I tempi d’Angioi – 1
• 1795. Gli Angioini di Sassari
Il partito retrivo, dopo l’assassinio del Pitzolo e de La Planargia, non si disperse. Si concentrò nel silenzio e nel mistero, e infierì con più ferocia.
La fine del Marchese della Planargia, per l’ufficio goverativo che copriva, veniva astutamente lamentata dai retrivi come oltraggio alla corona. «E così – scrive il Sulis – i feudatari, con quella sventura mantellavano la vendetta di propria casta colla devozione al re. Essi travisarono le passioni di fazione colla speciosità di affezione monarchica.
Ed eccoci a Sassari.
La maggior parte dei cittadini più notevoli, secondo Manno – ma la maggior parte del clero, della nobiltà e loro aderenti, secondo il vero – era stata avversa alle opinioni vinte in quell’anno dagli Stamenti – Essi pure si tenevano difensori della causa regia. Erano però altre le ragioni di opposizione, e prima di tutte la solita ruggine municipale tra le due città, sempre rivali. I Sassaresi soffrivano già a mala pena in tempi ordinari il primato di Cagliari, figuriamoci come potevano tollerare che un partito signoreggiante avesse colà dato loro leggi! – il Della Planargia aveva quasi tutti i parenti a Sassari; ed erano pur sassaresi per nascita, o luogo di domicilio, i tre giudici della R. Udienza, ricusati dagli Stamenti, cioè Sircana – Flores – e Fontana.
Dai fatti luttuosi di Cagliari pensarono dunque i sassaresi trar partito per tentare l’emancipazione del Capo di Sassari dal governo del Viceré – e furono in ciò appoggiati dal Ministro Conte Galli della Loggia, come vedremo in seguito.
L’Angioi intanto maturava nel segreto i suoi disegni, e pensava che per essere proficui dovevano estendersi a tutta l’isola. Non poteva in un progetto così ardito dimenticare Sassari, dove aveva compiuto i suoi studi, dove nel 1771 si era addottorato in leggi, dove aveva lasciato molti amici e aderenti, e dove ben sapeva che gli animi erano facili a lasciarsi trasportare all’entusiasmo d’una libertà, ch’altra volta aveano assaporata.
Consenziente alle sue idee ebbe molti cittadini; fra i quali davagli cautamente sua fede il Vice Intendente Generale Antonio Fois, e apertamente gli avvocati Solis, Sotgia Mundula, e Gioachino Mundula, ricchi di censo o di clienti, e coi quali erano d’accordo i medici Sini e Vidili, gli avvocati Fadda, Devilla, ed altri molti, tutti vivaci d’ingegno, pronti per la libertà ad ogni pericolo. Anche alcuni ecclesiastici della provincia sassarese parteciparono agli ascosi intendimenti fra i quali: il parroco del Comune di Florinas, Sechi Bologna; il parroco di Sennori, Aragonez; ed ardentissimo fra tutti il Murroni di Bonorva, parroco di Semestene.
• I Feudatari sassaresi
Si divulgava intanto a Sassari la voce, che l’Angioi carteggiasse segretamente col Ministro della Repubblica francese in Genova, e che avesse l’intenzione d’invitare la Francia perché ritentasse una nuova spedizione in Sardegna, dove avrebbe avuto miglior esito che la prima volta.
Se a Cagliari dovevano star celati i proponimenti dei retrivi, non era così a Sassari, dove non aveva avuto luogo alcuna sommossa popolare per mandarli a vuoto.
In Sassari dunque si raccolsero le conventicole baronali, e furono ordinate con molto senno. Quivi i feudatari seppero ampliare le proprie forze lusingando le domestiche passioni della cittadinanza, e ponendo in campo le pretensioni di Cagliari che voleva sempre tener soggetta la città di Sassari col privarla di tutto, collo spogliarla d’ogni suprema autorità governativa, a scapito di tutta la provincia – E di quest’odio si servivano i feudatari per muovere gli allucinati contro la città rivale.
Si vociferò quindi di voler formare Stamento proprio – che era «tempo di liberar Sassari dalla soggezione di Cagliari, la quale doveva assolutamente perdere ogni superiorità, perché si era macchiata del sangue dei primari uffiziali regi.
E che Cagliari, dal suo canto, si fosse mossa per odio verso i sassaresi ben ce lo dimostra la storia. Una delle colpe principali del La Planargia fu certo quella d’essere considerato come sassarese – colpa la quale non fu estranea all’assassinio. Il Mimaut, per esempio, nella sua Storia di Sardegna, stampata a Parigi nel 1825, dice, che il popolo si alzò a tumulto non appena fu informato della risposta del ministro Galli agli Stamenti per le rimostranze fatte sulla nomina (senza le dovute terne) dei tre Giudici sassaresi; nella qual nomina aveva influito il Planargia e il Pitzolo. Un pezzo grosso sassarese che creava di pianta nella Regia Udienza tre Giudici sassaresi? – non vi era dubbio si voleva togliere il bastone del comando a Cagliari!
Tutto ciò per dire al lettore, quanta parte ebbero le gare municipali nei terribili avvenimenti che afflissero la Sardegna negli ultimi anni dello scorso secolo.
La voce che i sassaresi volessero emanciparsi dai cagliaritani, rappresentati come assassini dei regi Rappresentanti, non tardò ad arrivare a Torino. La ex ministra di Granieri (una sassarese come abbiamo detto) prese impegno di cooperare per l’intrigo I moderati, così, seppero condurre dalla loro parte i risentimenti del Governo. Essi scelsero Sassari per sede della controrivoluzione. Con quest’arte i baroni speravano conservare la ricchezza dei loro feudi, il credito del partito e la stima del Governo – tre colombe ad una fava.
Per coronar l’opera i baroni fecero consulte coll’Arcivescovo Della Torre, e col Governatore Santuccio, un buon uomo che ignorava l’arte di governare, perché dedito interamente per indole – come scrive il Tola – alle pratiche di religione.
Il primo attirò a sé gran parte del Clero, e minacciò il Murroni di Semestene; ma questi partì a Cagliari e informò Angioi della trama.
Il secondo mandò un loro partigiano (l’Abate Sotgia) al Viceré inglese Elliot, in Corsica domandando rinforzo di truppe, perché in Sardegna sovrastava pericolo di sbarco francese. Allo stesso tempo informò il Viceré di Cagliari della misura presa. Immagini il lettore lo sdegno del Viceré e degli Stamenti a questa novità! – II Governatore di Sassari che trasgredisce gli ordini superiori! – tacciare i Moderatori dei destini di Cagliari di fellonia e d’occulte mene coi francesi! –
Fu questo il primo segno manifesto della disubbidienza a Cagliari. Il Viceré mandò subito un contrordine ad Elliot, ed una buona lavata di capo al Governatore Santuccio. L’ira maggiore se l’attirò l’Assessore del Magistrato di Sassari Andrea Flores (creatura della Planargia, ed uno dei tre giudici ricusati dagli Stamenti) il quale aveva promosso quell’invocazione d’aiuto straniero, mostrando una lettera anonima ricevuta da Cagliari colla data 9 Luglio 1795.
La notte del 3 Agosto si fece arrestare il Flores, per essere trasportato alle carceri di Castelsardo. Il prigioniero sostò a Sorso; e di là fu fatto fuggire da un certo Pietro Cicu, sua creatura; e riparò in Torino.
Bastò ai feudatari e loro seguaci questo fatto, perché facessero scoppiare i malumori sì a lungo trattenuti. Il Municipio di Sassari protestò. Si presentarono dal governatore i più notabili del paese, dicendo che quell’arresto sembrava foriero di altri atti arbitrari. Il Governatore si tenne nel silenzio.
Allora per cura dell’Arcivescovo e suo Clero, del Duca dell’Asinara e suoi gentiluomini, del Consiglio Comunale con diversi cittadini, si fecero Congreghe (come un’imitazione degli Stamenti) nella chiesuola di S. Giacomo, per deliberare sul da farsi.
E la deliberazione fu: di spedire a Torino un Messaggio, nel quale si esponesse non saper essi riconoscere negli ultimi fatti luttuosi di Cagliari l’autorità legittima che agisce in un governo ben ordinato; che il Viceré, approvandoli con lettere circolari, aveva mostrato che era forzato quasi ad appoggiarli, spinto da una fazione dominatrice; e che si aspettava dal re il suo parere, sulla condotta che dovevano tenere i sassaresi.
E così dai baroni s’iniziava apertamente la resistenza alle novità di Cagliari, fidando nelle macchinazioni già preparate a Torino dalla ministra.
• Il partito dei Cagliaritani
Il malcontento dei sassaresi era pervenuto a Cagliari. Gli Stamenti cercarono di calmare gli abitanti di Sassari, assicurandoli che coll’arresto del Flores non avevano voluto recar molestia agli amici ed aderenti del Planargia, ma semplicemente punire quel sinistro complice del Messaggio ad Elliot.
Il partito progressista costituivasi potente nella capitale, animato dall’abbassamento dei retrivi, dal silenzio dei moderati e dalla sfiducia del Viceré. Si aprirono a Cagliari tre club collegati ad un medesimo fine. Uno nel giardino Palabanda presieduto dall’avvocato Cadeddu, e frequentato da molti studenti; altro nel collegio dei Nobili sotto la presidenza dell’Abate Simon e frequentato da molti avvocati e dai Redattori di una Gazzetta che si pubblicava in quei tempi; il terzo, e più importante di tutti, in Casa Angioi, col quale radunavansi a segrete pratiche Musso, Sisternes, Pintor, Cabras e molti altri notabili, a cui si univano i principali uomini del partito democratico.
L’Angioi propose in ciascun braccio delle Cortes la nomina di due membri, che, riuniti col nome di Deputazione stamentaria, avessero autorità di esaminare e risolvere sugli affari, col solo obbligo d’informare gli Stamenti. Furono nominati per il Braccio militare, Musso e Ghisu; per l’Ecclesiastico Sisternes e Simon; per il Reale Pintor e Delorenzo.
L’eletto della Reale Udienza fu Angioi, che rimase così il vero padrone del governo, potendo in pari tempo avviare i suoi disegni.
Al primo tumulto di Sassari per l’arresto del Flores, i governanti di Cagliari avevano fatto pubblicare un proclama viceregio in data 9 Agosto 1795, nel quale leggevasi: «…la purità dei sentimenti degli abitanti di Sassari, le loro giuste idee del valore e necessità della buona armonia fra i due Capi, la cognizione della dipendenza dei sudditi dal governo, non possono essere state indisposte che a forza di maneggi e di raggiro. La divisione è l’unico oggetto di questi intriganti che vorrebbero metter il regno in combustione, accendendo una guerra civile. »
I baroni più autorevoli di Sassari furono accesi contro gli Stamenti, dacché ad istanza di questi, nella suddetta data, si era promulgato un invito a tutti i Sindaci e comuni delle ville infeudate (nelle quali fosse querela di esazioni signorili abusive) di ricorrere agli stessi Stamenti per ottenere sollecita giustizia.
I Gentiluomini (come Manno chiama i Feudatari) rispondevano «che Sassari, come la Capitale, era sempre stata fedele al re, ed anzi più di Cagliari, perché erano rimasti in disparte nelle vicende accadute.
L’arresto del Flores li aveva giustamente tenuti in sospetto, nonché gli scritti che circolavano per l’isola per opera degli oratori popolani cagliaritani; lo stesso Viceré, col suo invito alle ville feudali, non poteva riuscire che ad un generale e tumultuario spogliamento dei baroni; e che intanto aspettavano ordini dal re. »
La Regia Udienza chiamò questa risposta temeraria e criminosa; essa motteggiava, quasi, i gentiluomini sassaresi, per il loro arieggiare ad Assemblea di Stamento, immemori già di averne in altri tempi avuto formale disinganno. Voleva perciò proporre, che il Duca dell’Asinara fosse mandato a società più quieta nei suoi feudi, e fossero pur banditi da Sassari i consiglieri di quella risposta; e gli Stamenti finirono per querelarsi altamente col sovrano della condotta dei Sassaresi. E non basta. Negli stessi Stamenti si fece una scherzosa dipintura – dice il Manno – del Canonico Simon, al quale era toccato leggere la risposta dei sassaresi fra i lazzi beffardi dell’adunanza – E così, fra la politica, facevano sempre capolino i soliti dispetti di campanile.
Se il proclama del Viceré aveva indisposto i Baroni, aveva prodotto buon effetto nella maggior parte dei sassaresi; perché, sapendosi fuori di pericolo, si tolsero dall’animo le persuasioni contrarie suggerite dai baroni. Profittò Angioi della buona occasione, e influenzando sull’animo del Viceré, riuscì a nominare, come Membri aggiunti del Magistrato della Real Governazione di Sassari, due suoi amici, gli Avvocati Solis e Sotgia Mundula, partigiani della causa cagliaritana, i quali entrarono in carica il 17 dello stesso mese di Agosto.
Capo degli oppositori, a Sassari, era l’Avvocato Gioacchino Mundula, dovizioso per censo, e d’indole libera e focosa. All’epoca della invasione francese era stato partigiano imprudente degli invasori, e trascorse tant’oltre nelle lodi per la repubblica e negli auguri per il suo trionfo, che fu arrestato e messo in carcere. Liberatosi, perseverò nelle sue opinioni, ed essendo in quel tempo capitano dei barrancelli, preparava le armi in aiuto della rivoluzione, che contava seguaci non pochi e non spregevoli.
Questo Mundula, dunque, nella lettera diretta agli Stamenti, diceva: che scarso era il numero di coloro che avevano sottoscritto il memoriale mandato a Torino; e che il vero popolo era avverso alla indipendenza messa in campo dal partito dei baroni.
• Sassari senza Cagliari
Il re Vittorio Amedeo aveva intanto risposto: – che il Governatore di Sassari era stato colpevole di leggerezza, ma non meritava la rampogna fattagli; che i reclami dei sassaresi meritavano riguardo, e che proponeva si dasse loro appagamento, autorizzando il Governatore a sospendere l’eseguimento di qualunque ordine del Viceré, per il bene e la giustizia pubblica; e ringraziava in ultimo i sassaresi per l’obbedienza e attaccamento alla sua persona.
Grandi feste fecero a Sassari i feudatari ed il clero, (primi fra i quali l’Arcivescovo e il Duca dell’Asinara) per questa risposta, della quale fecero fare migliaia di copie a mano.
Le Congreghe di San Giacomo divennero più numerose del passato.
Ivi, con apparato più solenne e con più frequenza di nobili e d’ecclesiastici, si formulò altro memoriale al re, chiedendo addirittura l’assoluta separazione di Sassari da Cagliari, e domandando pronto soccorso di truppe regie contro la Capitale dell’isola.
Nel Municipio però (in seduta del 18 Settembre) sorse caloroso dissidio per l’approvazione del detto memoriale. Una parte dei consiglieri d’allora fu irremovibile al rifiuto, qualificando la decisione come una provocazione di guerra civile; e questi Consiglieri furono, Raimondo Cevaco, Luigi Palomba, Raimondo Branca Mela. L’altra parte invece votarono per il si – e furono, Giuseppe Abozzi, Gavino Cossu, Simone Canu, Giuseppe Pais, insieme al Sindaco nobile Martinez.
Prevalsero gli ultimi, e il memoriale fu mandato al re.
Non è a dire il rumore per la città per siffatte cose. Un senso di orrorevole ripugnanza alle enormezze incivili si fece scorgere nel popolo sassarese, anche in quell’appassionato tumulto di desideri e propensioni.
La petizione suddetta si accettava con gioia palese nella Chiesa di San Giacomo, e con dissidio nel Municipio.
La moltitudine popolare trovò modo di esternare la sua opinione in mezzo a quelli strani propositi. Il 19 stesso mese, un altro memoriale fu redatto colla firma di ben 240 cittadini; nel quale, senza punto chiedere la politica separazione da Cagliari con quel voto fratricida, si supplicava il re perché concedesse al Magistrato sassarese indipendente giurisdizione. «Ciò per far notare che non tutti i sassaresi perdevano il senno scapestrando nelle congiure baronali.
Quell’indipendenza da Cagliari, agitò non poco gli Stamenti. Non tardarono ad apparire i primi frutti delle opere dei nostri feudatari; e primo di tutti l’inimicizia tra le plebi delle due città rivali. I merciaiuoli sassaresi si scacciarono da Cagliari con ingiurie e insolenze; e i supposti spiatori cagliaritani si cercavano in Sassari con minacciosa diligenza. L’ira andò tant’oltre, che a Cagliari si negò la merce a un certo Stefano Leoni, recatosi colà per comperare mille ettolitri di grano per la sofferente annona sassarese. Queste iniquità favoreggiavano le declamazioni dei feudatari, che ne usavano per meglio persuadere l’odio contro la Capitale.
• I baroni s’inteneriscono
Gioacchino Mundula, intanto, correva per le vie di Sassari con un pane smilzo fra le mani, già cresciuto di prezzo e menomato di peso; e di più andava eccitandole classi povere, afflitte pur anco dal difetto e dal caro degli alloggi, insinuando essere i nobili ed il Clero (possidenti dei fabbricati nella città) gli angariatori che non permettevano ai poveri di fabbricare case nei sobborghi – e questo era verissimo, come vedremo in altra parte del nostro libro.
Come vedesi, erano botte e risposte; ognuno cercava di tirar l’acqua al proprio molino. Feudatari e Democratici cercavano guadagnarsi l’affezione popolare per farne strumento ai fini loro.
Il Clero e la Nobiltà, sentite le grida del Mundula e le mormorazioni della popolazione perle case – e forse conoscendo in coscienza che non avevano torto – essi stessi, di spontanea volontà, si recarono alla Casa Comunale, e là stesso distesero un atto solenne, dando il permesso di fabbricare. E non basta. I baroni dimoranti a Cagliari, per combattere i sassaresi con autorità viceregia, pubblicavano una circolare in cui dicevano, che volendo lasciare ai posteri una prova del loro amor patrio, e della sollecitudine che avevano per il bene dei loro vassalli, bandivano di voler sospendere spontanei la riscossione di tutte le rendite feudali che si mostrassero soggette a ragionevole controversia; i vassalli, però, dovevano essere uniti alla causa della capitale, e dovevano difenderla contro ai sinistri suggerimenti di quelli ostinati sassaresi, i quali, sebbene in poco numero, perfidiavano sempre nella loro disubbidienza.
E qui prego nuovamente il lettore di notare quanto erano inaspriti gli animi per il proprio campanile! I Baroni cagliaritani inveivano contro i baroni sassaresi, senza pur avvedersi che pregiudicavano la causa comune.
«Intanto – dice Manno – se Stamenti, Viceré e Baroni, associati contro Baroni, mettevano la mano su quella piaga antica degli abusi feudali, non è a meravigliarsi se i piagati prorompessero, aizzati, ad opere violente. »
• Il Duca dell’Asinara
I feudatari dell’isola riconoscevano per capo in Sassari (dove avevano raccolte le forze, le arti e le speranze tutte della fazione) Antonio Manca; Duca dell’Asinara e Vallombrosa, a degno di tal primato – scrive il Sulis – per vastità di feudi, per tenacità di imperio, per abitudine d’orgoglio, per spensieratezza di vita. »
«Ricco del reddito di 150 mila lire, teneva i vassalli per parte abbietta dei domini; in città accoppiava le mostre di larga generosità a capricci continui d’umore bislacco. Ora vuotava la borsa in limosine beneficentissime, or niegava ad un suo figlio chiamato Alberto Manca i primi soccorsi della vita; dimodoché il Viceré, compassionando quel gentiluomo, lo raccomandava al ministro con apposito dispaccio in data 18 Ottobre 96, perché vedesse egli di persuadere il Duca ad essere padre – Ora al Segretario lacerava le bozze delle lettere ripetendo l’atto dispettoso ad ogni nuova correzione che quegli sperimentava: e quando il poveruomo trafelato e vergognoso rientrava a casa sua, vi giungeva un ricco regalo dall’accigliato signore. Ora faceva, all’alba, porre dal servidorume a rumore la contrada dov’era il ducale palazzo, ordinando picchiassero forte alle porte tutte; e quando quei cittadini si facevano ai balconi per sapere che fosse, trovava ciascuno di essi in sulla propria porta un puledro insellato che il Duca regalava.
«Usava egli andare a diporto, massimamente nella primavera, per i villaggi di sue baronie; dappertutto aveva casa arredata e lusso grande; si dilettava di caccie, e là nei suoi boschi, ov’era più fiorito il terreno e più folta la selva, poneva il desco – In una di quelle sue frequenti gite, fermatosi pel pranzo, ordinava ad un suo vassallo nominato Sebastiano Babecca di stendersi a terra, in modo che del corpo facesse arco, e pretendeva usare così di lui per comodità di seggio. Assentiva quegli col capo; e, snudando il coltello da caccia, lo abbassò sull’impugnatura al suolo, e accennando col dito alla punta rilucente, gli disse: «ecco fatto: Duca, sedete su questa!». Il comando brutale dimostra l’esorbitanza del feudalismo schifosa, ingiuriosissima; e la risposta del popolano prova che nei sardi, se si sentiva l’umiliazione delle imposte violenze, si serbava il proposito di ribellarvisi.
E se volessi scrivere le somiglianti superbie degli altri feudatari ben il potrei, giacché rari erano fra essi coloro che non impazzassero di orgoglio e non precipitassero ad ingiustizie. Locchè tutto era effetto dell’ozio, e della ignoranza di quella disutile nobiltà che delle tradizioni guerresche dei propri antenati, avea solo ereditato l’arroganza della parola e gli atti scomposti e tracotanti. Era codesto un tal vizio, e così necessario al sistema, che in Europa allora solamente cadde, quando il feudalismo si distrusse, o per impeto di rivoluzione popolare, o per sagacità di governi forti e civili».
Così il Sulis; ma e pur giustizia confessare, che, se in molte parti d’Europa la burbanza dei feudatari dava nella ferocia, in Sardegna, se non altro, era meno feroce che in qualunque altra parte.
I barbari atti del feudalismo, che vedo registrati qua e là nella storia di diversi popoli, non li riscontro nella storia del popolo sardo. Ben s’intenda, io parlo in generale; ché in quanto a signorotti prepotenti e tiranni ne abbiamo avuto in ognitempo anche noi; e forse più che a loro benignità, devesi lo scarso numero alla fierezza dei vassalli, i quali, non troppo facilmente si lasciarono maltrattare.
Quanto poi al Duca dell’Asinara, mi risulta, che era l’uomo più originale che esistesse sulla terra; e, se mi fosse lecito esporre una mia opinione, direi che egli era più un matto da legare, che un tristissimo soggetto. L’ atto suo più feroce, fu in occasione del supplizio del Cilocco, come vedremo più tardi.
Come giudicate voi un uomo che non può dormire la notte; e che manda i suoi servi a svegliare di soprassalto tutti i vicini che dormono; per poi regalar loro un cavallo, quando spaventati si affacciano in camicia alla finestra?
Dai libri esistenti nell’Archivio comunale si desume, che il Duca dell’Asinara era sempre il primo ad offrire danari al Municipio, quando questo ne aveva bisogno; ben s’intende senza alcun compenso. Lo abbiamo veduto occuparsi sempre delle cose del paese. Fu lui che nella sommossa dell’80 ristaurò a sue spese l’orologio e il campanile della Casa comunale, danneggiati dal popolo; – fu lui che faceva riverniciare, o rifare la faccia ai Santi che si portavano in processione, quando li vedeva in cattivo stato; lui che somministrava frumento a tenue prezzo, quando in Sassari vi era penuria di pane – Però aveva un animo volubilissimo! – Soccorreva spesso gli infelici; ma quando vedeva uomini contenti, cercava invece tutti i mezzi per turbare la loro pace. Aveva qualche cosa del Francesco Cenci, uscito dalla penna di Guerrazzi. Era un misto di grandi vizi e di grandi virtù; di munificenza e di pitoccheria, di magnanimità e di ferocia – un gran matto da legare, lo ripeto.
Per darvi un’idea di questo Duca, mi basterà riportare, fra le altre, una lettera scritta il 5 Agosto 1794 dal Municipio a Don Antonio Foys, Alternos del Magistrato della Reale Udienza.
«Avendo il Signor Duca dell’Asinara, il giorno 31 ora scorso Luglio, nell’atrio di sua casa, in presenza del cavallante Antonio Francesco Ricciu, del di lui fratello Vincenzo, di Carlo Barneri e di molti altri, parlato con grave discredito del magistrato Civico, facendo sentire di aver venduto gran quantità di grano alla città per benefizio del pubblico a L. 13 il rasiere; e che, se esso Duca fosse stato Capo Consigliere non sarebbe mancato al popolo sassarese pane e grano a buon prezzo, e ciò in seguito ad altra parlata che fece la notte del 24 suddetto mese per la strada, mentre andava a casa dell’Ill. Fois dicendo: che i Consiglieri meritavano essere tutti carcerati per la loro trascuraggine; quando invece non è vero aver egli venduto alla Città veruna partita di grano, sebbene con parole e per iscritto sia stato più volte eccitato ed interpellato; e altronde i Consiglieri si hanno dato tutti movimento, e non mancano di continuare collo stesso zelo ed impegno ad interessarsi perché il pubblico sia provvisto dei viveri necessari alla sussistenza.
E siccome tali parlate in pubblico potrebbero facilmente, nelle attuali circostanze, produrre funesti incovenienti, crediamo necessario renderne informata la V.S., affinchè lasci le opportune provvidenze per conservarsi il decoro conveniente alla Città, e non spargersi nel pubblico voci tendenti a far comparire negligente il Civico Magistrato.
« – Firmata dai Consiglieri: Avv. Giuseppe Luigi Usai – Don G. B. Martinez – Avv. D. Antonio Sircana – Proto Pitalis – Not. Giuseppe Ferru – e Simone Cossu». Capite ? Il Duca, forse, aveva avuto parole col Civico Magistrato; e si vendicava, aizzando con calunnie il popolo, perché inveisse contro i padri della patria!
Ne volete un’altra? Il Duca avanzava dal Municipio un residuo dei 1.500 scudi, prestatigli graziosamente fin dal 1795, per supplire alle sue strettezze. Avendo egli forse qualche motivo di rancore col Municipio e volendo riavere il suo danaro, scrive direttamente al Re nel dicembre del 1798; e questi, per mezzo del Viceré di Cagliari, obbliga il Comune di Sassari a sborsare al Duca la somma dovuta, autorizzando a farsela prestare dal Capitolo Turritano, se non l’avesse in cassa. Il Municipio risponde che non ha soldi, e che non può chiederne al Capitolo… perché glie ne deve già troppi!
Non vedete voi in tutto questo un maneggio del Duca per mortificare il Municipio in faccia al Re, al Viceré ed al Capitolo di Sassari?
Rimarrebbe ancora a raccontarvi qualche aneddoto di donne, ma me ne astengo per molti riguardi. Sappiate solo, che, in fatto di avventure galanti, il Duca era molto forte, e parecchie volte corse seri rischi, avendo messo gli occhi su qualche fanciulla di onesta famiglia.
• Baroni contro Baroni
Se Stamenti, Viceré, e Baroni, associati contro Baroni, mettevano la mano sulla piaga del feudalismo, potete ben immaginare che cosa facessero i vassalli! – Approfittavano dell’occasione… e come! Essi prorompevano in opere violente.
Il Conte d’Ittiri, fra gli altri, si lamentava dei danni cagionati nelle sue terre dai propri vassalli, i quali avevano rovesciato muri, atterrato piante, fatto bottino di ogni cosa, e, per di più, cacciatone l’ufficiale di Giustizia.
E Cagliari esultava. Per aizzare maggiormente i vassalli, furono pubblicate scritture incendiarie contro i feudi, esortando tutti i Comuni perché si rifiutassero di pagare le imposte ai Baroni.
Giunta a Sassari tal notizia, fu ordinato si stampasse un pregone che condannasse gli autori di quelle scritture; e siccome in esse si diceva che il Governo di Cagliari acconsentiva all’emancipazione feudale, si proibì di accettare alcun ordine dalla R. Udienza, o dal Viceré, e di tutto sospendere sinché provvedesse in proposito il Governatore di Sassari.
Si voleva, ad ogni costo, l’indipendenza assoluta. Gli Stamenti ne gioivano, come di un trionfo – d’una vittoria.
• I tre Commissari
Il Viceré, con un bando, fulminò il Pregone della Governazione di Sassari, e mandò in giro tre Commissari cagliaritani, perché di curia in curia pubblicassero quelle nuove disposizioni. – Anzi, per fare un dispetto a Sassari, il Viceré ordinò si togliessero da questa città i danari, come già si era tentato di toglierle il frumento. Fu disposto che le somme dei tributi, che prima si versavano nella R. Tesoreria di Sassari, fossero invece versate in quella di Cagliari.
Fin dal 28 Luglio, in Thiesi, Florinas, Siligo, Ploaghe, Borutta, Bonnanaro, Giave, Pozzomaggiore, Nughedu, si tumultuava con concordia di quei terrazzani, i quali rifiutavano di pagare le imposte feudali.
E gioiva Angioi di quella commozione popolare contro i feudatari, sperando così soverchiare le congiure politiche dei baroni sassaresi.
I tre Commissari (Cav. Falchi, Notaio Antonio Manca e Francesco Cilocco) inasprivano maggiormente i vassalli, aizzandoli contro i baroni con promesse di patrocinio; ognuno pensava a scuotere il giogo del feudalismo, e si cominciò sin d’allora a stringere relazione tra paese e paese.
Le ville componenti il Marchesato di Montemaggiore, (appartenenti al Duca dell’Asinara, indirizzatore principale della resistenza sassarese) eransi raccolte in parlamento comune, ed avevano fatto sagramento nelle mani di un pubblico notaio, di far congiurare tutte le provincie sassaresi contro ai baroni, e contro il Governo di Sassari. L’atto fu sottoscritto da 113 persone.
E gli Stamenti facevano sempre festa!
• Nuova ambasciata
Mentre gli Angioini andavano a gonfie vele, un gruppo del partito cagliaritano cominciò a dubitare delle intenzioni dei democratici; non vedevano troppo di buon occhio la predilezione del Governo di Torino per i sassaresi; e temendo qualche pericolo per l’avvenire, pensarono che sarebbe stato prudente mandare una solenne ambasciata al re, per ottenere il perdono delle due emozioni popolari dell’Aprile1794, e del Luglio 1795, e per ribattere sempre sulle famose cinque domande, a cui si era risposto picche nel 1793.
E per maggior sicurezza stabilirono di implorare la mediazione del Papa.
La maggioranza degli Stamenti accettò la proposta – l’Angioi finì per approvarla, credendola di nessun frutto – e fu nominato per unico ambasciatore a Roma ed a Torino l’Arcivescovo di Cagliari, Melano.
Il 28 Settembre, con grande apparato, imbarcavasi il Melano. Per ben sette giorni, però, i venti soffiarono contrari; e in quei giorni fu visto l’avv. Cabras conferire con frequenza coll’Arcivescovo, senza che nessuno pensasse al male; eppure – scrive il Sulis – in quei segreti colloqui gettavasi il primo seme che doveva fruttare i tradimenti per la caduta della libertà.
Il 5 Ottobre il vento era favorevole – e l’Arcivescovo Ambasciatore uscì dal porto di Cagliari.
Ed ora lasciamo il Melano in mare, e riprendiamo il silo degli avvenimenti.
• Mundula lavora
In Sassari vi era molta commozione per tutti questi fatti. Il Governatore, temendo che l’affluenza degli scolari provenienti dai villaggi non fosse eccitamento a qualche violento tentativo, voleva chiudere l’Università; ma il Viceré si oppose vivamente, e ordinò che le Scuole rimanessero aperte.
Lo stesso Governatore tentò persino di arrestare il Mundula, capo del partito avverso – ma il Viceré lo avvertì che ciò non facesse.
Si avvide il Mundula che in Sassari non era sicuro; allora pensò di consigliarsi coll’Angioi, e si recò a Cagliari, dove si ebbe una lieta accoglienza; anzi, si fece una funzione religiosa in onore di Sant’Efisio e di San Gavino, come un suggello di pace fra sassaresi e cagliaritani.
Di ritorno da Cagliari, in compagnia dell’avvocato Gavino Fadda, Gioachino Mundula si fermò a Semestene per conferire col parroco Murroni, nella cui casa era provvista d’armi e munizioni. Indi, nottetempo, rientrò in Sassari segretamente, e s’incamminò alla casa del negoziante Raimondo Murru, dove si radunarono gli amici per farvi le ultime consulte. « – Si deliberò si desse mano all’esecuzione delle cose, in Cagliari già ordinatesi; non s’indugiass più oltre a distruggere il feudalismo, principale impedimento della libertà; in appresso potrebbe la Diva salire sul proprio altare a ricevervi gli omaggi dei sardi, che così, ricuperando la dignità di uomini franchi, sarebbero riconosciuti, e, come fratelli, difesi dalla grande nazione francese che aveva assunto il civile apostolato di liberare il mondo dalla tirannide.
«Le concitate parole, le presunzioni di gioventù, la fede nelle rivoluzionarie dottrine commovevano la notturna congrega. Si giurò di lasciare la vita anziché il proposito audace; e, dopo gli amplessi, taciti si separarono tutti. – Il Mundula, non osservato, uscì da Sassari, protestando, che allora patria sua la direbbe, quando le sue armi liberata l’avrebbero dagli attuali ospiti – i Baroni – ».
• Si marcia contro Sassari
I tre commissari intanto accendevano la mente dei popolani; il grido di guerra si levò dappertutto; si unirono villaggi a villaggi; masse armate si fusero insieme e rivolsero il primo loro pensiero a Sassari, come a città nemica di ogni libertà.
A Thiesi avevano preso di mira il palazzo feudale, e lo avevano distrutto; e anche oggidì se ne vedono i ruderi.
Il cagliaritano Cilocco, uomo di smisurato ardire e di ugual fede per Angioi, e il Mundula, vedendo la moltitudine volonterosa del ricupero delle comunali franchigie, divisarono radunare tanta forza che bastasse a vincere le forze baronali. Furono visti, allora, sorgere animosi banditori, fra i quali non pochi sacerdoti, e ricchi possidenti che davano aiuto d’armi e di danaro. I vecchi aizzavano i giovani; sui monti, nelle case, nelle capanne, tutto era movimento. Le parole erano: non s’indugiasse, troppo essere le iniquità del servaggio feudale – le armi comuni si rivolgessero a Sassari, per distruggerla.
Il 27 Dicembre 1795, mossero tutti, guidati dal Mundula e dal Cilocco, dalle terre fra Florinas e Cargeghe, e si diressero a Sassari.
All’albeggiare del 28, altra compagnia d’armati, a piedi e a cavallo, circondarono i due conduttori, domandando loro di occupare la città.
Anche delle donne erano venute con loro, per seguire i loro cari o per assistere alla santa impresa. – Vi erano armati venuti da Osilo, Sorso, Sennori, Usini, Tissi, Ossi, Mores, Sedilo, Uri, Ploaghe, ed altri villaggi. Le relazioni ufficiali fanno ascendere quella moltitudine al numero di 13.000; ma il Manno lo crede esagerato, e lo limita a 3.000 uomini, circa.
Quelle turbe d’armati, nel loro passaggio, fecero molti guasti. Atterrarono ulivi, devastarono orti e vigne, e sfogarono l’ira sopra i poderi e le case dei feudatari, o loro aderenti.
Nella notte del 27 dicembre, alquanta cavalleria sostava dinanzi a Sassari. Cinquecento miliziani d’Osilo occuparono l’oliveto detto dell’Osteria vecchia, di fianco al Castello. – Il Mundula e il Cilocco assegnarono a ciascuna compagnia il luogo d’azione, disponendo i combattenti di contro ad ogni porta della città. Per loro avevano scelto il Convento di Sant’Agostino, come quartiere generale.
Era stato comandato agli insorti di non assalire; e ciò perché il Mundula aspettava che i suoi aderenti, che si trovavano entro Sassari, si movessero.
• Il primo attacco
Veniamo ora agli assediati.
Nella mattina del 28 dicembre le provvigioni della difesa erano scarse. Sulle torri si erano disposti alcuni pezzi di minuta artiglieria, già fuori d’uso. Francesco Manca, Luigi Delmestre e Domenico Ignazio Quesada davano ordini il meglio che potevano, ed erano riusciti a ritirare dentro città il deposito delle polveri che era fuori delle mura. Chiuse tutte le Porte, e disposti sulle mura i pochi soldati di presidio e le milizie introdotte in città dai fratelli Manca d’Osilo, dal Sanna di Padria, dal Lombardo e il Derosas di Sedini, i Baroni di Sassari si preparavano alla difesa. La truppa era fedele – ma i cittadini sassaresi, divisi in partiti diversi, parevano piuttosto poco caldi di quell’attacco.
Assedianti ed assediati stettero alcun tempo guardandosi, come due cani ringhiosi. Finalmente verso le cinque del mattino, dalla torre di Porta Macello e dal terrazzo dell’Arcivescovado, posto a cavaliere delle mura prospicienti a Sant’Agostino, si cominciò il fuoco.
Furono botte e risposte. Gli assedianti spianavano i loro fucili contro i muri, ma quei di Sassari facevano piovere le palle sul folto della moltitudine, talché il combattimento fu più micidiale per le schiere del Mundula e del Cilocco.
Il fuoco durò due ore; e gli assalitori perdettero 18 individui, oltre quelli morti in seguito alle ferite. Il Manno invece ne registra soli 12 fra morti e feriti. Gli assalitori ebbero, un fanciullo morto – un brigadiere dei Dragoni mortalmente ferito – ed un soldato del Reggimento di Sardegna ferito leggermente.
Nota il Manno, che fra la gente sassarese, vi era chi scherzava come di un assalto giocoso, e non pensava che ai propri affari; – i zappatori poi, seccati di quella scaramuccia, gridavano, in mezzo agli spari, che si aprisse loro le porte perché volevano recarsi alle campagne per lavorare. – Questo fatto è probabilissimo, perché è della natura dei sassaresi motteggiare su tutto, anche in mezzo al pericolo. Però è assai più verosimile l’asserzione del Sulis, il quale dice, che i partigiani del Mundula, i quali si trovavano dentro città, erano intenti ad aprire un varco agli assalitori; e che, per ottener ciò, seppero indurre i zappatori a schiamazzare, perché si aprissero le porte, col pretesto che premeva loro recarsi al lavoro.
• Sassari cede
Tanto il Governatore di Sassari, Santuccio, impressionato dalle grida dei zappatori e dal timore d’una sanguinosa occupazione, quanto il Fois, proposero la sommessione.
Fu tenuto consiglio, e il Santuccio decise di venire a parlamento cogli assalitori. Si fece sventolare una bandiera bianca sulla torre di Porta Nuova, e il fuoco cessò all’istante.
La scelta dei parlamentari cadde sull’ Avv. Francesco Cascara, sull’aiutante di piazza Santino e sul Fois; i quali, alle 10, uscirono da Porta Nuova, diretti al quartiere generale, dove chiesero del Mundula e del Cilocco, ai quali domandarono con quale autorità si presentavano a Sassari, e che cosa volessero. Noi siamo Commissari del Viceré – risposero quelli – e vogliamo ristabilire in Sassari l’ordine legale.
Per patto della cessazione delle ostilità, il Cilocco e il Mundula chiedevano prigionieri l’Arcivescovo, il Governatore, l’Assessore De Quesada e l’Avvocato fiscale Belly, i principali disconoscilori dei viceregi comandi sulla questione delle cose feudali.
Dopo una breve discussione si convenne nelle seguenti condizioni:
- Le dette persone rimanessero in potere dei Commissari.
- Si abolissero i pregoni e tutti gli altri provvedimenti presi dal Governatore dopo il 29 Agosto.
- Dovessero dalla città uscire tutti i miliziani chiamativi per la difesa.
- Si pubblicasse il pregone viceregio del 25 Ottobre e le circolari sì della R. Udienza che degli Stamenti.
- Si aprissero le porte ai Commissari ed alla loro scorta, i quali provvederebbero alle cose del governo.
- Le proprietà e le persone dei cittadini sarebbero rispettate.
- I Commissari licezierebbero le squadre per evitare che i poderi del territorio fossero manomessi.
Ritornarono pertanto i parlamentari con tali risposte. Il Governatore, prima di darsi prigioniero, voleva aspettare direttamente gli ordini dal Viceré; ma i Commissari non accettarono, per non scuoprire il loro artifizio – avendo essi messo innanzi il nome del Viceré per afforzare la loro missione.
Verso la sera fu deciso, finalmente, di cedere; e, primo di tutti l’Arcivescovo disse, che per impedire le uccisioni trovava giusto di offrire la sua persona. – II Governatore, incoraggiato, seguì ben tosto il suo esempio; ma così non fu del Belly e del Quesada, i quali in quel momento non stettero ad esaminare la fede data. Appena saputa la risposta dai Parlamentari, essi se la diedero a gambe, e quando li cercarono, Dio sa quanto cammino avevano fatto. I poveretti, quella notte, avevano forse sognato l’Intendente Pitzolo e il Generale La Planargia!
Di comune accordo fu designato il mattino seguente per il ritiro dei prigionieri e per la consegna della piazza.
Quanto ai Baroni ad ai feudatari non stettero un momento in forse.
Supplicarono un asilo per i conventi, o in modeste case di borghesi, i quali li nascosero per un po’ di tempo, e li trassero poi fuori di città. Il capo di essi, Duca dell’Asinara, si nascose prima nella casa del notaio Gavino Cossu, e poco dopo uscì da Sassari travestito da contadino, e riparò nell’isola dell’Asinara. Scrive il Sulis, che il Duca «ivi giunto, a beffe quasi dell’ospitalità trovata, donava ad un Giovanni Cabezza, che primo lo ricoverava, 25 centesimi. Era burbanza di padrone che stando in suo feudo credeva dovutogli l’ossequio e la salute? Era avarizia di costume villano? Capriccioso era il Duca, né gli abiti della vita smetteva in tanto avvenimento.
• Si occupa la città
Gli insorgenti ottenevano piena vittoria; e nel poco tempo che stettero all’opera, alloggiarono qua e là, sparsi e fuor d’ordine. A sfogo d’ira rovinarono i tenimenti dei proprietari e non ascoltavano la voce dei capi, i quali non potevano ottenere la disciplina. In poche parole, il loro contegno non fu troppo lodevole.
Gli stessi Mundula e Cilocco stavano con poca guardia, e poco mancò non soccombessero.
La sera del 28 Dicembre, conchiuso l’accordo, mentre se ne stavano con soli sei compagni nel Quartiere di Sant’Agostino, essi furono sorpresi da una squadra di 40 uomini che uscirono da Porta Nuova guidati dai fratelli Luigi e Giovanni Manca. I due capi fecero in tempo a rinforzare le porte e a far resistenza coi fucili spianati. Per buona ventura accorsero numerosi Miliziani – e i Manca allora trovarono il pretesto d’esser venuti come amici. Per ogni precauzione, però, furono fatti accompagnare da una buona scorta fino al convento di Santa Maria.
Altra squadra armata, guidata dai Cav. Delitala, Quesada e Quesada Piras, giunse da un’altra parte, dicendo pur essi che venivano per unirsi al campo. Tanto tenerume non era però naturale a quell’ora tarda, epperò dopo averli disarmati furono messi in osservazione.
La mattina del 29 Dicembre si aprirono le porte, si tolsero i cannoni e la città fu occupata dal Mundula.
I miliziani non trassero in licenza. Quando i due Commissari entrarono per la porta Castello, seguiti dalle squadre, trovarono nella piazza (nel Corso) i Dragoni capitanati dal Cav. Stefano Manca, ai quali comandarono semplicemente di cedere le armi.
Allora furono poste alcune milizie di Osilo a custodia della Casa Comunale e delle Carceri, e i Miliziani di Sorso e di Sennori a guardia del paese. Ciò fatto, promulgarono con gran pompa e solennità i Pregoni e le Circolari cagliaritane.
Mutarono pure la civica amministrazione, dando lo scambio ai consiglieri che nel passato Settembre avevano votato il Memoriale della separazione di Cagliari da Sassari.
Il comando militare fu dato a Giacinto Barletti, tenente de’ Barraccelli, di cui Mundula era capitano – badando sempre che gli uffìzi rimanessero in potere di persone di schietta fede di partito. Un Giambattista Bottino ebbe la direzione delle poste, in sostituzione di un certo Mora, accusato di essere un disuggellatore di lettere.
Nell’occupazione della città di Sassari non furono commesse violenze; anzi, i capi, si adoprarono per frenare l’altrui impeto.
Il 30 Dicembre fu invaso dai vassalli del Duca il suo palazzo, dicendo che volevano rifarsi dei danni sofferti. Il Cilocco e il Mundula proibirono quell’eccesso, minacciosamente; e, vedute vane le loro esortazioni, chiamarono l’ex brigadiere dei cessati Dragoni, partigiano angioino, il quale, con 45 uomini riuscì a salvare le masserizie del Duca, che depositarono per sicurezza nella Tesoreria di Cagliari.
Vedremo con quanta generosità, il Duca dell’Asinara, ricompensò il povero Cilocco nel 1802!
Il Governatore Santuccio, fin dal giorno precedente, si era messo a disposizione dei Commissari; ma così non fu dell’Arcivescovo, che pure si era offerto per il primo. Egli stette nell’Episcopio, e per arrestarlo fu mandata una compagnia di armati, sotto il comando del giovine sassarese medico Gaspare Sini.
• L’Arcivescovo e Gaspare Sini
E qui non possiamo fare a meno di riportare le parole di Sulis, a proposito del Sini e dell’Arcivescovo. È un triste e commovente episodio.
«Gaspare Sini era figlio di un antico cameriere di Monsignor della Torre (l’Arcivescovo) ed era stato allevato e cresciuto con amorevole cura dal detto prelato. Le rivoluzionarie dottrine avevano nel giovanile di lui animo vinto le episcopali carezze e quel sentimento di affettuosa intimità e riverenza dovuta alle domestiche ricordanze di tanta parte di sua adolescenza e susseguente età; da gran tempo quindi non era più entrato nella casa vescovile ad ossequiarvi il suo secondo padre!
«L’Arcivescovo, nel vederselo ora dinanzi, gli rimproverò acerbissimamente l’ingratitudine somma, e finì col dirgli, piangendo, che pur troppo verrebbe il giorno in cui pagherebbe il fio di essa.
«Il giovane ai rimproveri stette saldo, giacché fieramente reputava doversi gli interessi della patria anteporre a qualunque altro affetto. Ma quando vide che le lagrime nel vescovo soffocavano gli sdegni e le riprensioni, sentì fortissima commozione, e chinando il capo, soffusa di rossore la faccia, protestò esser venuto più a far le parti di difensore che di guardiano di monsignore, ricordare i benefizi ricevuti, dolergli che le necessità attuali l’obbligassero ad ufficio di tanta crudele apparenza; aveva però dato il cuore, i pensieri, la vita alle libertà del suo paese: -questo comandare l’arresto di monsignore; ed egli quindi eseguirlo; ma non temesse, essere di persona garante, che nessun danno patirebbe.
«E in così dire, con mani tremolanti, cinse al braccio del prigioniero una rossa benda a segno di cattività, ed accennò sospirando ai seguaci che si abbandonasse quel palazzo, ove le memorie del passato sorgevangli contro minacciose ed accusatrici!
«Giacinto della Torre fu condotto al quartiere generale dei Commissari
«Il vaticinio suo di sangue si dovette rappresentare alla stanca mente di Giacomo Sini, nel fatal giorno 21 Aprile 1797, allorché menavasi al patibolo come ribelle. In quel giorno, con coraggiosa rassegnazione morendo, egli confermò che a Monsignore aveva parlato ilvero, quando gli diceva di avere alla patria fatto dono di tutti i suoi amori. »
• I due prigionieri
I Commissari intanto volgevano la mente ad eventi di più importanza – Il Mundula persuase il Cilocco affinchè approfittando dell’entusiasmo delle squadre, scegliendo le migliori, si andasse a Cagliari col pretesto di accompagnarvi l’Arcivescovo ed il Governatore; ed unendo alle proprie milizie i puri democratici della capitale sarebbe facile il disperdere colà gli ultimi avanzi dell’autorità regia, e compiere la rivoluzione. Nel Mundula, cittadino sassarese, sempre desideroso della repubblica, ben anche agiva la fede in Angioi che sapeva di uguali idee – e forse era lo stesso Angioi che aveva dato al Mundula il piano da seguire.
Rompendo dunque l’indugio, egli lasciò l’autorità suprema in Sassari all’Intendente Fois; e nel mezzodì del 31 Dicembre 1795, con molta cavalleria di miliziani e co’ suoi intimi Cilocco, Avv. Gavino Fadda e Gaspare Sini partì per Cagliari, col pretesto di accompagnare i due prigionieri: l’Arcivescovo e il Governatore.
• 1796. Viaggio dei prigionieri
Il Governatore di Alghero aveva spedito un Corriere al Viceré di Cagliari per informarlo dei fatti di Sassari. II Vivalda ne fu atterrito e ne informò subito gli Stamenti.
Le allegrezze dei democratici per i fatti di Sassari furono vivissime.
Temendo che la fuga dei vinti baroni togliesse alla parte nemica la forza ed il prestigio; e sicuri che l’Angioi dominasse in Cagliari, concordemente agli altri capi fazione, si conchiuse non doversi più oltre indugiare a proclamare nella capitale la repubblica.
In proposito scrive il Sulis: « – Per quanto esagerate appaiano quelle opinioni, pure nel Gennaio del 1796 tenevano seco molta autorità ed efficacia. Anzi noi crediamo che se a Cagliari fossero stati nei termini antichi di concordia gli uomini che con Angioi avevano operato per lo passato, di certo accadeva il mutamento in repubblica senzachè resistenza potessero opporre né gli officiali regi caduti di fama e di potere, né la nobiltà discorde negli affetti politici, atterrita dai recenti e dai presenti infortuni, né le Cortes, impotenti ormai ad atti propri e vigorosi di governo. – »
Gioachino Mundula cogli amici suoi, e con le squadre, si dirigeva a Cagliari, studiando scorciatoie per arrivarvi d’improvviso.
Il 4 Gennaio un corriere viceregio lo raggiungeva in Oristano coll’ordine dell’immediata liberazione dei prigionieri e il licenziamento delle squadre.
Il Mundula trattenne il corriere e proseguì per Cagliari.
A Uras trovò il canonico Ledà, Musso e Pintor, come messaggeri del Viceré e degli Stamenti; ma il Mundula sempre impassibile andava innanzi senza ascoltare alcuno.
Nel giorno successivo, a Sardara, egli s’incontrò di nuovo coi suddetti messaggeri, seguiti da alquanta cavalleria e dragoni, venuti a spron battuto da Cagliari; ma tenne il muso duro; anzi questa volta minacciò di usare la forza se non gli si sgombrava il cammino.
Il Pintor, uno dei messaggeeri, con denaro e buone parole, riuscì a far tornare indietro, a Sassari, una parte del seguito – E dire che il Musso e il Pintor avevano finallora tenuto coll’Angioi! Le ragioni del loro tentennamento le abbiamo esposte, e le vedremo anche in seguito.
Il Cilocco ed il Mundula, vedendosi indeboliti di forze, determinarono di lasciare i due prigionieri nel villaggio di Uta, in un convento di cappuccini, a due ore distante da Cagliari. E i Commissari, con poche schiere entrarono nella Capitale con molta soddisfazione del Pintor, che era riuscito a mandare a monte i disegni dei democratici.
Il Viceré fu molto scontento per essersi adoperato il suo nome in quell’arresto; ma il Mundula e il Cilocco risposero di aver fatto ciò per rendere più disciplinati i miliziani.
Viceré e Stamenti cercarono di rendere meno grave possibile quel fatto, e fecero trattare i due prigionieri con tutti i riguardi dovuti al loro grado – Cominciarono a pentirsi…, e lasciarono gli altri nell’impiccio!
• A Cagliari si ondeggia
In Cagliari, come abbiamo veduto, era avvenuta qualche mutazione. Molti capi della parte democratica si erano scostati dall’Angioi, temendo di aver troppo trasceso.
Cominciarono a considerare che per far dispetto a Sassari avevano troppo inveito contro i baroni; e aspettavano impazienti il ritorno dell’ambasciatore Arcivescovo Melano, per conoscere la risposta del re e del papa, a cui si erano rivolti per ottenere il perdono dei peccati e l’esaudimento delle famose cinque domande, fra cui quella degli impieghi.
Il Melano – come abbiamo detto – aveva sedotto l’avv. Cabras, il Cabras aveva persuaso il suo genero Pintor e il cognato Tiragallo e questi due avevano tirato con loro gli amici e molti aderenti.
Insomma, si contava sul re; e, sperando nei benefizi, molti tentennavano.
L’Angioi si trovò quasi isolato.
– In poche parole: a Cagliari era nata la prima idea della nova libertà: Cagliari aveva invitato i sassaresi a condividerla, e i sassaresi risposero all’appello insorgendo contro ai baroni – I partigiani di Cagliari però, poco per volta si ritirarono e cambiarono registro, e fra questi Cabras, Pintor, Musso, e persino lo stesso Vincenzo Sulis.
A Sassari invece gli angioini stettero saldi; essi persistettero nel santo proponimento, e suggellarono sul patibolo l’idea della libertà.
• Angioi Alternos
Le cose erano già molto sul tirato, eppure Angioi non dava ancor mano all’ultima prova. Perché ciò? – O egli temeva di perder tutto con una mossa troppo ardita, o voleva indugiare per conoscere quanto fossero i traditori, il cui numero ben sapeva dipendere dalla soluzione delle pratiche dell’Arcivescovo ambasciatore colle Corti di Roma e di Torino. La setta pendeva dall’opera diplomatica di Monsignor Melano.
L’ostacolo maggiore si riponeva dai moderati nella presenza dì Angioi a Cagliari; per la quale (scrive il Sulis) i democratici puri ricevevano conforto – i timidi incoraggiamento – i dubbiosi eccitamento – i disertori paura.
Cabras e Pintor, già un tempo con Pitzolo, poi con Angioi, ed ora contro quest’ultimo, coll’aiuto del canonico Sisternes (che si fingeva amico e tradì invece Angioi) stabilirono di disfarsi di lui.
Scemata così in Cagliari la sua possanza, il partito doveva menomarsi; e se poi Angioi si ribellava, tanto meglio, potevano combatterlo da lontano.
E per allontanarlo gli proposero che compisse colle forme legali ciò che le armi popolane avevano operato nel Capo settentrionale dell’isola contro il feudalismo; e per ottener ciò gli avrebbero fatto ottener dai liberali un grado supremo giudiziario e politico. Gli fecero intendere, che, se molti a Cagliari sembravano freddi e quasi contrari, lo erano solo perché non avevano troppa fede nella durata delle cose di Sassari. Andasse egli dunque colà; ché se le sorti feudali (grande sussidio alla monarchia) fossero legalmente depresse, l’organamento rivoluzionario sarebbe stato compiuto.
Conchiudeva il Sisternes con offerirgli la carica suprema di Alternos nelle provincie sassaresi; cioè a dire, gli si dava l’autorità del Viceré e del Magistrato Supremo della R. Udienza.
Si aveva, in fondo, paura della presenza in Cagliari dell’Angioi, e lo si voleva allontanare. Il dilemma era questo: – o l’Angioi Alternos riusciva a calmare gli insorti contro il feudalismo; e allora si raggiungeva lo scopo, ottenendo la quiete desiderata per meritare la grazia sovrana; – o Angioi Alternos fomentava i malumori e si smascherava, e allora i nemici potevano combatterlo facilmente cone ribelle.
Dopo molte perplessità l’Angioi accettava la carica, poiché fatti i conti, la trovò favorevole ai suoi disegni – Il Manno dice che Angioi accettò, cioè cadde nella ragna, abbagliato dalla splendida sua missione; ma egli invece ben sapeva a quanto si esponeva; non fu l’ambizione che l’acciecò – furono le circostanze mutate che lo consigliarono a tentare l’ardito colpo.
Negli ultimi giorni di gennaio gli fu concesso l’ufficio di Alternos, con voto unanime degli Stamenti, del Viceré e del Magistrato Supremo.
I moderati intanto carezzarono l’Arcivescovo di Sassari (già prigioniero di Mundula) che si era ricoverato nel convento degli agostiniani di Cagliari; ed egli, nipote del Melano, scrisse allo zio una lettera in data del 27 gennaio, nella quale, confessando i suoi errori di Sassari, univa le sue preghiere al Re, perché insieme al perdono venissero esaudite le domande dei privilegi, come unico mezzo adottante per dare la pace al regno, e per formare stabilmente nell’avvenire la sua gloria e la sua fedeltà.
Pochi giorni dopo – il 5 febbraio – Stamenti e Viceré compilarono una relazione ufficiale sui fatti di Sassari, scritta con sottigliezza e con arte, nella quale si dava ogni colpa ai baroni.
E intanto, il 13 Febbraio 1796, partiva da Cagliari Angioi, accompagnato sino alle porte della città da moltissimi cittadini e dai molti Giuda che lo avevano tradito.
• Viaggio d’Angioi
L’Alternos Giammaria Angioi, montato su d’un brioso cavallo, usciva dalla città di Cagliari. Durante il lungo viaggio egli ebbe festevoli accoglienze; più inoltrava, e più si persuadeva della tendenza delle popolazioni. Egli gioiva in cuor suo di un buon esito, che riteneva come certo. Protestava sempre in pubblico, che non bastava vincere la tirannide baronale, ma bisognava distruggerla.
Diceva che l’impresa era difficile per la tenacità dei baroni, per i molti loro fautori dentro e fuori città, ed anche per la sicurtà stessa dei popoli che dopo la vittoria di Sassari credevano finita ogni guerra…
I più gli protestavano ubbidienza e sagrifizio; alcuni lo esortavano a procedere con prudenza; non pochi gli professavano ammirazione in parole, tenendogli rancore nell’animo. I più cauti e i simulatori erano coloro, che vivendo dai salari del Governo o dei feudi, si confortavano colle domestiche comodità, che non volevan perdere. I popolani, e gli uomini di ricco censo e indipendenti, amavano la redenzione politica.
Fino ad Oristano, finse sempre e dissimulò. Mano mano, però, che s’inoltrava nel Logudoro, il suo discorso era più aperto. La sua parola si apprendeva ratta al cuore dei popolani; e come più si avvicinava a Sassari, più crescevano le schiere dei plaudenti seguaci.
Fu accolto con grandi feste a Sindia, e a Semestene, dov’era caloroso partigiano della libertà feudale il parroco Murroni, e dove lo raggiunsero molti notabili di Bosa, Padria, Mores, Osilo ed altri villaggi.
Al pendio di Androliga trovò schierata la cavalleria di Bonorva, fronteggiata da un drappello di Dragoni inviatogli all’incontro da Sassari. Colà gara di acclamazioni, scoppio di archibugi, e gli evviva ad Angioi rigeneratore della patria, ecc. ecc.
Le stesse feste e lo stesso trattamento si ebbe a Florinas, dove il parroco Sechi Bologna, angioino, avevagli apprestato solenni dimostrazioni.
• Arrivo d’Angioi
Il 28 Febbraio 1798, seguito da oltre mille cavalieri, l’Alternos Angioi entrò in Sassari, dopo sedici giorni di marcia, prolungata ad arte per escogitare l’animo delle popolazioni,e per infiammare i cuori.
A Sassari l’accoglienza fu schietta di liberalismo, e fanatica; perocché, fugati i Baroni, l’elemento democratico dominava. Tutti correvano incontro ad Angioi; per le vie era un’onda di popolo; alle finestre erano moltissime signore. Il grido generale era: – Abbasso i nobili! – abbasso i preti! Viva Angioi, viva la libertà, viva la Repubblica!
E Angioi, entrato per la Porta di S. Antonio, saliva per la piazza (il Corso) «Sfavillando dagli occhi gli affetti dell’animo, procedeva tra la calca a passo lento, a capo scoperto, col sorriso sul labbro, colle mani alto levate per saluto. Sebbene non fosse egli aitante della persona, tutta essa pareva sollevata pel piglio audace, cui aggiungeva grazia un mantello di saio rosso a grandi bavari di gallone dorato che dalle spalle drappeggiava sulla cavalcatura. »
Smontava alla gradinata del Duomo – dove i Canonici in divisa gli vennero innanzi per inchinarlo e benedirlo, dandogli a toccare l’aspersorio, e cantandogli l’Inno Ambrosiano.
Dopo la preghiera riducevasi alla casa dello zio, Canonico Arras.
E la campana della Casa Comunale suonava in quel momento a festa.
«Il Castello Aragonese – scrive il Sulis – colle sue torri, esisteva ancora nel Febbraio del 1796; ed era memoria di servitù. Ma esisteva del pari il palagio del comune col vasto atrio, convegno dei liberi comizi. La campana che ora suonava a distesa, era la medesima ai cui rintocchi si univano le popolari assemblee; memorie tutte di libertà.
Sassari dunque ripigliava in quel giorno le aspirazioni antiche; e i cittadini, o sel sapessero, o che il sentissero, ripudiando colle fervorose voci i nemici della rivoluzione novella, la inauguravano col grido degli avi loro. »
• Angioi in Sassari
Angioi fu soddisfatto dei sassaresi per l’accoglienza ricevuta, la quale sorpassava ogni sua aspettazione. Egli però si trovò imbarazzato, dovendo rappresentare due parti in commedia, la parte cioè, di Ufficiale del Governo, e quella di Capo partito.
Approfittando del generale entusiasmo, Angioi forse avrebbe voluto gettar la maschera, ma lo sconsigliarono nel suo proposito le notizie da lui ricevute da Torino in quello stesso giorno 28 Febbraio. La relazione dei fatti di Sassari, pervenuta a Torino dal Console di Livorno, prima che dagli Stamenti, aveva indisposto il Gabinetto, e fatto rompere le pratiche ben avviate da Monsignor Melano – Angioi continuò a fingere, per lasciar maturare il fallimento di quell’ambasciata sulla quale fidavano i suoi avversari.
Pensò intanto di riordinare le cose in Sassari. Istituì compagnie di militi, eleggendo a Colonnello il proprio cognato Rubatta – a capitani i medici Sini e Vidili e gli avvocati Fadda e Devilla – a maggiore e a luogotenente colonnello i fratelli Cav. Diego e Giorgio Scardaccio.
Di più ricompose il Magistrato della R. Governazione nominando a membri i suoi intimi Solis, Sotgia Mundula e Avv. Domenico Pinna, ritenendo per sé la presidenza.
Angioi fece sì, che nelle ville del Logudoro si celebrasse un atto di federazione, in data 10 Aprile, il quale, soverchiando i confini della materia feudale, si ampliò a novità politica sino allora dissimulata.
Le condizioni della Lega furono, che i confederati dovevano mettere vita e sostanza per impedire la feudale ristorazione, e che, né esattori, né giusdicenti, né altri ministri da baroni eletti ad officio, si riconoscerebbero più mai.
Ai baroni il Governo provvedesse, assegnando loro giusti compensi a spese dei Comuni, in ragione dei dritti della primitiva investitura antica.
Alla detta Confederazione si ricusarono i comuni di Nulvi e di Sedini, già accorsi in addietro a Sassari per difendere i baroni. In questi villaggi sorsero ire e contese di sangue – né il feroce esempio fu imitato da nessun’altra villa, quantunque i baroni soffiassero sempre per accendere le ire.
E i partigiani dell’Angioi non stavano colle mani in mano. Essi erano tutti intenti ad affratellare quanti villaggi potevano. A tutti sovrastava il parroco di Semestene, Murroni: – in piazza, nelle vie, dal pulpito, predicava sempre la crociata feudale.