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Il cholera del 1855

1855. L’anno orribile per Sassari

All’attività quasi febbrile spiegata nel 1854 per le misure preventive da adottarsi contro il cholera apparso alla Maddalena e a Cagliari, sottentrò nel 1855 l’apatia e l’inerzia. Il cholera era a Livorno e in diversi altri punti del continente, ma Sassari dormiva tranquilla, quasi fidente che il morbo non avrebbe potuto allignare nell’isola.

Nel mese di Luglio però, la terribile malattia scoppiò in Portotorres poi a Torralba e Florinas, e finalmente a Sassari. L’infelice città per pestilenze famosa (come la chiamò il Siotto Pintor nella sua Storia Civile) doveva registrare l’anno 1855, accanto al 1348, al 1404, al 1528, al 1582, e al 1652 – anni tutti, come abbiamo veduto, in cui Sassari fu decimata dalle pesti.

Il primo centro d’infezione fu un’aia, a poca distanza da Portotorres. Traccierò brevemente la storia dell’andamento del morbo, quale fu accertato dopo scrupolose indagini.

A Portotorres, Torralba, Florinas

Da Livorno, (dove s’era sviluppato il cholera) salparono verso l’isola tre legni – due tartane ed un boo – che gettarono l’àncora nel porto di Torres l’8, il 15 e il 27 del mese di Giugno. Fra le diverse mercanzie, quelle barche avevano a bordo alcune pezze di tela-cotone, cappotti di lana, e dicesi anche coperte che erano servite nei Lazzaretti; una parte di queste merci furono acquistate da diversi individui, fra cui certi Nicolò Tedde e Marietta Doro, agricoltori, che lavoravano in un’aia vicina, in compagnia di certa Mariangela Mura, Peppi Pischedda, Antonio Schintu, Salvatore Puzzone e Antonio Ignazio Solinas: – gli uni di Portotorres, gli altri accorsi da Torralba, da Florinas, da Sassari; com’è costume, nel tempo della mietitura, di molti contadini che cercano lavoro.

Il Solinas si ammalò nell’aia sull’imbrunire del 6 di Luglio; fu condotto l’indomani a Portotorres, dove morì alle 3 di sera. La mattina dell’8 si ammalò, parimenti nell’aia, Salvatore Puzzone, che morì la sera dello stesso giorno a Portotorres, dov’era stato trasportato. Questi due casi furono il principio dell’epidemia che si sviluppò più tardi a Portotorres mietendo 122 vite.

Il Tedde Nicolò, impressionato di queste perniciose fulminanti, lasciò l’aia e si restituì a Torralba sua patria, dove morì il giorno 9. E fu questo il primo caso del cholera di Torralba.

Mariangela Mura, il 9 Luglio, ritornò parimenti al suo paese di Florinas, e vi morì il giorno 18, segnando il primo caso dell’epidemia che seminò il lutto in Florinas.

Ed ora veniamo a Sassari, dove vedremo continuata l’epidemia da un fuggiasco della stessa aia.

Primi casi a Sassari

La città era tranquilla. Alle notizie pervenute, di diversi agricoltori che arrivati a Portotorres morivano in poche ore d’ignota malattia, non si diede molta importanza. Si parlò delle solite febbri perniciose, della solita intemperanza, e nulla più. I medici erano un po’ preoccupati, ma le autorità non si movevano. I casi certificati in Torralba ed in Florinas fecero maggior impressione; ma ancor essi trovarono la loro ragione nelle acque putrefatte dei fiumi, nei quali erano annegate non so quante migliaia di cavallette. – Il Municipio, il 16 Luglio, fa una mezza dozzina di lettere a diversi stabilimenti, tutte per raccomandare la sorveglianza… dei cessi.
Il 23 di Luglio arrivano allarmanti notizie da Torralba, e vi si mandano dei medici per esaminare e riferire di qual malattia si trattasse. Ai medici furono consigliati sibillini responsi; e l’Arcivescovo Varesini, dando un luminoso esempio di carità evangelica, si recò a Torralba per visitare gli ammalati. in compagnia del Dottor Fenu.

Veniamo ora al vero primo caso di Sassari.

Certo Peppi Pischedda (uno di quelli che lavoravano all’aia di Portotorres) si sentì male il 18 Luglio, appena arrivato a Sassari. Il 19 rimase in casa (abitava in Porta Nuova, di fronte all’ingresso superiore dell’Episcopio). Il 20, pregato da un amico, si recò in un’aia, nelle vicinanze di Sassari, per prestarvi l’opera sua; trasportato però a Sassari vi morì il giorno 24. Aveva avuto vomiti, non diarrea; e fu giudicato non morto di cholera!

La mattina del 24, certo Antonio Schintu d’anni 21, dimorante in vicinanza del Seminario, mentre discorreva con altri in Piazza Castello cadde fulminato, colto dal morbo, e preso da vomiti, diarrea e crampi. Costui guarì; e dicesi abbia dichiarato che una settimana prima erasi recato a Portotorres, dov’era rimasto un giorno.

Lo stesso giorno 24, certo Raimondo Manca, fanciullo muratore di anni otto a nove, abitante in via Turritana, fu colto da vomiti e diarrea. Fu questo il primo caso ufficialmente denunziato dal Sindaco al consiglio Provinciale di Sanità, nella seduta del 25. – Il fanciullo fu trasportato al Convento dei Cappuccini, che insieme a quello degli Osservanti erano stati, in fretta e furia, scelti per ospedali provvisori. Parimenti nel giorno 24 ammalavasi di cholera un bambino di sei anni, Gavino, fratello del precedente, e moriva nella mattina del giorno 25. Il fratello Raimondo spirava invece ai Cappuccíni il giorno 27.

Il 25, altro Antonio Schintu (che lavorava all’aia di Portotorres) colto dal morbo, restituivasi a Sassari sopra un carrettone. A costui fu impedito dal Sindaco l’ingresso in  città, e lo si fece trasportare all’ospedale degli Osservanti.

Erano però tarde precauzioni; poiché diversi individui accertarono essere da più giorni rientrati in città molti ammalati, provenienti da Portotorres.

Le prime misure

Espongo, in ordine cronologico, tutte le precauzioni prese all’annunzio del morbo, desunte e dal registro copialettere del Municipio, e dalle diverse relazioni fatte dai medici di Sassari, Cagliari e del continente. Premetto, che negli archivi Municipali non esistono i libri delle deliberazioni del Consiglio e della Giunta per l’anno 1855; essi forse andarono smarriti nella confusione di quei tempi calamitosi.

La mattina del 25 Luglio s’invitano d’urgenza tutti i Consiglieri, perché intervengano alle cinque di sera nella sala delle riunioni per deliberare sulle misure da prendere nella circostanza. La lettera d’invito comincia così: «Siccome nessuno può a quest’ora ignorare sempre più fondati i timori (?) che il colera possa svilupparsi fra noi,si invitano, ecc. ecc.».

Il giorno seguente (26), tanto per cominciare, il Municipio scrive una lunga lettera all’Arcivescovo, dicendogli: che, non sembrando infondato il timore del cholera, per alcuni casi accertati dentro e fuori città, sentiva la necessità di pregarlo perché ordinasse le collette nelle chiese, affinché venisse allontanato da Sassari il germe del morbo. Più, che si avvisassero i parroci perché corressero ad assistere i moribondi e perché facessero giornaliera denunzia dei casi. – Lasciando all’ Arcivescovo la cura cristiana di pregare per i sassaresi, il Municipio in quel momento avrebbe potuto occupar meglio un tempo prezioso, già per metà perduto!

Il 28 si scrive al Ricevitore di Dogana di Portotorres perché ritiri dal vapore francese i tre quintali di ghiaccio che si sono ordinati per telegrafo a Marsiglia, e che possono abbisognare agli infermi colpiti dalla malattia che di questi giorni domina nei dintorni del paese. – Nello stesso giorno si scrive al Sindaco e al Canonico parroco di Portotorres, raccomandando loro il Professor Col-Bene Potito che deve recarsi costì per studiare la malattia (?) – E noi, da cinque giorni, col cholera a Sassari! Non par vero! – Si scrivono (sempre nel 28) lettere al Convitto Nazionale, al Seminario Tridentino, al Circolo, ecc., nonché a diversi privati per annullamento o pulizia di cessi, canali di spurgo ecc. Da ciò si può desumere a che punto era curata la nettezza nella nostra citta!

Il 31 Luglio si raccomanda all’Arcivescovo perché gli uffici religiosi (cioè il Viatico e l’estrema unzione) si facessero senza alcuna pompa e senza campane, per non prostrarre l’animo della già prostrata popolazione; così  pure che non si suonasse a morto nelle chiese. Si torna a scrivere al parroci per denunziare i casi.

E intanto non si pensava neppure all’isolamento delle cose e delle persone! E ben disse il Prof. Maninchedda nella sua lettera diretta al Prof. Puccinotti il 1° di Settembre dello stesso anno, mentre ancora a Sassari non era cessato il morbo: « – durante lo spazio di dodici giorni che il cholera infuriava a Torralba ed a Portotorres, era durato senza interruzione, mattina e sera, lo scambio delle robe e delle persone con quei paesi; e quando Sassari, non tocca ancora dal contaggio, aveva tanta ragione di temerlo, e quando il cholera erasi già manifestato e v’imperversava, non aver preso nessuna delle necessarie precauzioni; i contatti però nelle pubbliche vie, nei teatri, nelle chiese, nella Università, nelle case stesse degli infermi, siccome dappertutto altrove, essere stati spessi e moltiplicati. Cagione, se io ben reputo, sufficiente a fare che il seminio del cholera si avesse il tempo tutto necessario a diffondersi ampiamente, per quindi germogliare in tanti e sì numerosi individui all’uopo mirabilmente preparati…”.

Così il Prof. Maninchedda; e lo aveva pur detto il Padre Angius per la peste del 1652 (pervenuta a Sassari da Alghero) esser stata più intensa per le riunioni religiose fatte per invocar Dio.

La sera del 2 un’immensa folla si riversò nella chiesa di S. Maria, per tener dietro al simulacro della Vergine degli Angeli, festa del gremio dei muratori. Tutte le vie brulicavano di fedeli devoti; era una moltitudine mai vista che accorreva in Chiesa da tutte le parti per invocare dal Cielo l’allontanamento del morbo.

Orribile delusione! – I morti, che il giorno 2 erano soli dieci, alla mattina del 3 diventarono di colpo 266; dei casi non si parla, perché non si riuscì a contarli – erano forse più di 600!

Un grido di cordoglio, di disperazione, di minaccia parve sollevarsi dall’intiera città in quel giorno malaugurato.

Era un orrore!!

La mattina del 3 il Sindaco non comparve al Municipio; un messaggio annunziò che un’improvvisa indisposizione lo aveva tenuto inchiodato a casa. Qualche maligno mormorò a questo proposito; ma chi poteva asserire che il Sindaco non si sentisse realmente male?

Scompiglio

Il giorno 3 il Vice Sindaco G. Sotgiu prende la firma. Si scrive al medico Dandrea e al chirurgo Dussoni perché si trovino di turno alla farmacia Delitala; si scrive per provvedere medicinali che mancano; e per i reclami che pervengono alla Commissione mista contro l’Ospedale Civile.

Dal 4 Agosto non si scrive più ad alcuno, fino al giorno 16 in cui il morbo diminuisce. E si aveva ragione: bisognava operare!

Il 5 Agosto, sciolto di fatto il Consiglio municipale, l’Intendente Conte prendeva le redini del Comune. Informò per telegrafo il Governo, domandò pieni poteri, che gli furono accordati; istituì una Commissione mista formata dei consiglieri rimasti a posto e dei militari, ai quali venne affidato il disimpegno di tutto che aveva relazione coll’epidemia e la pubblica salute. Egli disponeva un po’ di ordine; temperava le troppe pretese dei pochi venditori, stabiliva la mercede per la tumulazione dei cadaveri.

Ma il panico, il disordine crescevano sempre, tanto nella popolazione, quanto nei proposti a mantenere l’ordine.

Scrive il Prof. Umana nello stesso anno: « – Dal 24 al 31 il popolo non si allarmava, confidando nell’abituale incolumità, e tranquillato da improvvidi proclami. L’annunziare ad una città popolosa coma dessa sia per diventar vittima di una mortale epidemia è una pericolosa risponsabilità; perché se mai non si verificasse, il popolo se ne vendica, almeno col ridicolo… Questa è la storia di tutte le epidemie – e quindi anche della nostra. Si lasciò che un monte di cadaveri insepolti ci avvertisse della tremenda verità! – Difficile immaginare il terrore. Cominciò l’emigrazione prodigiosa per numero, triste perché tardo ripiego; la maggior parte dei fuggiti caddero, o colpiti per la via, o appena giunti all’asilo che si avevano scelto».

Le vicine campagne erano piene di fuggenti; ne morivano molti, e i cadaveri, o si seppellivano là, o si trasportavano a Sassari a dorso di cavallo. Si scappava a Genova, in Corsica, a Marsiglia, ma moltissimi lasciarono miseramente la vita in quei Lazzaretti.

I morti del giorno 3 furono 266; il 4 morirono 309; il 5, 358, il 6, 366. Fin dal giorno 6 di Agosto erano morti dieci medici e tre chirurghi, e infermatisi gli altri. L’Intendente chiamò soccorso di medici a Cagliari ed al Continente.

Provvedimenti

La mattina del 7 si costituiva la Commissione mista, della quale facevano parte: l’Avv. Cav. G. Sotgiu (Vice Sindaco) – Cav. F. Cugia – G.A. Pischedda – Prof. Avv. Sanna Tolu – Paolino Pompeiana, negoziante – Avv. Prof. Ferracciu, deputato – Prof. Cav. Guttierrez, teologo – Avv. Paolo Martinelli – i Capitani Lauro e A. Perego, l’aiutante maggiore in primo D.A. Marca del 16° Reggimento Fanteria. A presidente venne scelto il Cav. F. Delitala, delegato dall’Intendente.

La Commissione mista si suddivise in Sotto-commissioni, composte generalmente di un militare e due borghesi; il colonnello del 16° aveva messo a disposizione quanti soldati si volevano.

Bisognava provvedere pane e carni, dar sepoltura agli estinti, pulire la città dalle immondezze, e dai cadaveri degli animali morti per fame o per abbandono; e la Commissione mista a tutto provvide in quella sera e alla dimane. Duecento settanta cadaveri erano rimasti insepolti dal giorno innanzi; la sotto Commissione alla testa di un forte drappello di soldati muoveva al cimitero, e radunati a forza quanti uomini poterono si die’ mano al seppellimento, dandone essi primi l’esempio. La sera stessa si annunziò che non vi erano più cadaveri insepolti. Altra Sotto-Commissione incaricata faceva fabbricare il pane dai soldati della guarnigione, e la mattina dell’8 già incominciava a vendersi il pane per conto del Municipio. Mancava la carne, ma spediti dalla Commissione alcuni carabinieri sulle orme dei garzoni dei macellai ch’erano fuggiti nella Nurra, ne li ricondussero la sera stessa – e la carne non mancò. Sulla sola mondezza della città – nota il Dujardin – la Commissione non sortì l’esito desiderato. «- Ma qual meraviglia – dice il suddetto scrittore – se, ad onta di tutti gli sforzi, rimaneva ancor molto a desiderare in una città, dove il togliersi le immondezze d’intorno è basso ufficio e vile?».

«Dal 5 all’8 Agosto furono i giorni più tremendi – continua il Dujardin – non tanto per la mancanza d’ogni cosa, quanto perché molti si vedevano miseramente perire, senza soccorso di sorta. Eppure un medico avrebbe forse trovato rimedio al morbo fatale. Oh, quanti furono in Sassari che provarono il dolore del Conte Ugolino!»

La sera dell’8 Agosto (giorno in cui i morti raggiunsero il numero di 533) arrivarono da Cagliari, con la diligenza, cinque medici, cioè Mastio, Cannas, Fadda, Falconi e Carboni. Il loro arrivo produsse un’agitazione, una febbre; se li strapparono la sera stessa da un punto all’altro, dall’uno all’altro piano; tanto che, stanchi dal viaggio, dovettero vegliare fino alle undici di sera, e tornati a casa furono costretti ad alzarsi dal letto alla una e alle tre dopo la mezzanotte per correre nuovamente qua e là. Erano tutti generosamente ospitati dall’avvocato Sanna Tolu, e dovettero richiedere una guardia di soldati alla porta della loro abitazione, perché non li lasciavano in pace neppure a pranzo. – Poverini! erano pochi!

Il giorno 11, a mezzodì, arrivarono dal continente altri cinque medici cioè, Michele Lessona, Vella, Dujardin, De Vitta, e Giaccone – e verso le 5, da Cagliari, i Dottori Nonnis, Mossa, Cocco, Gessa, Putzu, ed Usai. La stessa smania nella popolazione; tutti venivano strappati di qua e di là con preghiere, lagrime, benedizioni. – Uno di quei quadri di sconforto che non si potranno mai ritrarre!

La stessa sera, per invito della Commissione, tutti i medici si riunirono in una sala del Municipio; dove fu stabilita la ripartizione dei sanitari per la città, divisa in dieci rioni; i sanitari verrebbero accompagnati da una guida; ogni rione sarebbe servito da una particolare farmacia; il Municipio somministrerebbe i medicinali ai poveri, epperò si distribuirebbero ai dottori, delle carte munite del bollo municipale per le ricette che gli speziali dovevano riconoscere.

Ecco, per curiosità, la distribuzione dei sanitari per eseguire il servizio in città:

All’Ospedale militare dei colerosi, Dottori Mastio, Cannas, Carboni, Mossa – All’Ospedale delle malattie ordinarie, Pasquale Umana – All’Ospedale Civile, Vella, Mureddu, e infermiere capo Gullia – Alle Carceri e Ospedali del Seminario, Lessona, Uda – Rione S. Catterina (ponente) Cannas, Nonnis, farmacia Crispo – Rione S. Caterina (levante) Fadda, Mossa Carlo, farmacia Sanna – Rione S. Nicolò, Capitta, Usai, farmacia Sechi – Altro rione S. Nicolò, Dujardin, Putzu, farmacia Canu – Rione S. Sisto, De Vitta, Gessa, farmacia Peralda – Altro rione S. Sisto, Cocco, Contini, farmacia Peralda – Rione S. Donato, Giaccone, Sanna, farmacia Marongiu – Altro Rione S. Donato, Falconi, Filia, farmacia Marongiu – Rione S. Appolinare Col-Bene, Dussoni, farmacia Delitala – Altro Rione S. Appolinare, Canu, Cherchi, farmacia Delitala – Guardia in città per la notte, Carboni Battista, che fu rilevato diverse sere dal Mossa Carlo, Dottor Spano, Cocco e Usai.

Il 12 Agosto cominciò finalmente il servizio regolare; e a quel giorno erano già morti circa 3.600 abitanti! – Le cifre dei decessi, dal 6 Agosto in giù, furono le seguenti: il 7 – 422; 1’8 – 533; il 9 – 472; il 10 – 352; l’11 – 266; il 12 – 245; il 13 – 190; il 14 – 177; il 15 – 132; il 16 – 77; il 17 – 78; il 18 – 66; il 19 – 26; il 20 – 43; il 21 – 53; il 22 – 39; il 23 – 38; il 24- 37; il 25 – 17. Dopo il 25 i casi ed i decessi sono sempre andati in diminuzione.

Gli Ospedali

Per tutto lazzaretto il Municipio aveva in sulle prime preparato dodici letti (!) nel Convento dei Cappuccini, lontano dalla città e sfornito di tutto il necessario. Poco dopo venne abbandonato, insieme ad altro nel Convento degli Osservanti, ugualmente disadatto e fuori mano. – Altri due ne furono improvvisati nel crescere dell’epidemia; il primo, cioè, nell’antica chiesetta di S. Anna; il secondo nel locale dell’Ospedale vecchio, nel piazzale di S. Nicola. Quali fossero ve lo dice Dujardin: sepolcri e luoghi di morenti. Il Dottor Vella, incaricato di visitarli e riferirne alla Commissione, disegnò quello di S. Anna come luogo umido e diselciato, privo d’ogni riparo, nido d’uccelli e di schifosi animali; disse giacere colà, distesi al suolo, o su poca paglia, ignudi o seminudi, i morenti commisti ai cadaveri; l’assistenza esserne affidata alle meretrici, che la forza delle armi vi aveva condotte e vi manteneva: nessun soccorso di farmaci, nessuno di alimenti. Sul secondo (l’Ospedale vecchio) disse esser composto di due grandi sale scarse d’aria e di luce, non meglio arredato del primo, asilo esso pure di morte e di sconforto. Questa relazione commosse tutti: e fu proposto dai medici continentali qualche convento dei quali ne avean veduti parecchi comodi e adatti. – «La proposta accolta da prima, venne affogata in molte parole (scrive il Dujardin) e fu allora che io mi accorsi di non essere sul continente, ma in un popolo ove l’elemento laico ancora non s’era abbastanza sviluppato».

Anche il nostro Pasquale Umana, a proposito di Ospedali, scriveva nel 1855 queste frasi duramente efficaci: «Tra noi, di spedale esiste appena quanto basta per trovar modo a cinicamente respingere il povero che chiede conforto; di ricoveri non un’ombra; di servizi di beneficenza non un pensiero. Tristi verità son queste, ma fremendo e raccapricciando conviene altamente proclamarle -».

Furono finalmente improvvisati dalla Commissione altri due ospedali dove trasportarono tutti gli ammalati che languivano nei sepolcri di Porta Nuova e piazzale di S. Nicola. L’uno fu nell’Ospedale nuovo, dove adattarono uno dei bracci, dividendolo con un muro. In due giorni vi collocarono sessanta letti forniti dalla carità cittadina, e dalle case di coloro ch’erano fuggiti. Di questo ebbe la direzione il Dottor Vella. – L’altro fu improvvisato in diverse camere del Seminario, cedute dall’Arcivescovo, dove furono trasportati diciassette letti, sotto la direzione del Prof. Michele Lessona.

Strage e squallore

Chi mai potrebbe assumere il compito di descrivere lo sconforto, l’affanno, lo scompiglio che regnò nella città di Sassari durante l’epidemia che la visitava per la prima volta? Vi sono ambascie senza nome; vi sono spettacoli che forse si concepiscono col pensiero, ma che dalla parola né dalla penna non potranno mai ritrarsi al vero.

Fino al 2 Agosto la popolazione sperava ancor d’esser liberata dal morbo asiatico; ma quando nel cuore della notte, da ogni quartiere, da ogni via, da ogni casa partirono grida angosciose ed urli disperati, solamente allora la trista verità non poté più celarsi ad alcuno.

All’improvviso, mentre si era sani, discorrendo paurosamente dell’inatteso flagello, venivano colpiti due, tre, quattro membri della stessa famiglia; i figli chiedevano disperatamente un conforto alle madri; i padri invocavano l’assistenza dei figli; ma tutti si stava là, immobili, intorno al letto del malato che si contorceva nelle convulsioni dell’agonia, con la faccia livida, le occhiaie nere e infossate e i crampi alle mani e ai piedi. I bambini strillavano intorno al letto – le madri scarmigliate si facevano alla finestra o sulla soglia delle porte, chiedendo un soccorso ai vicini, o ai passanti; ma nessuno accorreva. Tutti erano sbigottiti, pallidi, stupiti dal terrore. Dai più si gridava: un medico! un prete! – ma si moriva come cani, senza l’uno e senza l’altro – con quant’angoscia della famiglia lo si può immaginare. Nei giorni che trascorsero dal 4 all’8 Agosto erano scene orrorose; si moriva a centinaia; pochi medici non bastavano a vedere, nonché ad assistere, la ventesima parte dei colpiti. Vi era di più: tutti quei cadaveri, seminudi, erano là, esposti da molte ore, sul letto, sul tavolo, sul freddo terreno, senza che alcuno venisse pietosamente a ritirarli, per rendere meno straziante l’agonia dei nuovi colpiti.

Era una confusione, uno spavento indescrivibile.

Nell’Agosto del 1884, l’Italia fu profondamente commossa dalle scene orrorose che succedettero a Napoli, già flagellata dal mostro indiano; non bastarono le colonne di tutti i giornali a raccogliere i tristi episodî che si svolgevano nei luridi laberinti del Porto, del Mercato, del Pendino. Eppure, quanta differenza fra il cholera di Napoli dell’84, e quello di Sassari del 55! Là, fin dal primo apparire del morbo, schiere di volontari accorsi da ogni parte d’Italia per recare aiuto di braccia e di danaro – e qua una dozzina di medici, ballottati e strappati dall’uno all’altro, e quasi impotenti ad operare; là largo un soccorso di viveri, di coperte, di medicinali – e qua mancanza di pane, di carne, di tutto; a Napoli il conforto pietoso d’una barella e d’una sepoltura – a Sassari i cadaveri sparsi sulle vie o fuori delle porte, aspettando le carrette per trasportarli alla rinfusa, come vili immondezze, inutili rottami; a Napoli un seimila morti sopra mezzo milione di abitanti – a Sassari quasi la stessa cifra di morti sopra una popolazione che di poco oltrepassava i 25.000!!!

Chi può raccogliere gli episodi? Chi può dire del numero delle vedove, o di quello degli orfani sparsi per le vie, fuggenti dalle case deserte? Gli eroi che sacrificarono la vita per i loro simili, e i pusillanimi che abbandonarono i padri od i figli, per fuggire come pazzi, spinti dal solo istinto della conservazione? Le spose che, soffocando ogni affetto, lasciavano i mariti sul letto di morte – e le donne di servizio che sfidarono la morte, al capezzale del colpito padrone? I sepolti vivi, ed i morti di paura nell’isolamento? E gli atti generosi, e le infamie senza nome, e i lampi di vera carità, e l’ingordigia dei venali in mezzo alla sventura che colpiva un intero paese?

Tutto si può immaginare – nulla si può descrivere! La penna rifiuta di narrare certe scene – come un pietoso riguardo consiglia a cuoprirle d’un pudico velo.

Dopo l’ottavo giorno della terribile morìa, le vie di Sassari erano deserte. Si vedeva appena qualche prete frettoloso, recante il viatico o l’olio santo ad un suo devoto morente.

Quella città, fulminata dal morbo, pareva un sepolcro di vivi. Una rassegnazione stanca, cinica, era sottentrata allo spasimo febbrile. Il dolore aveva spuntato i suoi strali – non si piangeva – non si gridava più. Dinanzi al desolante spettacolo, di cui tutti si era attori e spettatori, si erano spezzate le corde del sentimento – si erano inaridite le fonti delle lagrime. La fede in Dio, sostegno dei credenti fino alle porte della tomba, pareva anch’essa morta; si sarebbe detto che il dubbio d’Amleto torturasse tutte le menti – se pur le menti, in quei giorni, fossero state capaci di concepire un’idea!

A Sassari era profondo silenzio; ma quel silenzio, a quando a quando, veniva interrotto da un sordo rumore, da un campanello lugubre, da uno scricchiolio monotono, dai colpi cadenzati d’un’unghia ferrata. Erano due, tre, quattro carri, l’uno dietro l’altro, che attraversavano la via, carichi di corpi umani – e corpi umani chiedenti.

Ero giovinotto, ma lo ricordo tuttora; perocché certe immagini sono corrosive, esse s’incidono a fuoco nella nostra mente infantile, né per volgere d’anni e di eventi perdono i loro duri contorni.

Fra i ricordi del 55 uno sovratutti mi è rimasto impresso nel cervello, con solchi profondi: – il trasporto dei cadaveri sui carri. Ho dimenticato le scene di dolore e di disperazione delle vedove e degli orfani, di cui allora non comprendevo la forza – ma quei carri son là, sempre là, impressi nella retina del mio occhio, sempre chiari, nitidi, senza che gli anni vi abbiano disteso la più piccola nebbia.

Ero alla finestra d’una casa, in via Capo Leoni. Due carri attraversavano la strada. Ciascuno di essi aveva tre uomini di servizio: uno teneva il cavallo per il morso, e lo guidava nella funebre passeggiata; gli altri tenevano dietro al carro, pronti alla prima chiamata per caricare i cadaveri. Avevano adottato lo stesso sistema allora in uso per il trasporto delle immondezze.

Dalle porte di strada, o dalle finestre dei diversi piani, si faceva cenno a quegli uomini perché si fermassero. I due comprendevano, entravano nelle porte, e poco dopo ricomparivano con un corpo umano che gettavano sul car-ro, dopo averlo alquanto dondolato. Diverse volte l’uno si fermava sulla strada, e l’altro calava, o gli gettava dal primo piano il cadavere, che veniva poi composto alla bella meglio sul carro, per far capire in esso il maggior numero possibile di morti.

E quei tre uomini, resi insensibili dall’ufficio cui erano destinati, ridevano sempre, scherzando cinicamente dei morti. Ricordo di uno di essi, il quale uscì da una porta col cadavere di una vecchia che aveva il seno per metà scoperto. Quel mostro teneva in alto per una gamba il cadavere irrigidito, facendolo girare come un fantoccio, e mostrandolo al compagno che rideva come matto.

Non dimenticherò mai quella vecchia, quelle gambe, quelle braccia, quelle teste penzoloni, confricate dalle ruote del carro messo in moto; – non dimenticherò mai quelle carni azzurrognole, quelle faccie livide, quelle labbra violacee, quelle occhiaie nere, quei denti composti ad un sogghigno, e quelle orride smorfie che turbarono per lungo tempo i miei sogni giovanili.

Un’altra scena aggiungerò, che seppi essere stata molto frequente, ma ch’io vidi quella sola volta. Quando il carro scantonò per prendere la Via Lamarmora, una scossa improvvisa fece smuovere un cadavere, il quale rotolò a terra, dando della testa sul ciottolato. Ebbene, lo credereste? fu lasciato là in terra come un cencio, e non fu raccolto che dall’uomo che guidava il secondo carro.

Ho raccontato questi due episodî, perché di essi fui testimonio oculare. Raccapricciavo, ero atterrito, ma una forza arcana mi teneva inchiodato alla finestra; provato in tutta la sua malefica influenza la voluttà del terrore – quella curiosità paurosa che ha spinto un tempo le donne ed i fanciulli sotto le scale d’un patibolo, per vedervi penzolare il corpo d’un impiccato!

Questi episodî, potrebbero bastare per avere un’idea dell’epidemia che afflisse Sassari nel 1855; voglio però riportare due brani della lunga relazione di Dujardin.

«L’idea del contagio (che non è una invenzione di medici, ma un sentimento popolare anteriore a tutte le teoriche) allontanava da loro i famigliari, gli amici, i parenti, e, diciamolo pure, i conforti della scienza e della religione. Chiuse o sprovviste le farmacie, chiuse le botteghe dei droghieri, chiusi perfino i caffè, si difettava di tutto che potesse giovare a quei miseri. Eppure avevano così pochi e brevi bisogni!… Ancora mi suonano agli orecchi i pianti delle madri, le suppliche, le benedizioni; e ricordo i giacenti che rianimati dalla speranza del conforto, siccome lampade alle quali stia per mancare l’alimento, parevano ravvivarsi un istante, e poi spiravano. Intere famiglie vidi allora colte ad un tempo, ed in un letto i vivi uniti ai morenti: sul nudo suolo, o sopra una stuoia, vedea morire il figlio una madre che la pena del morbo aveva fatto insensibile…».

Le accuse

Molte e gravi furono le accuse contro il corpo municipale; per non essersi prese tutte le possibili precauzioni onde scongiurare il cholera. Pur troppo, però, quando una sventura pesa sopra un paese, si ha sempre bisogno di un capro espiatorio che sopporti pazientemente gli attacchi dei furenti. Di chi la colpa? Forse di tutti e di nessuno; di nessuno perché il cholera aveva sempre risparmiato Sassari, e si continuava a fidare ciecamente nell’immunità; di tutti, perché dell’igiene e della nettezza nessuno si era mai preoccupato per conto proprio; motivo per cui, quando ci si pensò, era tardi.

Accuse se ne fecero, e gravi. Scrive l’Umana:

«Sassari sarebbe stata debitrice della sua salvezza a colui che adoperato si fosse a premunirla contro i futuri danni, prima che il cholera apparisse; come in faccia a Dio o in faccia agli uomini è risponsabile di tanta sventura chi potendo nol fece!».

E il Maninchedda: « – E fiumi di sangue e di lagrime si versarono, e per lunghissima pezza si verseranno, a lavare l’errore commesso a danno della dolente mia patria, se pure altri non voglia dire dell’intiera Sardegna!».

E Dujardin: « – Le sollecitudini del rappresentante il Governo furono accolte con peculiare riverenza e sepolte sotto il peso di lunghe ed oziose discussioni. Ma intanto l’ora si avvicinava in cui questi uomini dal viso beffardo, dai lunghi e sonanti periodi, questi organizzatori del caos, dovessero scomparire cacciati come polve innanzi al vento, per lasciare il posto a intrepidi e generosi che nel privato e pubblico lutto sostenessero la gran lotta ed allontanassero l’estremo pericolo dall’infelice paese».

Pietro di S. Saturnino nel suo opuscolo, rileva invece il merito del corpo municipale che fu zelantissimo, operoso, prudente nel prescrivere le misure sanitarie; per lo che venne encomiato dallo stesso Intendente con dispacci del 23 e 28 Luglio. Egli aggiunge però, con carità patria:

«Ché se parecchi consiglieri municipali ebbero la trista sorte di non poter coadiuvare al bene pubblico in quella dolorosa congiuntura, ella è una di quelle sventure che noi tutti deplorammo, e che agli uomini collocati nelle pubbliche magistrature deve esser causa di giusto dolore, nulla dovendo aver maggiormente a cuore quanto il dar saggio, nel giorno del pericolo, del valido loro animo. Trarre da un infortunio un argomento di vitupero è un’arma che uccide chi la brandisce».

E con questo basta. In quanto a me lo ripeto: la colpa fu il ritardo delle misure, e questa colpa non fu solamente del corpo municipale, ma potrebbe anche dividerla lo stesso Intendente, giustamente lodato da tutti, e in modo speciale dal Dujardin. Anche lui non fu esente da attacchi; ed anzi, a questo proposito, devo soggiungere (per debito di cronista), che nei primi di Settembre del 1854, quando il Municipio di Sassari si preoccupava seriamente del cholera, fu spedita una corrispondenza alla Gazzetta Popolare di Cagliari, in cui si accusava l’Intendente Conte perché non aveva voluto approvare le spese bilanciate per misure di precauzione contro il cholera. E forse a questi appunti si deve la decisione dello stesso Conte, il quale, nel Luglio del 1855, volle radiate dai bilanci del Comune di Sassari (dipendenti dal suo ufficio) L. 12, stanziate per l’abbonamento allo stesso giornale. (Questo pure si legge nella menzionata Gazzetta!).

Benemeriti

Se non pochi esempi di mollezza e di trascuranza si notarono negli uomini che erano a capo delle Amministrazioni al tempo del cholera, è vero altresì che numerosi sono i cittadini che si sono distinti per abnegazione, per attività, e amor di patria.

Cito fra i primi il valente professore Idocchio, ottimo medico e sacerdote esemplare, perché di esso è menzione in alcune relazioni. Di lui scrisse il S. Saturnino:

«Chi non lo vide in quella dolorosa catastrofe non può formarsi un chiaro concetto di quanto possa la carità cittadina disposata al sentimento di religione. Tutto ei si votò a tutti, ed a certa morte; poiché se del cholera morto non fosse, d’ambascia e di stanchezza sarebbe perito. Allorché le sue forze lo abbandonarono, non potendo reggersi in piedi, si faceva portar sulle braccia da uomini robusti, e continuava in tal modo le visite agli infermi».

Il valente Dottore Dujardin, venuto a Sassari per prestare l’opera sua, scrive sull’Idocchio le seguenti righe:

«E’ il giorno 5. Un uomo venerando e severo nell’aspetto, varcati i settant’anni, corrugata la fronte dal tempo e dal dolore, discende a stento da una carrozza, e nelle braccia degli accorsi portato di porta in porta ove giacciono le vittime del fatal morbo, le consola dei lumi della scienza, delle dolcezze della carità. Egli è il medico Idocchio: il Nestore dell’arte sua, il riverito, l’amato da tutti, che dal primo apparire del morbo accorse sempre ai bisogni de’ suoi concittadini; per la fatica ed il dolore è ridotto a tanto stremo di forze da non potersi reggere sulla persona: non però egli vien meno alla sua missione, e fa volontario sagrifizio di sé alla umanità ed al proprio paese. La sera del 5 vedeva l’ultimo infermo; e invitato a tornare la dimane rispose: – No; poiché domani non sarò più! – E il giorno 6 moriva! Se i sassaresi avranno cuore, un monumento sorgerà a perpetuare la memoria del Prof. Idocchio e dei più benemeriti».

Moltissimi furono i benemeriti, fra i quali ne figurano 32 nella lapide monumentale inaugurata nello scalone del Palazzo Municipale, cioè: tre Consiglieri comunali, Fogu Avv. Gianuario, Guttierrez Cav. Gaetano, Martinelli Avv. Paolo; – sette medici e chirurghi: Bini Gavino, Fenu Francesco, Idocchio Leonardo, Loriga Francesco Matteo, Marras Gaetano, Simon Antonio, Vallero Bonifacio; – un farmacista: Demartis Antonio Luigi; – il Segretario Comunale Sechi Avv. Vincenzo; – due militari: Rebaudengo Gio. Battista Maggiore Comandante la Divisione dei Carabinieri Reali, e Isaia Baldassarre, Sottotenente dei Carabinieri; – quattordici fra Rettori, Parroci e V. Parroci: Agnesa, Teol. Salvatore, Areddu Teol. Gio. Antonio, Castoldi Fra Angelico, Cervo Rev. Gavino, Fra Fedele da Calangianus, Fra Girolamo da Ploaghe, Fra Giuseppe Luigi da Ploaghe, Gamboni Fra Anicetto, Manunta Rev. Pietro Paolo, Oggiano Rev. Antonio, Ortoli Rev. Giuseppe, Pinna Nossai Rev. Giuseppe, Sechi Teol. Gavino, Serra Virdis Teol. Gavino; – quattro fra mazzieri e guardie civiche: Fioca Giuseppe Vincenzo, Gellon Pietro, Melis Antonio Giuseppe, e Miali Giuseppe.

Così il clero regolare, come il secolare diedero esempio di attività, di zelo, e di vera carità evangelica; tanto è vero che larga messe essi fornirono al morbo. Tutte le cinque parrocchie ebbero parroci, o vice parroci, morti.

I frati erano stati aggregati al servizio delle parrocchie nel modo seguente: gli Osservanti e Conventuali addetti alla Cattedrale e a S. Appolinare; i Domenicani all’Ospedale militare; i Serviti a S. Donato; i Carmelitani a S. Sisto e a S. Catterina; i Cappuccini a S. Catterina.

Le monache Clarisse ed Isabelline vollero anch’esse, nei silenzi del loro ritiro recar sollievo agli ammalati, distribuendo gratuitamente ai poveri brodo e biscottini.

Sarebbe lungo enumerare i benemeriti che si sagrificarono per il bene del paese! – Taccio tutti gli ufficiali e i soldati del 17° Reggimento e degli altri corpi stanziati a Sassari; taccio tutti i medici cagliaritani che lasciarono le loro famiglie per soccorrere i fratelli sassaresi; e così pure tutti i medici continentali, fra i quali il Dujardin che venne accompagnato dalla madre, la quale volle seguire il figlio per dividere con lui la pietosa missione; taccio del deputato Martelli e del Consigliere d’Intendenza il Conte Morelli, venuti entrambi a Sassari per recar sollievo agli sventurati; taccio del continentale Dott. Valletti che lasciò la vita a Bonorva, dov’era stato mandato per assistere i cholerosi; taccio infine del vice Sindaco Giuseppe Sotgiu che sfidò coraggioso il morbo, né mai si allontanò dalle sale comunali; come pure taccio di tutti i membri della Commissione mista, fra cui Ferracciu; il quale, ricevuta dal Governo un’onorificenza, la respinse dicendo, che non poteva accettare un premio che gli avrebbe ricordato la sventura toccata alla sua patria e la perdita de’ suoi più cari amici e parenti: aggiunse bastargli la coscienza di aver adempiuto ad un dovere!

I Candelieri

Verso il 12 o il 13 una folla di agricoltori, operai, artisti, facevano ressa intorno al Palazzo Comunale ch’era diventato il centro del movimento. Dopo aver deliberato fra loro, delegarono alquanti individui, i quali si presentarono alla Commissione Mista, in nome del popolo. Essi esposero, che ricorrendo fra giorni la festa dell’Assunta, nel qual giorno era cessata altre volte la peste, chiedevano si rinnovasse il voto e si facesse nuovamente la processione dei Candelieri – non però coi ceri, com’era stata cambiata nel 1848, bensì come sempre si era usato, con le torri di legno. La Commissione accolse benignamente i popolani, e promise loro di soddisfarli, deliberando: in quanto al voto, che si scioglierebbe un mese dopo cessato il cholera; in quanto al modo, che si sarebbe stabilito più tardi.

Altre notizie

Il 16 Agosto, dal Commissario del Governo, si scrive ai due giudici di Levante e di Ponente, ordinando loro di togliere legalmente i sigilli apposti alle abitazioni chiuse per decesso degli inquilini, affinché si potessero disinfettare gli effetti e masserizie ivi contenuti, e ciò per prevenire una possibile ricrudescenza del morbo.

Come abbiamo già notato, dal giorno 4 al giorno 16, si sospese ogni corrispondenza epistolare dal Municipio; il 17 si riprendono le lettere, che vengono sempre firmate dal Vice Sindaco G. Sotgiu.

Il 23 arrivano dal Continente altri medici, farmacisti, infermieri, e medicinali. Fra i medici era il Dottor Leone Valletti, che fu spedito a Bonorva (dove morì di cholera). Il De Vita era partito per Ittiri – il Giaccone per Bessude – spediti colà per soccorrere i colpiti dal morbo.

Il 29 fecero ritorno in patria i medici cagliaritani, perché colà si temeva di cholera; il giorno 16 di Settembre partirono i medici continentali. Sì agli uni che agli altri il Municipio indirizzò bellissime lettere di ringraziamento.

Il 10 Settembre si registrò l’ultimo caso di cholera; il 14 Ottobre si cantò il Tedeum nella cattedrale per ringraziar Dio della cessazione del morbo; e il 1° Dicembre si fece pomposamente la festa dei Candelieri, abolendo da quell’anno l’uso dei ceri, stabilito nel 1848.

Le vittime

A qual numero ascesero i colpiti dal cholera? A quanto i morti? – Le cifre precise non si seppero mai. – Lo storico Siotto Pintor e il Prof. Maninchedda fanno ascendere i morti a circa 8.000; alcuni li vogliono 7.000; altri 5.000. Il Municipio porta la cifra ufficiale a 4.784; ma tutti sono convinti (come nota il Dujardin) che quella si trovi al dissotto del vero, principalmente per le morti avvenute fuori paese.

«Il Municipio di Sassari (scrive il suddetto medico) credendo, e con ragione, che le cifre giornaliere di mortalità non fossero esatte, ha voluto verificarle di casa in casa, ed elesse a ciò delle commissioni. Il volgo però, nel sospetto che gli si volessero far pagare le spese di tumulazione, tacque, e nascose quanto più poté de’ suoi morti». D’altra parte, anche nella cifra dell’intiera popolazione non trovo due scrittori che vadano d’accordo: l’Umana scrive 22.000 abitanti; – Dujardin 23.000 – Siotto Pintor 24.000 Maninchedda 28.000.

La cifra più verosimile dei casi di cholera è quella di 10.000: la metà cioè della popolazione, e il doppio dei morti.

Le cause

Le cause principali della strage eccezionale fatta dal cholera in Sassari, furono tre: la trascuranza massima nelle misure di precauzione, tanto a riguardo delle quarantene, quanto delle disinfezioni; – la mancanza assoluta di provvigioni, medici, medicinali, ospedali ecc.; – e finalmente la trista condizione dell’igiene e della nettezza, le quali per Sassari furono in ogni tempo oggetto dei continui appunti di amici e di nemici. – Riserbandomi di dimostrarlo a suo tempo e a suo luogo, mi limito per oggi a riportare alcuni brani della relazione di Dujardin, a proposito dei quartieri da lui visitati in quel tempo.

«Preme il cuore all’entrare in quei tuguri, dove la nequizia ed il più crudele egoismo hanno confinato chi più stenta la vita. Quegli oscuri covili senza finestra, mancano d’aria e di luce, mancano d’ammattonato, sono sovente umidi, con pareti grezze, nere, affumicate. Né creda taluno che appartengano ad avventurieri speculatori; sì bene a ricchi e titolati signori, a confraternite, a Capitoli… Hanno le cloache ai piedi del letto, con sportelli di legno mal eseguiti e che chiudono male. Lamentasi l’immondezza delle persone… Le donne, belle ed avvenenti, perdono l’illusione del sesso per la immondezza della persona e degli abiti; né cura si dànno dei loro bambini, sucidi, quasi seminudi, lasciati in una culla che ributta a vederla; coperti di migliaia di mosche, per le quali si dibattono e piangono!».

In quanto a me osservo, che i sucidi non erano allora i soli quartier bassi; ma anche negli alti la nettezza lasciava molto a desiderare. Tanto è vero, che il municipio, nel primo apparire del morbo, non fece che scriver lettere a qualche privato, o a pubblici stabilimenti eccitandoli alla nettezza. E forse la grande moria – che il Maninchedda attribuisce in gran parte alla predisposizione quasi generale dei cittadini; e il Dujardin a speciale località e costituzione annua – deve la sua generalità alle condizioni igieniche del paese. Abbiamo diffatti avuto campo di notare in tutte le epidemie recenti (e specialmente l’ultima di Napoli dell’84) che il morbo più infierisce nei rioni più sucidi. I quartieri, per esempio, del Mercato, del Porto e di Pendino ebbero i due terzi dei morti di cholera; per lo che l’onorevole Depretis ebbe a pronunziare l’oramai storica sentenza: sventriamo Napoli!

Sassari però, nel 1855, era tutta un centro d’infezione. Rinchiusa per due terzi nella sua cinta di muraglie, il morbo la flagellò per ogni verso con un’imparzialità meravigliosa, colpendo tutti indistintamente – dal più ricco al più povero, dal più colto al più ignorante.

E se è vero che anche noi possiamo dire: sventriamo Sassari! – è vero altresì che non lo potevano dire nel 1855, perché Sassari in quell’anno era tutta ventre!

Questa grande moria che a Sassari non risparmiò alcun ceto, attirò l’attenzione di tutti i medici sardi e continentali, e la rilevarono nelle loro relazioni.

«In Sassari, non solo ammalarono – scrive il Maninchedda – ma eziandio morirono cittadini appartenenti a tutti i ceti, senza distinzione di sesso o di età: nobili, magistrati, medici, chirurghi, preti, frati, avvocati, procuratori, notai, negozianti, contadini, artieri d’ogni sorta, non esclusi i ramieri, uomini e donne, vecchi e fanciulli; e non è a pretermettere che taluni affermano aver veduto attaccati e perire dei cani e dei gatti con parecchi sintomi di cholera».

E il Dujardin: «- Tutte le classi di persone furono ugualmente bersagliate; invasi tutti i luoghi con egual furore, e strage. I siti meno infestati furono i sobborghi; cioè, le poche case fuori Porta Castello, Porta Nuova, e Porta d’Utzeri». Lo stesso medico poi, a proposito delle classi che certi Riformatori chiamano privilegiate dal morbo, cioè che più restarono immuni, osserva: « – di 40 fra medici e chirurghi, dopo otto soli giorni morirono 13; i sacerdoti furono decimati; cinque morirono fra Parroci e Curati, e si noti che cinque sono le parrocchie; di 620 uomini del Presidio morirono 108; cioè: 8 ufficiali, 15 sott’ufficiali, 10 caporali, 68 soldati e 7 musicanti; di 296 carcerati 70 ne uccise il cholera. L’età media fu quella che sofferse maggiori danni; bambini poppanti non vidi nel mio distretto, pochissimi fanciulli, né morirono; dei vecchi ugualmente pochi colpiti, e la morte fu generosa con loro…».

La mancanza di nettezza non doveva dunque esser estranea a questa imparziale dispensatrice di tormenti e di morte.

Avendo ormai l’esperienza dimostrato, che l’igiene e la nettezza possono allontanare, o rendere miti le epidemie, i Governi e Municipi dovrebbero pensare seriamente allo sventramento dei paesi; pensarvi dico di continuo, ora per ora, con gli occhi ai bilanci; e non prometterlo solamente nel giorno della sventura, sedendo sul marmo funereo d’una popolazione sepolta. Bisogna, infine, sventrare i paesi, prima che il morbo abbia sventrato gli uomini!

Soccorsi

La notizia della sventura toccata a Sassari fece una dolorosa impressione in tutta l’isola. Cagliari, sovratutte, dimostrò un affetto di sorella per Sassari, e fu la prima a spedire delle somme a sollievo delle vedove e degli orfani dei colpiti dal cholera. Il marchese Roberti Sindaco di Cagliari pubblicò un manifesto facendo appello alla carità cittadina; la Gazzetta popolare aprì le sue colonne per ricevere le offerte. Il Vice Sindaco Sotgiu, in risposta mandò alla stessa Gazzetta un articolo firmato Francesco Delitala, col titolo: Il ringraziamento dei sassaresi.

Le principali offerte spedite, in ordine di data, sono le seguenti: Cagliari, in cinque volte, mandò L. 3.800; Villacidro L. 226; Collegio di S. Giuseppe di Cagliari, L. 86.35; Emigrazione italiana a Cagliari L. 50; il medico Carlevaris di Torino L. 170; Osilo L. 250; Alghero L. 50; il Duca di Vallombrosa L. 500; Iglesias L. 220; Saluzzo L. 150; Oristano L. 335; Nuoro L. 250. A tutti spedì il Municipio lettere bellissime di ringraziamento.

Anche in città si raccolsero generose offerte da privati; tantoché più tardi si poterono pagare dalle oblazioni L. 8.905.36 di spese fatte per il cholera; e L. 7.321.85 per sussidi alle vedove ed agli orfani dei cholerosi.

Il vuoto per le spese di cholera risultò di L. 112.000; e, per far fronte a’ suoi debiti, il Municipio deliberò un Ruolo straordinario d’imposte.

Durante l’ultimo trimestre del 1855 non si pensò che a ringraziare tutti gli oblatori per le somme offerte, tutte le autorità per i servizi prestati, e sovratutto rispondere alle centinaia di lettere che pervenivano continuamente da tutti i comuni dell’isola e del continente, chiedendo informazioni dei loro cari, o per affetto, o per speranza di eredità.

I sagrifizi che dovette sopportare Sassari furono immensi.

Il 1° Settembre fu sciolto il Consiglio comunale, e nominato Regio Commissario il Cav. Giuseppe Sotgiu.

Il 22 e 23 Novembre si fecero le elezioni, e nel 23 Dicembre fu nominato sindaco lo stesso G. Sotgiu.

1856. Carnevale

Il carnevale del 1856 fu uno dei più animati e chiassosi di Sassari. I superstiti del cholera pareva volessero soffocare nei febbrili divertimenti i ricordi dell’orribile strage. Il Municipio aveva con manifesto raccomandato ai cittadini di non vestire il lutto per i trapassati; e fu misura saggia, perocché non vi era in Sassari famiglia che non avesse perduto strettissimi parenti. Il 10 Febbraio vi fu in Teatro una festa da ballo a totale benefizio degli orfani dei cholerosi; il concorso fu grande, e l’introito ascese a 1.250 lire.

Ancora del Cholera

Tutto quest’anno il Municipio non si preoccupò che di rimborsare le spese fatte per l’epidemia del 1855. Si pagano con stenti e sagrifizi i medici cagliaritani, il cui onorario ascese a circa 10.000 lire. Il 31 Marzo si supplica il Ministro dell’Interno, per ottenere dal Governo un sussidio. «Se non valesse la generale desolazione del paese (si dice) valgano almeno ad accordarlo i lamenti di tanti orfani e di tante vedove derelitte». Si scrive continuamente ai comuni (fra i quali Macomer, Nuoro, Bosa, Ozieri, S. Lussurgiu, ecc.) per il rimborso di spese anticipate per medicinali e medici colà spediti; le somme dovute dai comuni ascendono a L. 40.169.16. Si fa osservare al Governo che fu troppo doloroso dover gravare i poveri cittadini del ruolo straordinario di 112.000 lire – mentre invece il Governo aveva risentito notevoli vantaggi dall’epidemia, per l’incasso considerevole e straordinario avuto dai dritti di successione, in conseguenza delle avvenute stragi.

Più tardi in seduta del 18 Giugno, fu deliberato di erigere nel Cimitero un monumento in memoria dei morti di cholera in servizio del paese.