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La Città

Bagni

Dove oggi è il Monastero di Santa Elisabetta, erano i Bagni pub-blici; ed anche al presente vi scorre al dissotto l’acqua tiepida e salutare detta della rogna, che passa attraverso Ponti Pinnali e si scarica negli orti. Quattro distinti giorni per settimana erano assegnati per il bagno degli uomini, cioè il giovedì, venerdì, sabato e domenica; e tre giorni per settimana per il bagno delle donne, cioè il lunedì, martedì e mercoledì; e chi sbagliava i giorni del bagno, a seconda del sesso, era punito colle pene più crudeli contenute nel Codice, di cui parleremo altrove. – Abbandonati questi bagni dopo qualche tempo, furono ripresi nel 1500, e dopo 80 anni di esistenza, di nuovo posti in oblio.

Oggi il paese è troppo pulito, e non si lava più!

Chiese e Clero

In tutto il Codice non si fa menzione delle chiese che allora esistevano a Sassari; non vi è nominata che San Nicola all’art. 64, a proposito della campana che suonava a terza; e Santa Catterina all’art. 39 del Libro II, a proposito del Podestà che coi suoi auditori dava udienza in questa chiesa.

Nella Convenzione si fa cenno della festa di San Sisto, uno dei protettori della città di Genova, e il Tola in una nota dice: «che Sassari si associò all’alleata nelle sue tradizioni religiose, e oltre aver voluto che l’entrata del Podestà si facesse nella stessa festa dei Santi Simone e Giuda come a Genova, volle pure dedicare dentro le mura una delle sue parrocchie urbane a San Sisto, vescovo e martire». – Io non sono del parere del Tola, per la semplice ragione, che la chiesa di San Sisto esisteva collo stesso titolo molto prima del 1278, anno in cui Dorgodorio stabilì a Sassari le cinque parrocchie; – e in quel tempo Genova non pensava certo di allearsi coi Sassaresi!

La stessa Convenzione ci fa conoscere, che il Clero di Sassari godeva, per concessione dei Principi, di alcuni emolumenti nella estrazione di certi generi. Siccome i benefizi degli ecclesiastici erano quasi tutti di pingue rendita, perciò il Comune, nei patti con Genova, li volle riservati al suo Clero, esclusine i forestieri.

Di chierici è parola in parecchi articoli dello Statuto, ma soltanto per farci sapere che incorrevano nelle pene al par degli altri poveri mortali.

Le chiese che allora per certo esistevano erano le attuali cinque parrocchie, e qualche altra, come San Biagio, Santa Mariaecc.

A proposito delle parrocchie però, ci nasce un dubbio: – come mai si potevano dividere cinque parrocchie nei quattro distinti quartieri colle relative Porte, in cui Sassari era divisa? – A questa domanda non saprei rispondere; o qualche quartiere aveva il privilegio di due parrocchie, oppure San Donato era sempre un semplice Convento di Benedettini, e non funzionava ancora da parrocchia.

Sciolga il lettore la questione; il mio compito è uno solo: quello di assicurare che abbiamo documenti autentici comprovanti, e che Sassari era divisa in cinque distinte parrocchie nel 1278, e che Sassari era divisa in quattro distinti quartieri nel 1316. Potevano anche esistere due distinte divisioni: una politica, e l’altra religiosa – e questo è quanto ci rimane a credere!

Defunti

I morti, prima di essere seppelliti, si portavano scoperti e si esponevano nella chiesa di Santa Maria. L’art. 96 vietava a qualsiasi donna di andare dietro al morto, o di entrare in chiesa per vederlo; e dalla chiesa non si poteva uscire al munumento, (cioè, al luogo del seppellimento che era nelle adiacenze della stessa chiesa), contro multa di soldi 20 – di cui la metà al Comune, e la metà all’accusatore.

«Questa legge – nota il Tola – era diretta a mantenere nelle donne il decoro e la gentilezza del costume, e a impedire che la debolezza del sesso rimanesse offesa dalla vista di un cadavere».

Edilizia e uffizio d’arte

Dagli Statuti risulta che il nostro Comune si preoccupava molto dell’ordine e sistemazione dei fabbricati e delle vie.

L’art. 37 ci dice che nessuno poteva fabbricare di nuovo, o riedificare dalle fondamenta case o muri, i quali fossero in capo di via, senza la presenza del Priore o di due Anziani, i quali ordinavano si lasciasse larga la via, almeno 12 palmi. Dovevano essi parimenti badare che in via maggiore di 12 palmi nessuno si appropriasse terreno disponibile per fabbricarvi casa, orto, od altro edifizio.

Questo Priore e questi Anziani, se trascuravano il loro dovere, erano puniti con multa, il primo di lire 10, ed i secondi di lire 5.

I muratori, poi, non potevano fabbricare senza che due Anziani approvassero i relativi disegni. E chi voleva fabbricare di nuovo fuori delle mura di Sassari, dall’altra parte del fossato, doveva lasciare lo spazio di sei canne (60 palmi) misurate dal fossato in là. Però, se in qualunque tempo, per tema di nemici, vi fosse stato bisogno di disfare l’opera ivi eseguita, si doveva subito atterrare senza pretendere dal Comune alcuna indennizzazione. A meno che l’opera non si facesse per deliberazione del Consiglio Maggiore.

cantoni che si adoperavano per fabbricare erano di due qualità, i doppi e i manegevoli. I cavapietre (bocatores de cantones) dovevano fare i primi, lunghi due palmi e mezzo; e i secondi, che avessero un palmo e mezzo di lunghezza, e un palmo di larghezza.

Il Podestà e gli Anziani, entrando in funzioni ogni anno, dovevano chiamare un buon uomo, il quale durante l’anno era incaricato di visitare la città, investigare e riferire sull’edilizia; e se quest’ufficiale mancava al suo dovere era punito col non pagarglisi lo stipendio che era di lire 6. – E si aggiunga che era pure incaricato della sorveglianza delle Concie!

Secondo l’art. 38, in via di 15 palmi non era permesso di far sedili, né altro che impedisse il passaggio. Lo stesso articolo proibiva di fare porticali dinanzi alle case poste in capo di via, se fra l’uno e l’altro porticale di fronte non vi era lo spazio di palmi 12; come pure non si permetteva di fare alle case il solaiu (specie di palco in legno sporgente in fuori); e di mettere sedie (catreia) o panchi in istrada, se la via non aveva la prescritta larghezza.

Questi solai o palchi non potevano sporgere in fuori più di 4 palmi, e dovevano essere all’altezza di 14 palmi dalla via. L’altezza di 14 palmi era pure il limite minimo prescritto per l’altezza del tetto o grunda di ciascuna casa posta a capo di via.

L’art. 39 ordinava che si accomodassero le vie quando ve n’era bisogno, e ciò si facesse a spese dei proprietari delle case che si trovavano in quella contrada.

A quanto si rileva dagli articoli 37 e 38, che trattano minutamente dell’edilizia, pare che queste disposizioni si fossero prese per la prima volta in quell’anno (1316), perché è detto: «e queste cose si osservino tanto nelle case già fatte, come in quelle che si faranno d’ora in avanti». Ciò vuol dire che tutti i solai ed i porticali che esistevano, non rispondenti alle volute dimensioni, dovettero disfarsi.

Il Tola, a proposito di questi due articoli, fa una nota. «Da ciò si rileva – egli dice – che il Comune di Sassari bandiva nel principio del secolo XIV quelle leggi di Polizia pubblica, le quali sono credute solo parto della moderna civiltà». Ed ha ragione.

In quanto a me osservo solo, che con tant’arte, con tant’ordine, e con tanta severità, i nostri antichi ci hanno lasciato le vie così tortuose ed anguste, che fanno proprio pietà a vederle! Ai tempi della Repubblica la squadra doveva essere uno strumento ben diverso da quello usato dagli odierni ingegneri!

Fontana di Rosello

Questa fontana esisteva fin da quei tempi, e nel Codice è sempre chiamata col nome di Fonte de Gurusele, e forse Gurusello, come risulterebbe dal Codice Latino. Pare però che in quel tempo fosse una semplice fontana modestamente architettata; di marmi e statue fu adorna posteriormente sotto gli Spagnuoli. – Il nostro Comune fin da quel tempo si occupava molto di essa; e troviamo infatti che l’art. 39 degli Statuti prescriveva di accomodare sempre la strada a scale di pietra che conduceva alla fonte de Gurusele.

Frati e Monasteri

E neppure di frati e monasteri esistenti in quel tempo, nulla si ricava dai Codici. La cacciata dei Pisani da Sassari nel 1294 non fece alcuna eccezione. Le povere Monache di Pisa dovettero abbandonare il loro convento e ripartire pel Continente.

I soli frati nominati negli Statuti sono i Religiosi francescani, ossia frati di Santa Maria di Betlem, i quali godevano della piena fiducia e confidenza dei nostri antichi padri repubblicani. Il loro Guardiano o Priore era il depositario delle Borse, ossia Bussolotti delle schede per le elezioni. Di più, a mani dello stesso Guardiano si faceva fin dai tempi antichi l’esazione di molti dritti spettanti al comune.

Illuminazione

Ai tempi della Repubblica, e così molto prima e molto dopo, Sassari non sapeva che cosa fossero fanali – come non lo sapevano tutte le altre città del mondo. I fanali a Sassari non comparvero che nell’anno 1828.

Un articolo del Codice prescrive, che dopo il terzo squillo della campana, che si suonava a sera in Corte del Comune, nessun cittadino poteva aggirarsi per la terra di Sassari senza lume e senza fuoco. Dopo il Vespro, dunque, i nostri padri si aggiravano per le vie di Sassari col tizzone acceso fra le mani; precisamente come si pratica oggi in quasi tutti i nostri villaggi. Ciò che vi ha di curioso è, che gli Statuti dicevano: ciò si intenda degli uomini e non delle donne. Alle sole donne era dunque permesso di girovagare all’oscuro! – Capisco che ciò doveva essere scritto a benefizio del pudore, volendo che le donne non fossero illuminate per non essere assalite; questo però non toglie che la legge fosse molto larga. Fra tanta servitù, essa accordava alle donne un privilegio comodissimo in molti casi!

Le mura

Fin dai tempi dei Pisani le mura e le torri che circondavano la città erano oggetto di cure speciali; e infatti i borghesi pagavano una data, ossia tassa annua, che serviva per l’inalzamento e solidità delle mura; i forestieri poi, chiamati in quel tempo entraticci, pagavano una gabella, ovvero pedaggio, per il passo delle mura della città. L’articolo 18 del Codice imponeva ad ogni Podestà di far fare con pietra e calce mista di sabbia un grado di muro che fosse alto 26 palmi, oltre l’antipetto, il quale doveva misurare 4 palmi. I merli dovevano avere 4 palmi di altezza e 240 di lunghezza. La pietra doveva scavarsi all’intorno, in modo da formarsi di porta in porta il fossato. Dallo stesso Codice risulta, che molte multe inflitte ai contravventori erano destinate esclusivamente per le mura. La tassa annua che esigeva il comune per quest’oggetto era di lire 700; cioè lire 500 dai Sassaresi, e lire 200 dagli uomini di Romagna. – Come si è veduto, le mura in quel tempo dovevano essere basse, ed era vietato a chicchessia di scalarle. Non si poteva entrare in città che dalle sole Porte.

Nettezza delle vie

La Repubblica teneva molto alla pulizia delle vie della città. L’art. 133 ordinava si chiamasse ogni anno un buon uomo per ogni quartiere, perché sorvegliasse le vie dentro e fuori città. Questi quattro buoni uomini dovevano riunirsi in seduta quando lo credevano necessario; ed era loro obbligo sorvegliare perché si spazzassero le vie e si tenessero nette a spese dei proprietari di ogni casa; e così pure essi dovevano far accomodare le viottole delle vigne, sempre a spese dei proprietari, per quello spazio occupato dalla loro possessione.

Ed oggi, malgrado le lire 30.000 che spende il nostro Municipio, la pulizia è un pio desiderio per la nostra città!

Palazzo del Comune

L’antico Palazzo del Comune, fin da tempi remotissimi, è sempre esistito nell’attuale Casa Comunale, nel centro della Via Maestra. Esso aveva una Loggia che si reggeva sopra due pilastri e quattro colonne, di cui una (quella dell’angolo) era grossa, di pietra dura, ed a spire.

Tanto l’edifizio principale, quanto la Loggia, erano d’architettura pisana, come i porticali che adornavano i due lati della Via Maggiore. Molti credono, fra cui il Tola, che l’antica Loggia fosse appunto quel vestibolo ad archi murati che sussistette fino al 1827, anno in cui fu demolito e rifabbricato nello stesso sito il Palazzo di Città; l’Angius però osserva, che quella Loggia non avrebbe potuto capire la gran folla di popolo che accorreva colà per i negozi che si deliberavano in pubblico. Per Loggia – dice lui – doveva intendersi una gran tettoia che era sulla Piazza che si apriva presso la Casa Comunale.

La primitiva destinazione della Loggia era per trattarvi e spedirvi gli affari del Comune. Diffatti, eravi su Fondaghe dessa Prospera, gran sala terrena, cui si aveva accesso dalla Loggia o Borsa sottostante, dove si riuniva il Consiglio Maggiore, e che più tardi servì di Sala d’Udienza del Veghiere reale. Il Tola dice, che vide, quand’era fanciullo, questa Sala, con panche e sedili a modo di prospere da Coro, ed un seggiolone distinto in fondo per l’Assessore del Veghiere reale; ed è di parere che dalla panca o seggiolone del Podestà sia derivato il nome di Fundaghe dessa Prospera.

Sotto questa Loggia, per fermo, doveva stare molta gente, ed anche qualche bestia. L’art. 78 ordinava, che il bestiame smarrito il quale si trovava nella campagna, si portasse subito alla Loggia e si lasciasse colà, legato alla colonna, o pilastro. Anche più tardi si legava alla colonna a spire il bestiame mostrengo e quello da vendersi dalla Curia.

Era parimenti sotto alla Loggia la famosa Cassetta di cui facemmo cenno all’articolo Sindaci. Era lecito a chiunque d’introdurre nella fessura di essa le polizze che avvisavano il Consiglio dell’abbandono delle terre del Comune o dell’occupazione fattane indebitamente da qualcuno – oppure di dritti ed entrate del Comune sfrosati dai malevoli. Ai Sindaci spettava l’ispezione di questa Cassetta, che veniva, a buon conto, nudrita dalle spie che volevano mantenere l’incognito.

Palazzo del Podestà

A fianco della chiesa e antica parrocchia di Santa Catterina, che era nell’area dell’attuale Piazzetta Azuni – e propriamente nello stesso sito dell’ora Palazzo dell’Intendenza di Finanze e Regie Poste – era il vecchio Palazzo Governativo, ristaurato più volte e demolito verso il 1860. Questo fabbricato era la residenza degli antichi Podestà pisani e genovesi della Repubblica, come prima dei Podestà era appartenuto ai Doria, e dopo i Podestà ai Governatori aragonesi, spagnuoli e piemontesi.

Essendo questo edifizio attiguo alla parrocchia di Santa Catterina, il Podestà, assistito dai suoi auditori, dava le pubbliche udienze nel Piazzale della chiesa, a cui si saliva per una gradinata prospiciente alla Maggioria. Questi auditori anziani del Comune, e consiglieri ordinari del Podestà erano nel 1430 Serafino di Montegnano, Gonnario Gambella, Antonio Marongiu, Cavalleri Capitano, Notaio Leonardo Sanna, Nicolò Decarvia, Giovanni Oggiano e Francesco Melone.

Dal Palazzo Governativo alla chiesa vi era un passaggio interno; tanto è vero che i Podestà ed i Governatori ascoltavano più tardi la messa dall’apposita tribuna da loro occupata.

Porte della città murata

Le Porte al tempo della Repubblica erano quattro, una per ogni quartiere, cioè:

Porta de Santu Flasiu (San Biagio). – Pare fosse in fondo al Corso, di fronte alla chiesetta di questo nome che esiste ancor oggi vicino alla Stazione della ferrovia – poco distante dalla Porta di Sant’Antonio, ora demolita; seppure non era nello stesso sito.

Porta di Capu de Villa. – Esisteva nella parte superiore della città, dov’era la Porta Castello, o verso il Rosario, o in direzione del Corso. Il Tola credette per un momento che potesse far capo all’attuale contrada Pozzu di Villa, anzi che fosse la stessa Porta oggi denominata Porta d’Uzzeri; ma prese abbaglio cercando l’etimologia della Cona, come diremo a suo luogo.

Porta Gurusele. – Era nello stesso sito della Porta Rosello, o Macello. Il Bettinali crede dovesse appellarsi Gurusello, come si ricava dalla copia del Codice latino.

Porta d’Utheri (l’attuale Porta d’Uzzeri). – Il Lamarmora e lo Spano credono che prendesse questo nome dalle ulceri dei leprosi, perché anticamente tra la chiesa di Sant’Elisabetta e quella di Santa Maria di Betlem si trovavano la chiesa di San Lazzaro e l’Ospedale dei leprosi, come dice pure il Fara. Secondo altri però, l’Ospedale dei leprosi era verso San Pietro, in su Rennu. Il Bettinali crede invece, e con buon fondamento, che si chiamasse Porta Utheri perché da questa si andava ad una villa o regione denominata Usari; e infatti, nell’articolo 106 degli Statuti, San Pietro è chiamato Sanctu Petru de Silchi de Usari. Da Usari poi far Uzari, UzzeriUlceri, è cosa di un momento. In quanto a me, non so nulla; ho un’avversione per le etimologie, e mi possono far credere tanto nelle ulceri dei leprosi, quanto in un reggimento di Usseri che sia entrato od uscito per quella porta!

Le Porte erano chiuse da imposte di legno, ed avevano due serrature e due chiavi; una di queste veniva custodita dal Podestà, e l’altra da persona buona di Sassari. Non si potevano aprire che il mattino all’ora stabilita. Il Guardiano era incaricato di osservare dalla graticola ferrata chiamata Gusorgiu; e per questo servizio percepiva 10 soldi al mese!

portorargios (portieri) venivano eletti – entravano ed uscivano di servizio insieme agli Anziani. Stavano in carica soli due mesi, e non potevano es-sere rieletti che dopo sei mesi.

Ruga, o Platha de Cotinas

Era così chiamata la nostra Via principale, attuale Corso Vittorio Emanuele, che pure ha conservato fino ad oggi l’antichissima denominazione di Piazza, come volgarmente è chiamata dai Sassaresi, con meraviglia dei viaggiatori stranieri che si sono di noi occupati, fra cui Valery e Lamarmora. Al tempo della Repubblica era apellata Platha, ed anche Ruga de Cotinas, perché era spianata sulla viva roccia (in sardo, cotina o cuddina). Più tardi ebbe pure la denominazione La Maggioria.

Questa Platha si estendeva dalla Porta de Capu de Villa (Porta Castello) fino alla Porta de Sanctu Flasiu (Porta Sant’Antonio) e i nostri antichi ci tenevano molto.

Un lungo tratto, specialmente, di questa Piazza, si voleva dai cittadini nobilitare, tenendolo sgombro e pulito, e destinandolo alla passeggiata, e come un punto centrale di riunione della parte colta e civile della popolazione. Questo tratto di strada nobile pare fosse dall’imbocco della Via delle Monache Cappuccine, fino allo sbocco della Via al Carmelo, o poco più sopra, alla metà dell’attuale Largo Cavour.

L’articolo 60, per esempio, dice: che tutte le cose bisognevoli al corpo umano, fra cui erbaggi e pane, si potevano vendere dappertutto per la città, tranne però in quel tratto della Ruga de Cotinas che trovasi fra la casa del fu donno Albònito de Massa, che è nel Cantone, e l’altro Cantone della casa del fu Gualtiero di Volterra, che trovasi a levante. E per la sorveglianza erano incaricati i due bottegai che stavano vicino alle dette due case, i quali dovevano giurare sul Vangelo di eseguire fedelmente il loro dovere di accusare i contravventori. A quanto pare la casa di Gualtiero di Volterra doveva essere verso il Largo Azuni, o all’imbocco della Piazzetta Azuni venendo da Piazza Castello; e la casa di Albònito de Massa, allo sbocco della Via alle Cappuccine, il cui sito ha conservato fino ad oggi il nome di Lu Cantoni (il Cantone).

E che questa Via fosse la più frequentata ce lo dimostra pure lo stesso articolo 60. – Pare che i venditori dei cuoi che venivano da fuori di Sassari, non fossero troppo di buona fede, e che qualche volta avessero ingannato i poveri compratori nei quartieri più remoti della città. Il Codice perciò ordinava, che i cuoi non si potessero comprare o vendere in altro luogo, tranne nella Ruga de Cotinas, cioè dalla Porta di Capu de Villa alla Porta de Sanctu Flasiu – e ciò perché si potessero vendere palesimente daue nanti de plus testimognos (palesemente alla presenza di più testimoni).

L’articolo 73 poi, proibisce assolutamente, contro multa di lire 10, di fabbricare alcun forno nelle botteghe de Cotinas, cioè da Porta Sanctu Flasiu a Porta Capu de Villa – e ciò non per altro, che per la decenza della stessa Via.

A titolo di curiosità, possiamo qui fare osservare, che quel tratto della Piazza che ai tempi della Repubblica si voleva tener mondo dalle botteghe di erbaggi, pane ed altri commestibili, si mantenne sempre tale fino ai nostri giorni. Mentre in ogni tempo abbiamo avuto erbivendole ed altre botteguccie di commestibili nel principio del Corso, cioè verso Piazza Castello, ed anche all’estremità opposta, cioè verso Campu di Carra – il centro della Via Maestra, le propriamente dalla Piazzetta Santa Catterina (oggi Azuni) fino alla chiesa di Sant’Andrea – fu sempre rispettato, né sorse mai colà nessun bottegaio.

A quanto pare, la nostra Piazza era divisa in tre diverse categorie. La prima prendeva tutta la sua lunghezza, e allora si dice nel Codice, da Porta de Capu de Villa fino a Porta de Sanctu Flasiu; la seconda era la parte in generale più frequentata, e allora si diceva – dal cantone della casa del fu Albònito Di Massa, al cantone della casa di Gualtiero di Volterra; la terza era un’altra parte che io non saprei veramente precisare, e la trovo all’articolo 126, dov’è detto: « – nessuno può comprare la lana o il formaggio che si porterà a vendere da fuori, se non nella Platha de Cotinas fra questi confini, cioè: dalla casa di Guglielmuccio de Vare, fino alla casa di Arrighetto Del Mare -» signori rispettabilissimi, che noi non abbiamo il bene di conoscere.

Ma, qual’era il motivo che spingeva a far vendere questi due generi in quel tratto di via così popolato? – Niente altro che la frode che si usava di frequente, di vendere cioè la lana umida e di mischiare la terra al formaggio. come ci dice l’articolo 59 che punisce l’adulteratore del formaggio e della lana. -Ed è principalmente in questa terza parte della Via Maestra, che Tola crede si parli di Piazza Castello.

Anche parlando di macellare la carne porcina, l’art. 69 vieta di gettare il sangue od altra bruttura nelle pubbliche vie, e specialmente in Cotinas, che qui il Tola crede erroneamente abbreviatura di cantinas o cortinas.

Il nostro Corso principale al tempo della Repubblica si chiamava dunque la Platha de Cotinas, come più volte si trova menzionata nel Codice; bastava però, per designarla, anche la semplice parola Platha, come vediamo nell’intestazione dell’articolo 60; oppure la semplice parola Cotinas, come vediamo all’articolo suddetto e all’art. 73, in cui parlando delle botteghe del Corso si dice: sas botegas de Cotinas.

Dirò ora, che il Tola confuse questa strada per un abbaglio preso nel trascrivere il Codice originale; e se io correggo alcuni errori ben poco onore me ne può venire; inquantoché tutto il merito è della Copia autentica degli Statuti, dal Tola invano cercata nel 1840, e da me rinvenuta negli Archivi del Comune nel 1879.

Tanto all’art. 60, quanto all’art. 73, il Tola si ostina a leggere Connas, invece di Cotinas, com’è scritto; e notate che questo valente scrittore, negli altri articoli, ha sempre letto bene questa parola, che pur è sempre scritta allo stesso modo. Da questo errore egli fa nascere molte confusioni nella mente del lettore, e finisce per imbrogliarsi anche lui. Volendo dar ragione di questa ruga de Connas, designata fra Porta Capu de Villa e Porta San Flasiu, il Tola dice, che l’origine non era onesta, e che i nostri maggiori lo riconobbero, perché le tolsero un’n e la ridussero a Conas, l’attuale La Cona, un tempo abitata dalle donne di mal affare. Restava a dar ragione della Porta de Capu de Villa, e qui il Tola cade da errore in errore. In una nota apposta all’art. 60 dice, che la Porta de Capu de Villa faceva capo alla contrada ancora oggi appellata Pozzu de Villa, e che era la stessa che Porta d’Uzzeri. Ma, santo Dio! che aveva da fare La Cona con Pozzu de Villa? – Egli però viene all’art. 73, dove le due Porte sono distintamente nominate; e allora appone un’altra nota in cui dice, che li pare che la Porta Capu de Villa esistesse nella parte superiore della città. Ma come mai La Cona doveva aver rapporto con tutte le Porte di Sassari? – Gli errori, purtroppo, sono come le ciliegie: l’uno tira l’altro! Eppure, lo stesso Fara aveva scritto addirittura verso il 1570, che la Porta Castello era chiamata anticamente Porta Capu de Villa. E Fara non aveva letto gli Statuti!

Ad ogni modo, io sono lietissimo di aver dato questa bella notizia ai miei concittadini, non tanto per aver rimesso un po’ d’ordine nella topografia della città, né per aver illustrato la nostra Piazza, quanto per aver rilevato i nostri antichi padri da quella sconcia parola che stava tanto male nei nostri Statuti. Mi pareva ben strano che quella parola venisse adottata o scritta dai nostri vecchi repubblicani, i quali, in fatto di pudore erano così tenaci da stabilire nel loro Codice pene severissime contro chi offendeva il buon costume – ciò che vedremo a suo luogo.

E questo è quanto mi fu dato rilevare sulla nostra Piazza. Ché se qualche studioso mi dimostrasse che in qualche punto ho avuto torto, io glie ne sarò grato. Per una, o due piazze in più, non val la pena di crearsi dei nemici!

Stemma di Sassari

Lo stemma di Sassari era, nei tempi antichi, la torre merlata in campo rosso e la croce bianca in campo azzurro. Gli Statuti di Sassari furono pubblicati nel 1316 sotto la Podesteria di Cavallino de Honestis; ed il Comune, per riguardo a questo Podestà, aggiunse al suo scudo due cavalli, simbolo o impresa di famiglia del nobilis viri Domini Cavallini De Honestis legum doctoris potestatis Sassari.

Vuol dire dunque, che l’attuale stemma di Sassari è originato dalla sua antica Repubblica!

Topografia della città

La pianta di Sassari sul finire del secolo XIII era quasi identica a quella del 1835. La città era circondata da mura, e le torri non erano forse meno di una trentina. Anche oggi si possono vedere le vestigie di queste torri e muraglie, di cui restano parecchie in piedi verso il settentrione, cioè fra Porta Rosello e Porta Sant’Antonio. Ben s’intende che in quel tempo non esisteva ancora il famoso Castello demolito parecchi anni or sono per erigere l’attuale Caserma; esso fu edificato dagli Aragonesi quarant’anni dopo, come diremo a suo luogo.

Vestiario

Come vestivano i Sassaresi nei secoli XIII e XIV? – A quanto pare, il costume pisano era il predominante, massime per le classi civili. Si usavano i manti, le lunghe tuniche e i giupponi di velluto coi rispettivi cappucci.

Le stoffe allora usate, (come si rilevano dai Codici del Porto di Cagliari, scritti in lingua pisana nel 1316) erano le seguenti: – lana sardesca – seta torta – larbagio – tacolino – porpore – panni scarlatti – panni di Parigi -panni stranfortipisaneschi e franceschi, di colore – panni barachanjpontremolesi ecc., ecc.

Dai Codici della Repubblica si ricava, che a quel tempo in Sassari fioriva l’arte della lana, e vi esistevano molte fabbriche di panno sardiscu e lombardiscu; si tesseva tela finissima, frustagno rigato, o peloso, e furesi (orbace). Di quest’ultimo si faceva molto consumo, e ciò può significare, che fin da quei tempi i nostri contadini e gli abitanti di Romagna, Nurra e Fluminargia vestivano un costume speciale, poco differente da quello oggi usato; ed io non so comprendere perché il pittore Sciuti, nel famoso quadro in affresco dipinto nella gran sala del Palazzo Provinciale, tra la folla del popolo che assiste alla lettura della Convenzione con Genova, non abbia introdotto alcun contadino coll’abito di furesi!

Di berretto non si parla mai nei Codici; trovo solo nominato brachile (bracche).

Come abbiamo veduto nei diversi mestieri, i sarti eseguivano allora gonnelle da uomo foderatepalandre (gabbani) e mantelli alla castellana. Le donne usavano gonnelle increspate, gonnelle alla francese e cafias (cuffie).

Il bel sesso usava pure molti fregi e guarnizioni d’oro o di perle, bottoni d’oro e d’argento, e miglaresos (specie di lavoro parimenti in argento, allora in uso) il cui prezzo variava secondo il grado della persona che li ordinava; ciò che significa che ve n’erano di diverse qualità.