Indice
Sassari Piemontese
• 1847. Un po’ di storia
I congressi scientifici, le letture popolari, la stampa, i giornali, intenti tutti a risvegliare gli spiriti nazionali, avevano preparato l’eccidio del governo assoluto. La marea saliva – saliva sempre, prima lenta e muta, poi scrosciante, fragorosa. Il 1° giugno moriva Gregorio XVI, il tenace repressore dei tentativi rivoluzionari, che aveva osteggiato apertamente ogni progresso civile; e il 16 dello stesso mese saliva al trono pontificio Mastai Ferretti, ribattezzandosi col nome di Pio IX.
I liberali tutti, che avevano veduto delusi i tentativi fatti dal 1821 in poi, e che si erano raccolti nel silenzio aspettando pazientemente tempi migliori, aprirono il cuore alla speranza; e coi voti e con l’opera affrettavano la redenzione italiana. L’opinione pubblica era allora rivolta ai regnanti, dai quali ognuno si era ridotto a sperare opportune riforme, giacché non aveva potuto ottenere assoluta indipendenza.
Il nuovo pontefice era in fama di caldo liberale, e propugnatore del bene della sua patria; e difatti aveva introdotto dei miglioramenti nelle Romagne, protestando con fermezza contro le violenze dell’Austria; tanto è vero, che questa, rompendo fede ai trattati, aveva raddoppiato le sue forze in Italia per far paura al Papa.
Gli scritti di tre uomini di mente e di cuore – Gioberti, Balbo ed Azeglio – avevano potentemente contribuito ad infiammare i petti degli italiani, desiosi di riforme e di libertà. Furono continue benedizioni a Pio IX – feste spontanee, entusiastiche, frenetiche: le uguali non si videro, né si vedranno mai!
Carlo Alberto, nell’aprile del 1846, aveva rintuzzato a viso aperto le pretese dell’Austria, vergando di proprio pugno la risposta, nella questione sorta per il transito dei sali – e nel settembre aveva protestato energicamente, dichiarandosi pronto a respingere qualunque invasione straniera ne’ suoi stati. Egli desiderava vivamente d’inaugurare un sistema di libertà per favorire la causa italiana; ma d’altra parte gli mancava il coraggio di spingersi avanti. La sua indole timida e troppo ascetica, e soprattutto le influenze che sopra lui esercitava la famiglia, ne lo distoglievano. Pio IX però aveva concesso riforme in Romagna – Leopoldo II aveva allargato la libertà dei popoli toscani – e i piemontesi spingevano continuamente Carlo Alberto perché facesse altrettanto, secondando le patriottiche aspirazioni.
Il re cedette alfine – e il 29 ottobre prometteva le riforme stesse largite in Toscana e nello Stato Pontificio.
Fu un grido unanime di gioia! I nomi di Carlo Alberto, di Pio IX e di Leopoldo II erano acclamati dalle popolazioni; l’entusiasmo e le dimostrazioni rasentarono il delirio.
Il 15 dicembre cominciò la pubblicazione del Risorgimento, giornale scritto da Cavour, Balbo, Castelli, Boncompagni e Santa Rosa; il Pomba pubblicò II Mondo illustrato, il primo periodico con incisioni italiano.
• Le prime notizie
Nei primi del mese di novembre giunse a Sassari la notizia delle Riforme concesse in Piemonte da Carlo Alberto. Indescrivibile fu la gioia che in un baleno penetrò nei petti di quanti ardevano d’amor patrio. La fausta novella corse da un capo all’altro della città. Da piazza Castello a Porta di S. Antonio, dal Largo di S. Catterina alla piazza della Carra era un continuo movimento; si formavano qua e là capannelli, e il contento sfavillava da tutti i volti; non si prestava quasi fede all’inatteso avvenimento.
Quantunque la città di Sassari in quei tempi non vantasse regolarità di vie, o ricchezza di edifizi, pure non vi mancavano gli agi ed i ragionari di persone colte e civili, che si raccoglievano numerose nelle Camere di lettura e di conversazione. Appena i fogli riportarono la lieta novella delle riforme concesse in Piemonte, fu tosto vergata una carta con la quale si chiedeva al rappresentante il Governo il permesso di una pubblica dimostrazione di gioia per quanto operavasi in Terraferma, e di desiderio perché quelle riforme si estendessero pure alla Sardegna. In una notte, e nella mattina seguente, la supplica fu coperta di oltre 300 firme delle persone più cospicue del paese, e venne presentata al Sindaco perché si rendesse mediatore presso il Governatore dei concordi voleri. Al primo annunzio dell’ottenuta permissione, le grida festose della moltitudine successero allo sventolare delle bandiere. Si corse per le vie di Sassari con un entusiasmo indescrivibile. A capo della moltitudine era sempre un vecchietto arzillo, pieno di entusiasmo, di carattere dolce, un vero galantuomo: il negoziante Filippo Ponzeveroni, chiamato in quel tempo il Capo-popolo, il Ciceruacchio di Sassari. Fu scritto di lui, che se alla bontà dell’animo e all’amore di patria che lo animava congiunto avesse mente capace a frenare gli spiriti bollenti, avrebbe eternato suo nome. Costui andava sempre innanzi con un’asta, sulla quale era infisso il quadro di Pio IX, quello di Carlo Alberto, e di Leopoldo II – tre quadri che il patriota commerciante teneva sempre esposti alle finestre della sua casa, sita’ nel Corso. Il Caffè dei fratelli Bossalino (nella piazzetta di S. Catterina) era diventato il ritrovo dei letterati, professori, avvocati, studenti, ecc. insomma, di tutta la parte più eletta della cittadinanza, la quale comunicava al popolo e spiegava le novità del giorno. Fu là che si formarono le principali riunioni durante il ’48 e il ’49; là che si dispensavano le notizie; là che si andava a prenderle, non appena il piroscafo postale recava le corrispondenze e i rari ma preziosi giornali del continente.
• Si chiedono riforme
I cittadini più colti volgevano intanto le loro cure a più sublimi interessi; e bramando far causa comune coi popoli continentali, pensavano di chiedere a Carlo Alberto le stesse riforme introdotte nei RR. Stati Continentali; per esse la Sardegna doveva sagrificare sull’altare della patria tutti i privilegi ottenuti dai Sovrani d’Aragona e di Castiglia, e mantenuti dai regnanti di Casa Savoia in forza del Trattato di Londra del 1720. Fra questi privilegi, come si sa, i più importanti erano due: la rappresentanza nazionale col nome di Stamenti, composta di tre bracci (nobili, ecclesiastici e popolo), ed il Superiore Consiglio di Sardegna residente a Torino, il quale riuniva le attribuzioni giudiziarie alle politiche, pronunciando sentenze in ultimo grado d’appello, e provvedendo col suo voto a qualunque materia riguardante l’Isola, tanto di amministrazione, quanto legislativa.
Per persuadere i diffidenti ed i paurosi furono scritti diversi opuscoli; fra cui uno dell’avv. Francesco Sulis, col quale dimostrò i maggiori vantaggi che l’Isola ricaverebbe cedendo i vecchi privilegi per le nuove riforme».
Affé di Dio! – conclude il Sulis – nell’entusiasmo generale occasionato dalle nuove istituzioni, nell’affratellarsi sollecito delle provincie, nei moti di reciproca carità scritti sulle bandiere azzurre dei Subalpini o sulle bianche a croce rossa della Liguria, nel confondersi dei colori di già emuli in vera indistruttibile amicizia, rimarrà adunque in oblio la Sardegna? Il vetusto suo vessillo dalle quattro teste coronate sarà ricusato nel gran consorzio? Eppure esso ricorda le pugne combattute dai sardi contro gli invasori d’Italia, quando la razza saracena minacciava sbarcare ad Ostia ed incendere il Vaticano!…. Se il Consiglio di Stato ed il Tribunale di Cassazione sonosi per Sardegna rinvenuti buoni trovati, lo saranno pure le altre Riforme tutte. Con esse la perdita dei privilegi sardi è compensata insino a procacciare guadagno: senza le medesime il riscatto non è compiuto. Ché se affatto in contraria sentenza si giudicasse, non rimane ai sardi altro officio che di supplicare il Re perché conceda la pronta riunione degli Stamenti per avvisare a quanto nell’eccezionale separazione dell’Isola dalle cose della Terraferma sia convenevole di statuire. In essi tuttora esiste la dignità politica del paese. Possano i medesimi recarla all’onore dei civili ordinamenti dei tempi nostri!»
Ciò il Sulis stampava a Torino nel 12 novembre del 1847; ma molti giorni prima una folla entusiasta aveva esternato il desiderio di unire i propri ai destini del Piemonte, della Liguria e della Savoia; e venne nominata una deputazione da recarsi in Torino, per rassegnare al Re la generosa rinunzia. Questa Commissione venne composta dei cittadini sassaresi Antonio Ledà Conte d’Ittiri, prof. Francesco Cossu, e cav. Michelino Delitala.
• Deputazione
La mattina del 16 novembre, seguita da molta folla e da diverse autorità, la Deputazione scendeva lungo il Corso, diretta per Portotorres, dove lo stesso giorno doveva imbarcarsi sul R. vapore che salpava per Genova. Arrivati a Campo di Carra tutti sostarono, e il popolo prese commiato dai tre cittadini sassaresi che, a nome della cittadinanza, dovevano chiedere a Carlo Alberto le riforme, rinunziando agli antichi privilegi. Ad un tratto prese la parola il P. Fulgenzio Delitala, e caldo di amor patrio esortò i tre Deputati a rappresentare al Re l’affetto dei sassaresi; più augurò una buona riuscita nella missione loro affidata. Fra le altre raccomandazioni, egli disse presso a poco così: «Siamo sicuri che a voi non accadrà come a qualcuno dei deputati spediti da Cagliari a Vittorio Amedeo III nel 1792, a proposito degli impieghi da distribuirsi ai sardi». E con ciò volle alludere al cav. Pitzolo ritornato a Cagliari il 20 maggio 1794, dopo aver accettata la carica d’Intendente Generale.
I tre deputati partirono fra le acclamazioni della folla, ma l’eco delle parole di Fulgenzio Delitala non si estinse nel mormorìo di quella calca chiassosa. O che le parole di lui, raccolte da qualche maligno, fossero state scritte a Cagliari come un’accusa; o che fosse stato avvertito da qualche amico dell’imprudenza commessa; o che egli stesso si fosse accorto della gravità del proprio discorso, fatto è che il 3 dicembre (diciotto giorni dopo!) il Delitala scrisse una lettera al Municipio di Sassari, dando ragioni del discorso fatto, e scusandosi. Il Municipio in data del 9 gli risponde «che veramente non era stata troppo gradita l’energia da lui spiegata nell’allocuzione diretta alla Civica Deputazione la mattina del 16 novembre; che si sarebbe bramato che il fervore del discorso si fosse intieramente aggirato sulla viva fiducia che il pubblico riponeva nelle degne persone dei Deputati eletti a così nobile ed alta missione, impegnandoveli coll’amor della gloria, colla gratitudine e riconoscenza che i medesimi erano in dritto di riscuotere dai cittadini per i sagrifizi che facevano per la comune patria, distaccandosi per Lei dal seno delle rispettive famiglie ed abbandonando i loro affari e interessi».
Lo stesso giorno il Municipio scriveva al Governatore sullo stesso oggetto, dicendogli ch’era soddisfatto delle discolpe del Delitala, il cui discorso attribuiva ad entusiasmo e infervoramento, scevro da qualunque falsa massima o men retto principio; e che ciò gli comunicava a scanso di false interpretazioni, e confermando i buoni seminanti degni di un ecclesiastico e di persona addetta al divino ministero».
La questione però non dovette così presto esaurirsi; e a molti disturbi andò incontro il Delitala, il quale più volte ebbe a confessare che doveva ai buoni uffici dell’Arcivescovo Varesini se non era stato condotto manettato nelle R. Carceri di Cagliari. In un discorso del Delitala, letto agli alunni del Liceo nel luglio del 1861, egli dice: che nei tristi tempi della Vice-regale tirannide, il famoso Conte Deluney, ultimo dei despoti, voleva fargli delitto capitale di aver osato, tra i primi, domandar parità di trattamento con i fratelli d’oltremare, e di aver pronunciato parole franche e severe ai membri della Deputazione sassarese, la quale partiva per implorare dal Re Carlo Alberto la fusione dell’Isola col Continente.
• Riforme concesse
Appena partiti i tre Deputati a Torino si fecero voti per la felice riuscita della missione, e una moltitudine commossa si portò alla Cattedrale per benedire i loro passi e per invocare l’aiuto del Cielo. Il giorno 5 dicembre si ricevette dal Conte d’Ittiri (che trovavasi a Genova) la copia manoscritta del R. Biglietto del 30 novembre, portante la fusione degli interessi dell’Isola con quelli del Continente e la quasi libera estrazione dell’olio e del vino. Pubblicatasi la copia della sovrana disposizione con apposito pregone – mentre ancora si distribuivano le lettere – grida frenetiche e lieti evviva echeggiarono dappertutto. Si formarono subito ghirlande di fiori e s’inquadrò con esse il manifesto ch’avevano affisso al muro. In un momento il Corso fu stipato di gente. Si fecero pubbliche esultanze, si andò in giro per le vie della città con bandiere e coccarde, e fu una continua festa ed un entusiasmo mai visto.
Il domani il Municipio fu invitato dall’Arcivescovo Varesini per il solenne Tedeum, in rendimento di grazie per le ottenute riforme. I festini, le grida, le passeggiate con bandiere e coccarde, continuarono sempre; ed il Municipio ringraziava sempre il Governatore per la sua accondiscendenza alle pubbliche dimostrazioni di giubilo esternate in città, e per la parte da lui presa nei benefizi accordati da S. M. e per quelli maggiori che si promettevano. Lo assicurava in data del 17, del pregio che si farebbe la Deputazione per il progettato stabilimento degli Orfani e Trovatelli, il cui regolamento, che si andava redigendo, doveva sottoporsi all’approvazione del Governo.
E la Sardegna, da un capo all’altro, era in festa per il fausto avvenimento. A Cagliari, secondo quanto scrive il Siotto vi fu molto entusiasmo: la notte del 18 novembre cominciarono i moti; la mattina del 24 partiva per Torino la Deputazione per invocare le riforme, ed era così composta: – l’Arcivescovo Marongiu Nurra, il Decano De- Roma, e l’abate Felice D’Arcais per lo stamento ecclesiastico; il marchese di Laconi, il marchese D’Arcais e il Barone di Teulada, per lo Stamento militare; gli avvocati Marini e Cossu e il Conte Ciarella (a cui più tardi si aggiunse l’avvocato Mameli) per lo Stamento reale.
• Timori nella gioia
Il 15 dicembre il Municipio scrive al Conte d’Ittiri in Torino, ringraziandolo dello zelo spiegato, insieme agli altri Condeputati, nella missione loro affidata. Gli fa anche sapere che « la Deputazione di Cagliari, reduce da Torino, vi giunse molto contenta e divulgò d’aver ottenuto dalla sovrana munificenza quanto chiese e bramava – cosa che si sentì da tutti con vera contentezza e piena gioia – semprechè quell’immensa mole di edifizio non siasi eretta sulle nostre rovine, o restingendo l’autorità del nostro Tribunale, o minando l’occhio destro che ancora ci è rimasto della nostra Università, la quale ogni vento sembra voglia togliercela, e di ridurci senza di essa a meschinità d’ingegni, d’interessi e di risorse, ed a miserabile villaggio. Sono questi i due punti principali che i Deputati dovete toccare, più la sicurezza pubblica, la piantagione dei tabacchi, l’assestamento delle contabilità civiche, ecc.».
• 1848. Banchetto nazionale
La sera del 5 Gennaio, alle ore 2, la locanda del Leon d’oro echeggiava di entusiastici evviva. La gioventù sassarese accoglieva a nazionale banchetto i fratelli liguri, piemontesi e savoiardi. La sala era stata pomposamente addobbata per cura dei cittadini Dedola, Pischedda ed Emanuele Manca. Nel centro delle quattro pareti, fregiati di bandiere, fiori e ghirlande, erano i ritratti di Carlo Alberto, Pio IX, Leopoldo II e Vincenzo Gioberti, sotto ai quali le quattro seguenti iscrizioni dettate dallo studente in leggi Paolo Martinelli.
– A Carlo Alberto I – Sassari – E con lei i generosi – Che la proclamano libera, civile, italiana.
– A Pio IX – Pontefice O. M. – Che ai sovrani della terra – offerse in oggetto di culto – L’umanità – Perenne gloria.
– A Leopoldo II – Principe italiano riformatore – Con i popoli dell’Arno i figli di Torres.
– A Vincenzo Gioberti – che con la parola grande – elegantissima – promosse l’incivilimento italiano – La patria d’Azuni.
Ai quattro angoli della sala pendevano dall’alto le bandiere nazionali, miste alla pontificia ed alla toscana. Il ritratto del re era sorretto da apposito piedestallo e coronato da un soglio serico rappresentante i reali stemmi.
I brindisi, gli evviva i discorsi non cessavano mai; la commozione era generale; un fremito scorreva per le vene di quei giovani caldi di libertà. Un discorso preliminare pronunciava il Martinelli, seguito dal giovine poeta Francesco Michele Dettori, sempre affettuoso e caldo d’amor patrio, che declamò un sonetto, e improvvisò diversi versi, in risposta a parecchi oratori. Presero in seguito la parola il Barone Camossi, Govenatore di Sassari – Antonio Federici – il Pischedda – Filippo Ponzeveroni – l’avv. Luigi Piga – Alessandro Duce – Tiscornia – Penco – il prof. Rosso – Stanislao Escard che rappresentava la Savoia – Peduzzi rappresentante dei Cagliaritani – il cav. Martinez – Emanuele Manca – il cav. Sedilo – l’avv. Valle – Alberto Diana.
Verso la metà del pranzo, all’improvviso, si udì al di fuori la fanfara militare, che spontanea volle anch’essa solennizzare il banchetto nazionale. «Dolce ne fu la sorpresa – dice la relazione stampata – Quell’armonia era simbolo d’una armonia più grata: della nostra armonia morale. Ed oh, chi mi darà parole convenienti a descrivere il vivo e subitaneo movimento dei commensali all’udire musicato l’inno di Mameli? Al primo squillo, tutti, ad un tratto, rizzaronsi in piedi, e stese le destre lo cantarono a voce alta sentitamente; e giunti alle ultime strofe l’ardore cresceva col lirismo del poeta; non più canto, ma fremito generoso, terribile ruggito era il nostro!….».
Paolo Martinelli improvvisò allora due epigrafi; uno fu questo: «A Vincenzo Gioberti, Cesare Ballo, Massimo d’Azeglio – triade dell’italiano pensiero – rivelatori di vera civile sapienza – La religione e la filosofia, i princìpi ed i popoli – riconoscenti». Chiuse il desinare Rafaele Cossu con un breve e dotto discorso sull’utilità e necessità dell’unione. Ed a sanzione memoranda di così solenne atto fu deliberato unanimemente di rinnovarsi la festa ogni anno, nello stesso giorno. Suggellava il banchetto un’altra santa deliberazione: tutti i commensali offrirono un obolo all’asilo di S. Gaetano della Provvidenza, da poco promosso «perocché nel cuore e nella mente di tutti era profondamente scolpito, non esservi vera unione e fratellanza dove queste basi dei consorzi sociali siano disgiunte dalla carità».
• Tabacchi
Fin dal 31 dicembre del 1847 si era supplicato il ministro delle Finanze perché, in vista della miseria dell’anno, si permettesse la piantagione dei tabacchi con la tolleranza usata sino al 1845, sospese le prescrizioni contenute nel regolamento del Conte Botton per l’anno in corso – e ciò sino a che il benefico sistema conciliativo degli interessi comuni non s’introducesse. Il 31 Gennaio del 1848, non vedendo realizzate le speranze fatte concepire in proposito, si ripete la supplica allo stesso Ministro dal sindaco Conte d’Ittiri reduce da Torino, il quale accenna al malcontento che si manifesta dalla popolazione anche in pregiudizio dei “Deputati che sarebbero compromessi se non si provvedesse ecc. – Il 15 febbraio si ringrazia il Ministro dell’interesse addimostrato, ma si esterna il timore che le disposizioni date non apportino gli sperati vantaggi. Pare che i Deputati avessero troppo promesso alla popolazione, e difatti le dimostrazioni fatte al loro arrivo non risposero a quelle fatte per la loro partenza.