scure. La madre fu ferita; e gli altri due figli, che si ricercarono con avidità crudele, scamparono all’eccidio per vero miracolo.
Intanto nella via, una turba di feroci iene, senza pietà, insultavano il cadavere dell’innocente fanciulla – e si opposero vivamente perché qualche pietoso voleva ricoprire colle vesti insanguinate (che nella caduta si erano rialzate) la nudità di quell’infelice!
Il 27 le truppe, arrivate in fretta da Sassari, giunsero alle porte di Alghero – e dopo tre giorni di tempestosi disordini la quiete fu ristabilita in città.
Una Commissione mista istruì i processi. Ben 75 furono arrestati e tradotti nelle carceri di Sassari. Se ne condannarono 36 alla morte 18 alla galera in vita, col bacio della forca – una donna, con inaudita crudeltà e in modo brutale, fu fatta frustare per le vie per mano del boia – un’altra fu condannata a un solo anno di carcere, a cagione della sua gravidanza; vi furono anche molte condanne alla galera a tempo, e alla prigionia; i minorenni, per punizione, furono ascritti al Reggimento Sardo. Più tardi Carlo Felice fece grazia a molti col commutare la pena di morte in galera in vita. Dall’istruzione dei processi alla pubblicazione delle sentenze trascorsero circa sei mesi.

• Tortura

Con editto del 2 febbraio 1821 – tre mesi prima di rinunziare al trono – Vittorio Emanuele I abolì la tortura. A questa però ne fu sostituita un’altra, forse più barbara: quella del dado, armato di acute punte di ferro, che stringevano orribilmente i polsi. « Dacché la Sardegna ebbe la disgrazia di cadere sotto il governo aragonese e spagnuolo – scrive lo Spano – essa potè chiamarsi per antonomasia la terra delle torture; prova ne sia i tanti processi e condanne esistenti nel R. Archivio di Cagliari. Fra gli altri supplizi erano i cosìdetti contrappesi, i quali consistevano in due grandi sassi che venivano attaccati con corde ai piedi del paziente, sinché le giunture delle membra si slogassero. Quando però la Sardegna passò sotto il comando dei sovrani di Savoia, quest’aggiunta al martirio fu abolita – come aboliti furono gli abiti del tormento forse per risparmio – dice lo stesso Spano.
Il primo strumento di tortura punitiva, in Sassari, era fisso all’angolo della facciata del Palazzo Civico, dal quale sporgeva una spranga di ferro; il secondo ordigno, per strappare dalla bocca del paziente la verità, stava nelle Carceri di S. Leonardo, e propriamente nella così detta Sala del tormento. Le segrete, dove si cacciavano i delinquenti, vennero più tardi.
A proposito della tortura ho sott’occhio la lettera originale del Governatore di Sassari Cav. Balbiano, scritta al Municipio il 5 gennaio 1781. Eccone il contenuto:
« Esigendo il comun bene che si usino tutti gli espedienti valevoli a mantenere la pubblica sicurezza e tranquillità, sono entrato in determinazione di fare erigere in alto, a quell’angolo del Palazzo Civico che guarda nella pubblica Piazza e nella contrada per cui si va al Collegio delle Scuole Pie, una tagliuola di ferro ben sicura, affinchè all’occorrenza possa darsi con essa qualche pubblico esempio che serva di contegno. Si compiaceranno pertanto i signori Deputati di Città di prendere le opportune misure, onde si eseguisca tal opera al più presto possibile. « Sarebbe pur vantaggioso il far attaccare allo stesso angolo del Palazzo di Città una catena forte di ferro coll’anello da aprirsi (come sento che già vi fosse) per farne uso, ove si presenti l’occasione. Laonde anche a questo fine si compiaceranno di dare le opportune disposizioni. »
Come vedesi, questo provvedimento era stato dato dietro la sommossa popolare del 1780, da noi minutamente descritta a suo luogo.