Sassari Piemontese

• 1852. I Sassaresi e i bersaglieri

Il ricordo dell’anno 1852 non si cancellerà mai dall’animo dei sassaresi, e sarà sempre trasmesso di generazione in generazione per i fatti luttuosi che lo hanno consacrato alla storia. Poche altre notizie daremo in quest’anno, e in buona parte del seguente 1853; tutte sono state assorbite dalla rissa fra cittadini e bersaglieri, e dal seguìto stato d’assedio. Avendo questi fatti una certa importanza, ci dilungheremo più del solito.

• Il vero principio

Non nelle relazioni sui fatti del ‘52 spedite al Governo da tutte le autorità civili e militari; non nella discussione della Camera, dov’ebbe luogo un’interpellanza; non nello svolgimento del lungo processo tenuto alla Corte d’Appello di Cagliari, venne fatta menzione delle prime origini della famosa rissa fra i bersaglieri e i cittadini di Sassari. Al Governo fu dipinta come una ribellione di carattere politico; come un attentato alle autorità costituite la presentò il Pubblico Ministero; tutti ne riconobbero l’origine nel frivolo incidente avvenuto al ballo del mercoledì grasso in teatro; ma nessuno, coscienziosamente, risalì al di là del 18 febbraio 1852.
Con la scorta dei libri del Comune che contengono le lettere scritte dal sindaco ad autorità e privati, dimostrerò al lettore la vera origine di questi fatti; la quale, in primo luogo, vuol essere ricercata nella prepotenza dei militari che in quel tempo si mandavano di guarnigione a Sassari, e nella suscettibilità e amor proprio della recente Guardia Nazionale, presa sempre di mira dalla truppa con l’arma del ridicolo. Naturalmente, gli interessati d’ambi partiti – come al solito – maneggiarono in tutti i modi gli eventi, travisandoli, e facendoli convergere a proprio vantaggio e a scapito dell’avversario; quindi, repubblica e clericalismo dovevano sempre entrare dappertutto – per amore, o per forza!
Quattro anni prima si era quasi accusato Antonico Satta di ribellione al Governo costituito, perché in una seduta del Circolo Nazionale aveva proposto un voto allo stesso Governo per mandar via da Sassari i Cacciatori Franchi; e non si pensava allora, che sin dal 1842 (sei anni prima che il Satta arrivasse a Sassari) il Municipio incaricava con ampia forma lo stesso Arcivescovo Varesini perché ottenesse dal Governo il cambio della guarnigione dei Franchi, con altra che inspirasse maggior fiducia al paese.
I malumori contro i modi ruvidi dei Franchi si mantennero sempre vivi nella popolazione, e il Municipio ebbe più volte a farne reclamo alle autorità militari e civili. Si organizzò intanto la Guardia Nazionale nel 1849; i cittadini andavano a gara per appartenervi, e si mostravano orgogliosi della tutela loro affidata dell’ordine e sicurezza pubblica del paese. Si è veduto com’erano gelosi della loro istituzione, e come tenevano a mantenerla con decoro. Tutti gli altri Corpi di guarnigione avevano sempre addimostrato una specie di avversione alla Guardia Nazionale; o, per meglio dire, la guardavano con disprezzo, e se ne ridevano apertamente – in modo che i militi cittadini ne rimanevano feriti nell’amor proprio. Alla truppa regolare sapeva di puerile quel Corpo sorto come un fungo, con ufficiali improvvisati, che comandavano come Dio voleva, e venivano ubbiditi come voleva il diavolo; essa non poteva abituarsi a prendere sul serio certe teorie – e da ciò le ruggini e i malumori.
Vennero i bersaglieri, i quali non erano diversi dagli altri. Giovani, ardenti, un po’ spavaldi, perché appartenenti ad un Corpo che era considerato come il beniamino dell’esercito fin dal 1836 in cui Alessandro Lamarmora lo aveva creato, essi nel complesso si mostravano anche più intolleranti dei Cacciatori Franchi, E difatti si sapeva che dovunque avevano provocato disordini col loro carattere focoso, irrequieto: a Ozieri, a Nuoro, a Olzai, e nello stesso anno a Genova, dov’erano stati presi a sassate dalla popolazione.
L’11 di luglio 1849, il Municipio di Sassari scriveva lettera ai Capitani dei due battaglioni di Guardia Nazionale, pregandoli che facessero scambiare i saluti cogli ufficiali della truppa; il Governatore, alla sua volta, scriveva altrettanto al comandante dei Bersaglieri e degli altri Corpi. – Da ciò si possono arguire i bronci reciproci; si trattavano come i bambini! Prego il lettore di prendere atto di queste scappellate, che contenevano il microbio della rivoluzione del ‘52!
La sera del 20 gennaio 1850 (due anni prima della rissa!) alcuni militi della Guardia Nazionale s’intromettono per il buon ordine in un alterco che nacque in Piazza Castello, fra maschere e smascherati. Piombano cavalleggieri e franchi, e dicono, che mantenere il buon ordine è di loro competenza; ne nasce uno scontro scandaloso, e i Franchi arrestano addirittura il milite nazionale ch’era accorso per arrestare gli altri. II Municipio, indignato, manda all’Intendente un ricorso deplorando il fatto e chiedendo provvedimenti, poiché vuole la legge e la politica che l’Arma regia mantenga indissolubile fratellanza con la Nazionale – Dopo due giorni (il 23) il Municipio torna a scrivere per la scarcerazione del suo milite, e dice: «Io non mi farò a ripetere alla S. V. come tali procedimenti illegali e ingiusti alimentino sempre più quella ruggine che, fervida una volta, è oggi sopita fra cittadini e certa Arma… Le dirò, che il fatto ha indignato gli animi di tutti i cittadini; anche il Colonnello Capo Legione è indignato, e me ne scrive». Noti il lettore questo periodo, preludio già di tempesta.
Il 23 giugno 1831 (un anno prima della rissa) il Municipio informa l’Intendente, che un milite nazionale veniva molestato dalla pattuglia dei bersaglieri con parole d’irrisione e di minaccia. Gli espone il fatto premendogli doversi conoscere dalle Autorità, dei fatti che potrebbero dar luogo a gravi disgusti – Tutti questi ricorsi sono fatti dal Sindaco, in nome del Consiglio; ed il Municipio non era certo composto di repubblicani che volessero minare il Governo costituito!
Ho voluto dare queste poche notizie che precedono il ‘53, perché di esse non si è fatta mai menzione da alcuno, tanto nei rapporti ufficiali, quanto nelle discussioni alla Camera e dalla Corte d’Appello.
Prima di esporre i fatti genuini che diedero luogo alla famosa rissa del ‘52, e che risultano dal processo, io accennerò alla verissima origine della rissa, non menzionata da alcuno, per riguardi che di leggieri si possono immaginare. Sono anzi spiacente di non poter entrare in particolari perché dovrei far nomi – e non lo voglio. Posso solamente garantire che la storiella è vera, e rivelatami da persona molto addentro nei segreti di essa.

• La donna

Purtroppo è destino che la fragile e seducente figlia d’Eva debba entrare dappertutto, per suscitare dal modesto suo ritiro quella prima scintilla, a cui si devono i grandi e i piccoli incendi dell’umanità.
Trovavasi a Sassari una distinta signora forestiera, moglie ad alto funzionario; era bella, istruita, capricciosa; un insieme fra la gran dama e la grande artista; aveva molto spirito, parlava bene, scriveva meglio e montava a cavallo come un’amazzone. Molti mosconi svolazzavano intorno a questa dama, andando a gara per offrirle gli omaggi d’una corte spietata; gli ufficiali dei bersaglieri, fra gli altri, erano i più fidi ammiratori della dea, e si recavano con frequenza in sua casa, dove si teneva serale conversazione. Fra i più ardenti, e si diceva anche fra i più preferiti, erano il maggiore dei bersaglieri e l’Avvocato Fiscale.
Insomma, trattavasi di un gruppo di forestieri, solidali tutti fra loro, i quali scartavano imprudentemente quei del paese. Ciò suonava un po’ male fra i giovani (qualcuno dei quali aspirava anche alle grazie della bella forestiera) e non potendo forse prendere il sopravvento, ne provarono dispetto e gelosia.
Nella conversazione si davano ben spesso delle tirate a questo e a quello… e la dama rideva. Il riso di una dama ferisce più d’un coltello; e allora alquanti giovani pensarono vendicarsi, fondando segretamente un giornaletto manoscritto, di cui si distribuivano qua e là una mezza dozzina di copie, principalmente nel Caffè Longiave. Vi si parlava di tutto con un certo umorismo, e si facevano allusioni alla conversazione della dama, ponendo con arte in rilievo qualche fatterello o peripezia che accadeva fra le pareti dell’elegante sala, dove non mancava qualche deluso appassionato, che per dispetto faceva la parte di cronista di gabinetto. Gli ufficiali tutti, e segnatamente il Maggiore e l’Avvocato Fiscale, erano idrofobi. Trattandosi che la dama aveva un marito, a cui le tirate giornalistiche potevano far aprire gli occhi, la cosa seccava; quindi ire, congiure contro gli anonimi giornalisti del paese, i quali continuavano le allusioni. Si seppe finalmente che fra i giovani scrittori, spensierati ed allegri, ve n’erano parecchi appartenenti, come uffìcialotti, alla Milizia Nazionale; quindi odio contro l’intiero Corpo della Guardia cittadina, col quale vi era antica ruggine, come ho già detto. – Da ciò gli accentuati litigi, da ciò i dissapori e gli attriti. Si era in tempo di pace, gli ufficiali bersaglieri volevano mostrare la loro bravura alla bella Dulcinea, e quindi donchisciottate per dritto e per traverso – L’Avvocato Fiscale protesse i suoi compatriotti ed amici bersaglieri – e da ciò la vera origine dei fatti accaduti, l’animosa parzialità del Fisco nell’istruttoria, ecc. ecc. Taccio gli altri addentellati amorosi, le gelosie per le prime donne e per le coriste del teatro, le quali non furono estranee allo svolgimento della rissa drammatica.

• Fra le danze

Si era in carnevale – un carnevale allegro, vivace, chiassoso, qual è quello di Sassari. La sera del 18 febbraio – il mercoledì grasso – aveva luogo la solita festa da ballo nel Teatro Civico. I sassaresi erano allora, più che adesso, gelosi del loro carnevale; e tenevano molto alla eleganza, all’ordine, alla proprietà dei quattro o cinque balli che si davano al Teatro, e specialmente a quello cosiddetto del mercoledì.
Vi si andava con l’abito a coda di rondine, con cravatta e guanti bianchi e con la più scrupolosa compostezza. – Ciò bisogna premettere, poiché mal riuscirebbe a darsi ragione delle pretese ed esigenze dei regolamenti teatrali chi volesse raffrontare i balli del Civico di Sassari con i soliti veglioni che sogliono aver luogo nei teatri d’altre città.
Alla milizia nazionale, sin dalla sua creazione, era stata affidata la sorveglianza e la polizia interna del teatro, durante le feste da ballo.
 Fra le consuetudini più radicate era quella che nessuno potesse stare a testa coperta durante la danza; e ciò per il decoro della sala e per rispetto alle signore che, senza maschera, scendevano dai palchi in platea, per far parte delle quadriglie. E questa consuetudine era stata tradotta in un articolo di regolamento (affisso in teatro) il quale prescriveva a tutti di togliersi il cappello, o il berretto, quando l’orchestra annunziava il ballo.
Tutta l’ufficialità dei diversi Corpi non mancava mai a tali feste; e le godevano tutte, conversando qua e là con le signore, o ballando.
La notte di quel mercoledì gli ufficiali erano in buon numero. Un certo Bergalli – giovane ufficiale dei Bersaglieri – forse per distrazione, forse per far dispetto, forse per partito preso, se ne stava là, in mezzo alla sala, col cappello in testa, mentre gli altri ballavano. L’avvocato Mureddu (giovane di 24 anni) a cui in quella notte spettava il turno di servizio come Capitano della Guardia Nazionale, dopo aver aspettato un bel pezzo che l’ufficiale si togliesse il cappello chiamò finalmente un suo milite, e lo incaricò di presentarsi al Bergalli per richiamarlo gentilmente all’osservanza del regolamento. L’ufficiale dei bersaglieri, a cui il milite fece l’ambasciata, si strinse nelle spalle, e per tre volte non diè retta all’avvertimento. Il milite, impazientito, gli disse che ne avrebbe fatto rapporto al suo capitano. Il Bergalli, un po’ piccato, si volse ad altro ufficiale che aveva vicino e si lasciò scappare: – Guardia! Guardia di sepoltura! per domarla ci vorrebbe Radetschi!». Erano i soliti epiteti che correvano sulla bocca della truppa in odio ai poveri militi cittadini.
Terminato il ballo il Mureddu si abboccò col Bergalli per fargli capire che non si aveva intenzione di offenderlo, e per fargli noto che l’ordine che gli si dava era scritto là, in un pubblico manifesto. Tra i due vi fu scambio vivace di parole, e pare che il Mureddu siasi lasciato sfuggire ch’era in dritto ed in dovere di far mandare in arresti il violatore dei regolamenti, ove lo avesse voluto. Vi fu un po’ di battibecco, ma tutto finì lì.
L’incidente però fece il giro del teatro, e produsse un po’ di mormorazione e di malcontento negli astanti, ritenendolo come uno sfregio fatto alla festa da ballo; così pure fra i bersaglieri si notò un certo malumore, non potendo essi soffrire di venir richiamati al dovere da una Guardia borghese!
Tre giorni dopo (il 21) il sindaco comunicava all’Intendente il rapporto del Capitano Mureddu contro il Bergalli; però, volendo forse risparmiargli una punizione, lo scusava. Egli scrisse: «Il sottoscritto può coscienziosamente asserire che il Bergalli non si rese inobbidiente, ma rispose soltanto alle eccedenti parole del milite».

• Intermezzo

All’indomani, 19, la notizia si commentò, ma non se ne fece gran chiasso; solamente accadde un piccolo incidente nel Caffè Longiave, dove si trovavano il Capitano Mureddu e il milite del teatro. Entrati nel Caffè il Bergalli in compagnia d’altro ufficiale, il primo parlava ad alta voce, con insolenti allusioni e battendo al pavimento lo squadrone, con aria di minaccia. Si parlò cosi di sfide, ed il milite si lasciò scappare tra il serio e la burletta: io l’accetterei al fucile! E il Bergalli a voce alta: che sfide! ci vogliono schiaffi! – e uscirono dal caffè con malagrazia, battendo a terra le sciabole, sfoderandole per metà, e mormorando: Guardia! Guardia!
La mattina del 20 il colonnello della Guardia Nazionale, Francesco Porcellana, s’incontrò in piazza col maggiore dei bersaglieri Saint Pierre, e si mostrò dolente dei fatti accaduti in Teatro; gli disse che, anche ammessa l’imprudenza del capitano Mureddu, era conveniente adoprarsi per estinguere i rancori, ed evitare discordie fra militi e soldati. Il maggiore si mostrò un po’ duro, e gli rispose serio: – le cose non sono ancora finite!
Si continuarono per altri due giorni le dicerie; da una parte ufficialotti spavaldi che volevano ad ogni costo far delle scene – dall’altra qualche imprudente che andava esagerando l’incidente e pronunciava parole tutt’altro che concilianti. Gli ufficiali dei Corpi pareva avessero fatto causa comune – naturalmente volevano difendere il compagno, parendo loro una umiliazione od una vigliaccheria lo stigmatizzare un atto scortese. E il tutto per un berretto!

• Di nuovo al ballo

Il 22 febbraio le sale del teatro si aprivano per il ballo dell’ultima domenica di carnevale. Il Teatro era affollato; un chiaccherìo piacevole di maschere si faceva udire per i palchi e per la platea. La contraddanza era incominciata.
Verso le 10 e mezza comparvero in teatro dieci o dodici ufficiali dell’11° Casale, che, tutti in corpo, si posero in circolo in mezzo al teatro avvolti nei loro mantelli. Nel regolamento non era menzione del mantello; quelli ufficiali non erano in contravvenzione, ma si capì subito dal pubblico che trattavasi d’una sfida, d’un’insolenza che non faceva onore all’esercito, in una sala piena di signore. Si osservò, si deplorò quell’atto sconveniente, ma si tacque. Dopo un poco gli ufficiali si ritirarono in massa, forse dolenti di non essere stati provocati.
Verso la mezzanotte si notò un ufficiale di Casale – il Farnaca – che teneva il berretto in testa mentre si ballava. Un ufficiale della guardia nazionale – il Senno – si accostò a lui e lo pregò di toglierselo; l’ufficiale se lo toglieva un momento per poi rimetterselo, e così per un pezzo. Il sindaco Deliperi, il vice sindaco Apostoli, e il Senno s’intromisero, e scambiarono alcune risentite parole con diversi ufficiali dei bersaglieri e di Casale; ma il Farnaca non voleva sentirne e dava in escandescenze. Accorse allora in platea il maggiore Saint Pierre, e rivolto all’ufficiale, con tono autorevole, gli ordinò di togliersi il berretto: – lo comando io! – E il Farnacca a voce alta rispose: – al maggiore obbedisco! – e si tolse finalmente il berretto.
Quasi nello stesso punto l’ufficiale Senno, a poca distanza dall’ingresso, apostrofava un basso ufficiale dei bersaglieri perché teneva il berretto in testa. Allora un capitano dei bersaglieri (Ratti) si affacciò al palco n. 1 di prima fila a dritta, e gridò a voce alta al Senno, che non era quello il modo di maltrattare un sottoufficiale dandogli del voi.
A questo punto in teatro vi fu un tal baccano e scompiglio che si dovette sospendere la contraddanza; e dal loggione si udì una voce imperiosa gridare: fuori! fuori!
Gli ufficiali piantarono la quadriglia, gridarono siamo all’ordine, e salirono nei palchi per cingere le spade. Molti altri graduati gridavano: fuori nen, fuori nen! E il maggiore Saint Pierre, piantandosi in mezzo alla platea esclamò: Chi grida fuori ? Non si uscirà!
Il Sindaco e tutti gli altri imposero a voce alta il silenzio, e alcune voci dirette al loggione dissero: – tacete imbecilli! (caglièddivi tonti!) E volendo proprio finirla, il Sindaco Deliperi, in presenza degli ufficiali dei bersaglieri e di Casale, ordinò ai militi della Nazionale di sgombrare la sala e di ritirarsi nel corpo di guardia; ciò che fecero, molto indispettiti, e minacciando di andarsene a casa per l’umiliazione ingiusta che si faceva loro subire. Più tardi il Sindaco li calmò, persuadendoli di aver ciò fatto per misure di prudenza.
Il tumulto cessò; ma poco dopo un ufficiale dei bersaglieri si piantò in mezzo alla sala con la spada al fianco; un altro stava sotto l’orchestra col berretto in testa, che gli si dovette far togliere per mezzo di una guardia civica; un terzo, il Farnacca, continuava a strepitare qua e là, ritornando sull’incidente… Si usò prudenza, il ballo fu ripreso, e in teatro continuò a regnare lo spasso e il buonumore.

• Risentimenti

Dietro l’incidente della domenica, si levò un bisbiglio nella popolazione. Era stata una vera provocazione quella degli ufficiali! – essi volevano misurarsi con la Nazionale! – era impossibile che per tenere un cappello in testa si facesse tanta opposizione! Queste voci correvano di qua e di là per il Corso, mentre le maschere si divertivano.1 militi della Guardia Nazionale non facevano che dolersi del Sindaco per averli cacciati dalla sala, e non condividevano la prudenza usata, tutta in loro scapito.
Gli animi erano concitati: non si sapevano spiegare certe cose; si mormorava del sindaco, dei nobili, e di molti altri, perché pareva che essi si fossero schierati coi bersaglieri che frequentavano le loro case, i loro palchi.
Per fatalità, nella notte del 23, alcuni bersaglieri si erano introdotti per forza in una casa in via Bordello vecchio, e non contenti di aver insultato con parolacce madre e figlia, scambiandole per donne di mal affare, avevano con un urto gettato a terra la povera vecchia. Anche questo fatto contribuì ad accrescere il malumore in tutti, ma specialmente nel popolo.
Si temeva una nuova dimostrazione nell’ultimo ballo del martedì grasso; e allora il Sindaco, fin dalla mattina del 24, scriveva all’Intendente: « – Onde scansare qualunque sinistro incontro, a misure preventive della pubblica tranquillità minacciata per alcuni fatti avvenuti, nei quali il sottoscritto non avrebbe a lodare la prudenza della Guarnigione, si prega far conoscere al Comandante delle armi della Piazza, che resta proibito stanotte, alla festa da ballo, l’uso del cappotto nella sala del teatro, com’è proibito durante i balli rimanervi a testa coperta».
Fatalità però volle, che non si dovesse aspettare la notte ed il ballo per veder rinnovate le provocazioni e le insolenze!

• La vigilia delle Ceneri

Era il 24 febbraio – l’ultimo giorno di carnevale. Una pazza allegria regnava per la città; da piazza Castello sino a Campo di Carra era un vero saliscendi di persone di ogni genere, d’ogni specie; frotte di donne e d’uomini in maschera, a braccetto, con strumenti musicali, con sonagli, timpani, sboccavano da tutte le vie; si urlava, si schiamazzava, si gettava confetti a questo e a quello, e i passanti inciampavano nello sciame di monelli che seguivano le maschere. Era un saluto frenetico che si dava al carnevale, il quale non aveva che poche ore di vita.
Mentre la maggior parte dei sassaresi si riversava in piazza Castello, in piazza S. Catterina e sul Corso, nel quartiere di S. Appollinare, in una via remota, accadeva un futile diverbio, che doveva essere l’esca per ridestare in Sassari una seconda notte di S. Bartolomeo.
Verso le tre di sera due soldati bersaglieri, noncuranti della festa, si erano recati, a bevere il litro, nel primo piano della casa di certo Fioca, posta in S. Elisabetta, dove le due sorelle Meloni vendevano del vino bianco. Uno di essi, seduto al tavolo, non abbandonò il bicchiere e la bottiglia; l’altro, alquanto brillo, si tenne sempre alla finestra dando la baia a quanti passavano, uomini o donne, mascherati o non; alle donne in particolare rivolgeva parole assai sconcie, e diceva di conoscerle, perché con esse aveva avuto da fare dietro la chiesa di S. Nicola.
I passanti levavano la testa, guardavano il bersagliere, e tiravano oltre, immaginando di che si trattava. Venne, fra gli altri, la volta di tre o quattro giovani artigiani, i quali passarono sotto la finestra discorrendo fra loro. Il bersagliere li chiamò, e li invitò a salire per bevere.
– Approfittane tu, or che ci sei! – risposero ridendo i giovani; e il soldato a loro: – andate dunque alla malora!
E i quattro artigiani si mossero per andare, quando il bersagliere li richiamò, e con la mano fece lor segno di fermarsi un momento, che sarebbe disceso a dir loro una parola.
Lasciata la finestra, e sceso nella via, il bersagliere si fece loro incontro; e, dopo scambiate alcune vive parole, si avventò loro, snudando la daga e gridando: sardi molenti!
Gli artigiani, vedendo quella daga minacciosa levata sul loro capo, si gettarono sul bersagliere e gliela tolsero di mano. A tal vista, una delle sorelle Meloni, che stava alla finestra, rientrò in casa spaventata per avvisare l’altro bersagliere; il quale in un salto fu in istrada, e riuscì a staccare il compagno disarmato dagli artigiani. Due altri bersaglieri erano accorsi; ed uno di loro, col cappello in mano, sparì a tutta corsa nella via detta di Luigi Pinna, conducente alla Caserma, che allora trovavasi nel locale dell’Ospedale vecchio, all’imbocco della Maddalena, in piazza del Duomo.
Pochi minuti dopo, si udì il passo cadenzato di una moltitudine; e dal vicolo, a passo di carica, sbucò un drappello di bersaglieri a baionetta in canna, guidati da Bergalli – l’ufficiale che non volle levarsi il berretto al ballo del teatro. Egli andava gridando: ferma là, ferma là, correndo co’ suoi bersaglieri da una parte all’altra della strada, fermando quanti transitavano, uomini e donne, vecchi e fanciulli, mascherati o non, minacciandone molti, e molti percuotendone con piattonate. Non trovando colà quanto forse speravano trovare, i bersaglieri si diressero uniti verso Porta d’Utzeri e Pozzo di Villa; e qui una confusione da non dirsi; nuovi attacchi ai pacifici passanti, ch’erano inermi, e che non sapevano darsi ragione di quella furia e di quell’improvviso assalto. Rinvenuti dalla sorpresa, i sassaresi si diedero solleciti a raccogliere quante pietre lor capitavano sotto mano, e qui una sassaiuola disperata contro i soldati, ferendone parecchi, fra cui l’ufficiale di un secondo picchetto accorso sul luogo. Era uno strano campo di battaglia: sassi contro daghe. Un bersagliere giaceva a terra, stordito da una sassata alla tempia; un cittadino dava sangue dalla testa, per una sciabolata.
Intanto, in un baleno, con gravità sempre crescente, la notizia salì sino alla Caserma Nazionale, a S. Catterina, a piazza Castello.
Le versioni erano molte, e varie:
– A S. Elisabetta è rissa fra il popolo e la truppa!
– A Pozzo di Villa i bersaglieri fanno strage di cittadini; hanno ucciso Salvatore Dettori, bersagliere della Guardia Nazionale!
– Le vie di Porta d’Utzeri sono bagnate del sangue dei sassaresi!
Qualcuno gridava a voce alta: chiudete le porte!
La notizia ingrossa, scroscia, precipita per il Corso come un torrente, straripa, inonda le vie, serpeggia per i viottoli, allaga tutta la città! È un chiedere informazioni, un rispondere incerto, un fuggi fuggi, un misto d’urli, di pianti, di bestemmie; e tutto ciò nel folto della folla, in un ultimo giorno di carnevale, in mezzo all’ondulazione di migliaia di teste che sembravano spighe di frumento in un campo bersagliato dai venti. Le grida di frenetica gioia si erano ad un tratto cambiate in grida di terrore e di spavento. Curiosa, strana la disperazione delle donne che risalivano la piazza avvolte in bianco lenzuolo e celate sotto maschera nera!; terribile la ferocia che trapelava dagli occhi dei pagliacci, i quali, ciechi d’ira, avevano strappato la maschera dal volto per correre di qua e di là come pazzi! – febbrile l’incertezza dei padri, dei mariti, dei fratelli che ondeggiavano fra le mascherine che volevano trascinarli a casa, e la sete di vendetta che li spingeva sul luogo della mischia!
Quando la notizia giunse alla Caserma Nazionale, vi destò il disordine, lo scompiglio; molti militi avrebbero voluto correre a vendicare i fratelli; tutti erano furenti, indignati; eppure la maggior parte degli ufficiali dimenticarono di essere cittadini per ricordarsi unicamente ch’erano soldati, e che loro dovere era quello di sedare il tumulto e curare il buon ordine. Non tutti però erano animati da questo spirito conciliativo; vi era chi si dichiarava incapace di tanta virtù; quindi confusione, ordini e contrordini; tutti comandavano, pochi ubbidivano. Avresti detto che più non si comprendessero; che si fosse rinnovato il miracolo della torre di Babele.
Intanto il popolo accorreva a frotte dinanzi alla Caserma (di fronte al Palazzo Ducale); pareva quasi che aspettasse dalla guardia cittadina la voluta vendetta; e qui mormorazioni degli uni contro chi gridava all’ordine, mormorazioni degli altri contro chi eccitava alla riscossa. Molti popolani chiesero persino armi e munizioni, che furono loro negati.
Pochi momenti dopo, i tamburini correvano la città battendo la generala. Chi aveva dato quell’ordine? Tutti e nessuno. Quei rulli impressionarono maggiormente la popolazione; poiché rivelavano una tremenda verità, che da molti si metteva ancora in dubbio. Alla generala rullata dai tamburini, rispondeva la generala dei bersaglieri squillata dalle trombe. Doppia era la minaccia pervenuta ai due quartieri; perocché nei momenti delle grandi agitazioni non manca mai l’apportatore di tristi novelle, con la coscienza di far male, o di far bene. Si era detto ai Nazionali che i bersaglieri avevano in animo di assalire la loro Caserma; si era detto ai bersaglieri che la loro Caserma sarebbe stata presa d’assalto dai nazionali. – E intanto tutti i borghesi d’ogni età e d’ogni sesso, che passavano nella Maddalena, venivano insultati e maltrattati dai bersaglieri di picchetto alla Caserma; e dinanzi alla Caserma dei Nazionali venivano maltrattati e insultati parecchi bersaglieri che attraversarono la piazza del Duca.
Il Sindaco, l’Intendente, ed altre autorità, erano accorsi a Pozzo di Villa, a S. Elisabetta, a Porta d’ Utzeri per sedare il tumulto, e in gran parte riuscirono nell’intento; e così fecero quasi tutti gli ufficiali della guardia nazionale; tanto che, dopo due ore, tutto era tranquillo.
Ma quante crudeltà, quante vigliaccherie, quante bassezze erano avvenute in quella rissa tremenda, provocata dai capi d’una sfrenata soldatesca?
Per rilevare la crudeltà dei soldati, riportiamo i periodi dell’avvocato difensore Caput, desunti dalle deposizioni di un centinaio di testi che non presero parte alla rissa.
«Se il dibattimento ci ha convinto che per parte della popolazione nulla vi era di preparato, ben altri elementi abbiamo per credere il contrario dei bersaglieri… E che persuadono mai le sconcie parole e gli insulti fatte alle donne? (le Atzei) che l’essersi nella sera del 24 mascherati ed armati molti bassi ufficiali ? (Longiave) che l’idea di dare una lezione ad un barbiere per gelosia di una ballerina? (Marinelli) che il non ancora è finita!, poiché ci toccano ci sentano del Saint Pierre? (Porcellana) che l’Oh, prima di questa notte le cose saranno cambiate? (Deliperi) che il suonare della tromba a raccolta tosto avuto 1’avviso dell’incominciata rissa? (Guigliardi) che, infine, l’accorrervi subito dal quartiere, con una banda furiosa, appena avuto l’annunzio dal bersagliere ubbriaco, quel Bergalli, causa tristissima d’ogni sciagura? – Eglino i primi a trarre la daga, eglino i primi a correre a vendetta, perché agli ebbri provocatori questa daga veniva tolta dal prudente popolano (le Meloni).
«Si suonarono le trombe, e una banda di soldati con sciabola sguainata, con baionetta in resta, con pistole impugnate come furiosa fiumana a dare addosso a popolani inermi; a sciabolare a destra e a sinistra; a ferire co’ calci dei fucili i timidi paesani; a sciabolare su inermi che indarno gridavano: non facciamo niente; a incitarsi alla corsa dietro il popolo atterrito, per di nuovo fermare, maltrattare, infilzare quanti venivano loro incontro; per ferire giovanetti e fanciulli alle spalle; per inseguire i fuggenti sin nei pianerottoli degli ultimi piani delle case; per gittarsi con sciabole e carabine sin contro i balconi; per pestare e far saltare le tegole de’ tetti; per sfogare le loro ire sin contro i cavalli. Che altro? si puntano i fucili contro alle signore; si inseguono timidi assistenti perché vestono divisa nazionale; si aggrediscono e quasi si accoppano i zappatori mascherati; si dimentica ogni legge di disciplina, e in presenza dei superiori si esce dai ranghi, e con schiaffi si svillaneggiano i paesani arrestati (Tiragallo); si schierano battaglioni da ogni banda e si collocano avamposti (Porcellana); si caricano le armi dinanzi al popolo (Saint Pierre); un bersagliere con la sciabola, in presenza del suo ufficiale, ferisce il contadino Donara che grida: non mi uccidete, sono un povero padre di famiglia!
Si vuole finire un bersagliere che nuota nel proprio sangue, solo perché al buio si era scambiato per un borghese (Piumati); si ferisce un ragazzo davanti al Sindaco (Defferaris); si puliscono col fazzoletto le baionette tinte di sangue, e ferocemente si ride! (Marongiu) in bocca dei tre ufficiali e dei soldati sono sempre queste parole: deje, deje ai sardi molenti! sassaresi ladri e assassini! pungi, pungi!
In S. Elisabetta fu percosso con piattonate di daga un povero villico che gridava: – lasciatemi, non ho fatto niente! (Cariga) – Ad un altro fu data una baionettata, che per fortuna non colpì che il suo cavallo (Piana). Dietro alla chiesa di S. Elisabetta fu afferrato il Dettori, scarparo e bersagliere nazionale, e fu appoggiato da più bersaglieri al muro; egli gridava non fo’ male! non fo’ nulla! e un bersagliere lo feriva con la baionetta, ubbidendo alla voce del suo ufficiale che gli gridava: pungi, pungi! Lo stesso ufficiale afferrava colla mano sinistra il Dettori per i capelli, e facendogli abbassare la testa gli puntava la spada al collo. Il Dettori afferrò con la mano la spada per allontanarla, e la ritrasse grondante di sangue; allora gridò forte: sono morto! sono morto! Aveva una profonda ferita alla schiena che mandava molto sangue, e che imbrattò tutta la parete. Fu tradotto pallido e moribondo in Caserma dagli altri bersaglieri. Fu l’unico trattenuto in prigione in quella funebre giornata; gli altri arrestati, come vedremo, erano stati messi in libertà, per ordine del sindaco, e dell’Intendente. Gli arresti regolari cominciarono dieci giorni dopo.
Ed ora – per debito di giustizia – diamo alcuni fatti desunti dall’atto d’accusa; il quale, naturalmente, rende risponsabili della rissa i soli sassaresi, scusando tutti i bersaglieri, perché non fecero che difendersi da una premeditata aggressione.
«I borghesi furono i primi ad assalire il drappello dei bersaglieri che venivano per sedare la rissa e per ritirare un bersagliere ch’era stato battuto e gettato a terra (era l’ubbriaco!)
«Attaccano un altro picchetto accorso per l’ordine a Porta d’Utzeri, e danno addosso a quanti soldati incontrano, bersaglieri, carabinieri, cavalleggieri, di Casale, o del Corpo franco. Fu là che il Sanna e due chirurghi della Guardia Nazionale, armati, aggrediscono vari bersaglieri, ferendone uno gravemente (certo Dorato).
«Presso alla Caserma quattro tra ufficiali e militi nazionali aggrediscono due bersaglieri e li feriscono; anzi, tentando uno di essi rifugiarsi nel portone del palazzo ducale, 1’Aiutante maggiore glielo impedì con un colpo di spada alla testa, e gridò agli altri: ammazzatelo, ammazzatelo!
«Nella strada centrale un caporale tamburo nazionale, insieme ad altri, batteva con la daga un soldato dell’11° Casale, sino a farlo stramazzare; ed essendo accorsi altri soldati per liberarlo, venivano altri due feriti.
«In campo di Carra uno stagnino assaliva con una baionetta infissa al fucile parecchi soldati dell’11° di linea, ad uno dei quali inferiva tre ferite; indi a baionetta crociata, piantato in quel sito, aggrediva quanti militari passavano, intimando loro di cedere le armi, ed usando violenza se non le cedevano.
 «In vicinanza della Caserma Nazionale, due militi, dopo aver tumultuato chiedendo armi e munizioni per andar contro alla truppa, tentano di ferire al petto i due carabinieri che scortavano 1’Intendente.
« Furono visti un tenente ed un milite della Nazionale correre con due pistole, in Porta d’Utzeri, Pozzo di Bidda e S. Elisabetta, e far due spari contro i picchetti dei bersaglieri, per fortuna senza colpire.
«Il Dettori, che era uno di quelli che aveva la pistola, andò a spararla a bruciapelo ad un soldato dell’11°, tenendolo per la strozza; e da ciò l’arresto.

• Il Vespro

Ma la giornata del 24 febbraio non era ancora terminata. Solamente le maschere erano sparite come per incanto dalle vie e dalle piazze, e i manifesti annunzianti il ballo erano stati tolti dalle cantonate del Teatro e della Carra piccola. Non era mai accaduto che un carnevale a Sassari avesse così lugubri funerali!
Il dramma sanguinoso aspettava la sua catastrofe – e la catastrofe avvenne col tramonto del giorno. Dopo le scene accadute in S. Apollinare, la popolazione era inquieta, nervosa; mille commenti si facevano qua e là; e quella tregua invece di calmare, non faceva che accendere maggiormente gli animi, nel timore di un nuovo assalto. Si vociferava di qualche sorpresa al palazzo comunale; il battaglione di Casale era schierato in piazza Castello, e aveva collocato degli avamposti all’imbocco del Corso, verso S. Catterina.
Sospettosi d’ imminente pericolo, molti popolani imitarono la strategia della truppa, e si formarono avamposti d’armati allo sbocco degli Scolopi, del vicolo di S. Chiara; del Portico Pais, della stretta Buiosa. Al palazzo civico era il Corpo di guardia della nazionale; e fermo all’angolo, era un picchetto di militi, composto di sette individui.
Si stava tutti attenti e sospettosi.
La notte calava, né ancora si erano accesi i fanali perché gli accenditori erano dispersi.
Verso l’imbrunire un drappello di otto cavalleggieri a cavallo, guidati da un sergente, invece di starsene fermi alle Carceri di S. Leonardo, come pare avessero avuto la consegna (per timore di una fuga di prigionieri) si mossero per perlustrare la città.
A un tratto s’intese lo scalpitare monotono e cadenzato dei cavalli e il rumore degli squadroni, nella via dietro agli Scolopi. I cavalleggieri sboccarono da quel vicolo, diretti verso il Municipio. Dal picchetto della guardia nazionale si grida:
– Chi va là?
– Cavalleggieri per l’ordine – si risponde.
– Alla larga! – Indietro! – si dice dal palazzo civico e dai popolani che armati chiudevano gli sbocchi delle vicine vie.
I cavalleggieri, gravemente e con lo stesso passo, continuarono ad inoltrare.
– Indietro! indietro!! – fu di nuovo gridato con vivacità.
E i cavalleggieri sempre innanzi!
Si udì allora qua e là lo scricchiolio dei grilletti di molti fucili; e allo stesso tempo una voce esclamare: è l’ora di vendicarci! – A queste parole seguì una detonazione, e quasi subito altre due, altre quattro – otto in tutte. Gli spari erano partiti dal gruppo schierato nel Civico Palazzo, da quello che chiudeva la via di S. Chiara, e dal portico Pais.
Il drappello si fermò, parecchi cavalli rincularono, o s’impennarono, e due cavalleggieri caddero di sella. I colpiti furono quattro, fra i quali il sergente e il caporale; quest’ultimo (Vincenzo Biestro) ebbe quattro ferite, una delle quali alla spalla destra, che lo trasse a morte dopo tre ore. Accorsi a sollevarlo altri cavalleggieri a piedi, constatarono che, oltre alle quattro ferite di fucile, il Biestro aveva ricevuto tre ferite con arma di punta e taglio, dopo caduto da cavallo e prima che spirasse. Fu questa una barbarie, una ferocia senza pari che disonora il feritore, il cui nome è tuttora sconosciuto.
Chi ha colpito i cavalleggieri? Chi ha gridato: è l’ora di vendicarci? Mistero! Fu provato che quelle palle non uscirono dagli schioppi della Guardia Nazionale, ma bensì dagli schioppi di popolani appiattati all’ombra nella via di S. Chiara e nel portico Pais. Era vendetta che compivasi da sicari perseguitati? Aveva quell’assassinio rapporto coi fatti delle squadriglie del 1849? Fu imprudenza dei militi nazionali – o premeditato disegno di malandrini che approfittavano dei fatti della giornata per mascherare il loro infame assassinio? – Sempre mistero!
I cavalleggieri a piedi trascinarono il morente sino alla stretta Buiosa, per condurlo all’ospedale; ma là trovarono altri avamposti di paesani che ne impedirono l’accesso con due fucilate a pallini, che ferirono leggermente altri due cavalleggieri.
Verso le otto il Sindaco, l’intendente, il Comandante di Piazza e il maggiore dei cavalleggieri si presentarono alla Caserma dei bersaglieri per far mettere in libertà i militi e gli altri paesani arrestati. E così fecero per i prigionieri militari fatti dalla Guardia Nazionale. Circa una ventina in tutti.
Alle nove di sera la città era rientrata nella quiete. Fatte ritirare le truppe in quartiere, l’ordine venne mantenuto dalla Guardia Nazionale che vegliò sino al mattino seguente. Durante la notte si pensò a medicare i cittadini e i militari feriti, che ascendevano a una trentina circa. Le autorità vegliarono, intente a compilare il rapporto dei fatti par informarne il Governo. I rapporti spediti dalle autorità militari e dalla Regia Procura erano stati slealmente travisati. –  Diremo solamente che si fece ogni sforzo per dare tutto il torto ai cittadini, rappresentando la loro rissa come un tentativo di rivoluzione politica. Onde ben disse in proposito l’on. Ferracciu alla Camera, il 18 marzo: « – Da tutti i lati si fanno sforzi per giustificare la condotta del Ministero, accusando la Sardegna d’idee separatistiche, di pratiche segrete, di ostili macchinazioni… Pensi il Governo ad organizzare una buona polizia, la quale abbia tutt’altro incarico che quello di contare i sospiri che si mandano dagli amici della libertà!… » – E il Siotto Pintor, nella sua difesa del 27 luglio 1853: « – Non può pensarsi senza sdegno come ad ogni lieve manifestazione popolare, ne sia pure evidente il motivo, voglia darsi colore di congiura politica che metta capo a Mazzini e Mazziniani! » E mi pare che basti, per ora. Riservandoci a ritornare sull’argomento quando toccheremo del processo e del dibattimento ch’ebbe luogo a Cagliari, continuiamo i fatti.

• Dopo la rissa

Come abbiamo detto, la notte del 24 tutta la città era tranquilla.
La mattina del 25 l’Intendente avvertì il Colonnello della Guardia Nazionale perché si presentasse da lui con tutto il corpo dell’ufficialità, avendo loro a comunicare ordini pressanti. Presentatisi gli ufficiali, l’Intendente fece loro un breve discorso di elogio; e soggiunse che, trovandosi la guarnigione consegnata nelle caserme, restava affidata alla Guardia Nazionale la pubblica tranquillità. Il colonnello rispose, che egli si rendeva garante a nome della medesima.
La mattina del 26 si riunì il Consiglio comunale. Il Consigliere Sulis propose di far cambiare il battaglione dei bersaglieri con altro che inspirasse più fiducia. L’Intendente (che assisteva alla seduta) disse che i timori concepiti dipendevano dai molti fatti che si esponevano e che egli comprovò falsi od esagerati. Vennero nominati tre consiglieri (Sulis, Pisano e Martinelli) per fare al governo la relazione dei fatti accaduti. Il giorno seguente vien data lettura della relazione dei fatti; e l’Intendente osserva che non conviene accusare i bersaglieri, potendo ciò promuovere dal governo un processo giuridico che potrebbe pregiudicare i popolani. Molti vogliono sia ridotta la relazione a maggior semplicità e benignità, in modo da non apparire alcun’accusa o malumore verso la truppa. I tre relatori vi si oppongono, dicendo che il loro rapporto è nei termini precisi avuti dalle risultanze. Dopo lunga e viva discussione si delibera di modificare tre periodi.
L’impresario del teatro supplica il Municipio per essere indennizzato della festa da ballo che non ebbe luogo il 24. Chiede 600 lire che gli abbisognano per pagare i quartali alla compagnia di canto.
Durante la giornata e i giorni seguenti furono visti i bersaglieri incaricati della spesa dell’ordinario, nonché gli inservienti degli ufficiali, girare per la città, ma nessuno lor diede molestia. Gli stessi ufficiali, benché consegnati, uscivano alla notte travestiti coi cappotti alla sarda; erano conosciuti, ma non fu loro diretta alcuna parola.
Il 4 marzo l’Intendente scrive al Municipio mandando la nota degli oggetti d’armamento e di corredo militare smarriti dalla guarnigione la sera del 24; e il Municipio risponde di esisterne molti in Caserma.
Il 5 arrivano a Sassari 500 soldati, spediti dal continente. Si seppe allora che il Governo, appena ricevuta la notizia dei fatti di Sassari, aveva preso rigorose misure. Con decreto del 29 febbraio (cinque giorni dopo il fatto) veniva proclamato lo stato d’assedio alla città e provincia di Sassari. Lo stesso giorno fu pubblicato il proclama del Generale Durando.

• Proclama

Ecco il proclama pubblicato il 5 marzo. «Noi, commendatore Giovanni Durando, Luogotenente Generale, Comandante Generale militare dell’Isola di Sardegna.
«In virtù dei poteri straordinari conferiteci da S. M. decretiamo:
« Art. 1° – La Guardia nazionale di Sassari è disciolta. Tutti i sottoufficiali e militi della medesima dovranno entro le 24 ore dalla pubblicazione del presente decreto depositare nella Caserma del Castello i fucili e le daghe; ai quali sarà, dall’ufficiale incaricato di farne il ritiro, apposta un’etichetta col nome del consegnante. Un eguale deposito dovrà farsi della polvere sulfurea posseduta così dai pubblici venditori come da private persone, a cui ne sarà data ricevuta.
« Art. 2° Verun individuo appartenente alla disciolta Guardia nazionale potrà far uso di alcun distintivo della medesima, e nessun cittadino, anche munito del permesso pel porto d’armi, potrà prevalersene se non previa apposita autorizzazione dell’Intendente generale.
« Art. 3° È proibita l’esposizione e la vendita di qualunque specie d’armi offensive; quelle da fuoco non potranno conservarsi se non togliendo la canna e la piastra dall’incassatura.
« Art. 4° I contravventori alle prescrizioni dei tre articoli precedenti saranno immediatamente arrestati.
« Art. 5° Ogni resistenza, anche in parole, ogni atto di disprezzo contro gli agenti della forza pubblica saranno immediatamente repressi, occorrendone il caso anche coll’uso delle armi.
« Art. 6° Ogni riunione, in luogo pubblico, di persone in numero maggiore di cinque, sarà immediatamente disciolta dalla forza pubblica.
« Art. 7° Ogni cittadino dovrà ritirarsi dai luoghi pubblici prima delle ore otto della sera, né potrà ricomparirvi prima delle ore cinque del mattino, salvo uno speciale permesso in iscritto dall’ autorità di pubblica sicurezza, da presentarsi ad ogni richiesta degli agenti della forza pubblica.
« Art. 8° Ogni individuo non avente in Sassari stabile dimora, e che non giustifichi dinanzi all’autorità di sicurezza pubblica di trovarvisi per una ragionevole causa, dovrà uscirne entro il termine prescritto dall’ Art. 1°, sotto pena di esservi costretto dalla forza.
« Art. 9° Nelle ore stabilite dall’ Art. 7°, le porte esterne delle abitazioni dovranno tenersi chiuse, od essere illuminate.
« Art. 10° Il Municipio provvederà perché le strade della città siano nelle ore notturne continuamente illuminate.
« Art. 11° Ogni congrega del Consiglio delegato di Sassari dovrà essere preceduta da speciale autorizzazione dell’Intendente generale.
« Art. 12° Negli altri comuni della provincia di Sassari qualsivoglia attentato all’ordine pubblico sarà represso coll’immediato arresto dei colpevoli.

• Le prime misure

Il 7 marzo il Generale Durando ordina al Municipio perché il Civico architetto e il capitano di Stato Maggiore del Corpo di occupazione, prendano i dovuti accordi per venir murati tutti i viottoli della città, e perché sia accresciuto il numero dei fanali per la maggior illuminazione.

• Gli arresti

Il 6 di marzo cominciarono addirittura gli arresti, i quali gettarono un po’ di panico e di agitazione negli abitanti di Sassari. Le persone arrestate ascesero nella giornata a più di trenta; e così si continuò durante il mese, e l’anno. Molti venivano rimessi in libertà dopo qualche tempo; altre no. La sorpresa fu somma nel vedere che il numero maggiore degli arrestati appartenevano alla Guardia nazionale. Il Tiragallo, impressionato, domandò all’Intendente: – Come va che si arrestano quelli che più cooperarono a ristabilire l’ordine? – E l’Intendente disgustato gli rispose: non ne so nulla, né posso nulla!

• Elezioni

Dopo averne chiesta l’autorizzazione il giorno precedente, la mattina del 7 marzo ebbe luogo la riunione dei due Collegi elettorali, uno di 157 e l’altro di 104 votanti. Vi fu eletto in entrambi il Sulis.

• Ritiro delle armi

Il 9 il Generale Durando pubblica altro proclama per il ritiro delle armi, senza distinzione, cioè: fucili, pistole, sciabole, spade, pugnali, ecc, che verranno consegnate entro le 24 ore dalla pubblicazione del manifesto. Le armi devono depositarsi con una striscia di carta incollata sopra, coll’indicazione del nome e domicilio del possessore. I fabbricatori e venditori d’armi denunzieranno entro 24 ore, quelle di cui sono possessori. Chiude il proclama l’art. 7°, in cui si dice, che saranno immediatamente arrestati coloro che si troveranno possessori o detentori di qualunque arma.
Il Municipio (nello stesso giorno) chiede un prolungo per il ritiro delle armi dagli uomini di campagna.
Una gran parte dei cittadini non rese le armi, ma le nascose, o le sotterrò in campagna.

• Impressione

La città era calma, tranquilla; ma tutti erano indignati del rigoroso provvedimento preso dal Governo, condannando tutta la popolazione ad uno stato d’assedio, ch’era la maggior punizione che si potesse infliggere ad un popolo. Eppure – vergognoso a dirsi! – non mancarono cittadini che scrissero al Governo dando piena adesione, e lodando la rigorosa misura! Il deputato Sulis era partito il 9 per Torino. Il Municipio scrive nel 14 al deputato Ferracciu pregandolo di mettersi d’accordo col Sulis (testimonio oculare dei fatti) per le difese in Parlamento.

• Stato d’assedio

Mentre alla Camera si dibatteva la discussione sullo stato d’assedio, a Sassari esso si subiva. I cinquecento soldati, arrivati per rinforzo alla guarnigione, erano già acquartierati. Si vogliono fare i soliti pellegrinaggi alla basilica di Portotorres e le solite processioni della settimana santa, e se ne domanda il 21 marzo il permesso al Comandante l’assedio. Il Comandante, dal suo canto, domanda l’elenco nominale di tutte le confraternite, l’indicazione delle chiese, giorno ed ora delle processioni, e la forza numerica che si desidera per i picchetti d’onore.
Il 17 marzo il Municipio si rivolge al colonnello comandante lo stato d’assedio, rassegnandogli la supplica dei cittadini, i quali chiedono che l’alloggio militare non si prolunghi oltre i tre giorni. Gli si risponde che esso non cesserebbe prima di un mese. Il popolo indignato si stringeva nelle spalle e prendeva un po’ in burletta la cosa; scherzava sui vicoli che si erano murati; scherzava sulle pattuglie che scioglievano i crocchi quando erano composti da più di cinque persone; scherzava infine sui due cannoni collocati in S. Catterina, sempre pronti per mitragliare i ribelli sassaresi.

• Indignazione

Si continuavano intanto gli arresti arbitrari. Il potere era tutto nei militari; e immaginate se pensavano a vendicarsi dei torti ricevuti! L’Avvocato Fiscale Provinciale si era offerto come braccio vindice a’ suoi compagni ed amici; e bastava talvolta una parola, una confidenza fattagli per impadronirsi di un cittadino e farlo arrestare. La condotta che tenne quest’uomo nell’istruttoria risultò molto biasimevole nel dibattimento. Basti, fra gli altri fatti, quello dell’arresto di un barbiere, amante di una ballerina e rivale di un bersagliere! – Come avrà sorriso la gran dama di questo stato d’assedio imposto da lei!
Giunse intanto la notizia del mal esito dell’interpellanza alla Camera; ma, più che il mal esito, fecero impressione le accuse lanciate dal Decandia ai sassaresi.
Perché il lettore abbia un’idea dell’assedio e del cruccio degli abitanti, riporto l’indirizzo che il 31 marzo veniva spedito ai deputati di Sassari, dal Sindaco Deliperi.
« Il Sindaco di Sassari fallirebbe all’onorevole incarico che gli fu affidato, e alla fiducia che riposero in lui i cittadini nell’eleggerlo a loro rappresentante comunale, se nell’attuale distretta non protestasse con tutta la forza dell’anima contro le ingloriose espressioni lanciate contro questa popolazione, davanti alla Camera dei Deputati, nella tornata delli 18 marzo corrente anno.
« Conosce assai poco l’origine della rissa e degli avvenimenti delli 24 febbraio chi voglia osservare di essersi ricevuto non pur con calma e con rassegnazione, ma con piacere lo stato d’assedio decretato contro questa Città e Provincia. Perché cotesto decreto avesse potuto dar luogo a tali sentimenti, sarebbe stato necessario che vi fosse preceduta una rivolta, un’insurrezione, un’opposizione alle Autorità costituite; e non essendovi in questi fatti alcun carattere costitutivo di quei reati, anzi cessato essendo il tumulto per l’interposizione delle stesse autorità cui tosto ubbidirono i contendenti, eravi minor motivo a sospettare che si prendesse una misura di eccezione, e niuna ragione per credere, che, data, si applaudisse da un popolo innocente e provocato.
« L’impressione ne fu acerba e dolorosissima, o che se ne voglia ponderare l’insufficienza del motivo, o che si voglia por mente agli effetti dello stato d’assedio.
« Chiusa l’Università ed occupata da soldati che ne fecero una Caserma; cacciati via gli studenti e costretti ad andarsene anche pedestri in seno alle loro famiglie, nel breve giro di 24 ore; arenato il già esiguo commercio interno; gli arresti fatti in massa, continui e tumultuariamente, in guisa da essere tradotto in carcere uno scimunito e un pellegrino; gli arrestati tenuti duramente, con pochi alimenti, stivati in ristrettissime stanze; la diffidenza e la delazione; lo spionaggio e la calunnia in trionfo; costretti i cittadini a tenere al biglietto per un mese intero gli ufficiali del Reggimento; i negozianti inoperosi e cessate le contrattazioni; impauriti i cittadini da numerosi e arbitrari arresti; inermi i buoni, sebbene circondati dai tristi e dai fuorusciti che scorrono le campagne e che nel momento si rinselvarono, dei quali perciò neppur uno fu arrestato; tementi tutti il ritorno a vendette più sicure, appena si allontani la forza da’ luoghi dove covano le inimicizie private; inaspriti gli animi per essersi molti veduti fatti segno d’immeritate vessazioni; sparso il timore di essersi violato il segreto delle lettere; maltrattati i barraccelli e percossi dai cavalleggieri per mal fondati sospetti; l’arbitrio in ogni dove; il terrore in tutti gli animi: – è questa la trista posizione della Città di Sassari, non a guari tranquilla e inconsapevole di aver meritato cotanta sventura.
« Non può per fermo il Municipio, in vista di tanti dolori de’ suoi amministrati, accogliere con applauso lo stato d’Assedio, e sebbene il sottoscritto, dietro superiore proibizione, non abbia potuto radunare il Consiglio delegato per sentirne Collegialmente il parere, pure può assicurare la Camera che i sensi da lui espressi sono anche quelli del detto Consiglio e della popolazione intiera, ad eccezione di quei retrivi che non sanno ancora dimenticarsi del despotismo, e che vogliono afferrarne il lembo per iscuoterlo sul capo di male odiati cittadini.
« E, forte di questo convincimento, protesta altamente contro le parole dettesi nella suaccennata tornata, e riferite nel supplemento della Gazzetta Ufficiale C. 94 e 99, laddove si accenna alla calma e al piacere prodotto dallo stato d’assedio, e all’accusa portata contro la Città e la milizia cittadina, e ne raggiunge con tutta l’energia le calunniose imputazioni; e se per avventura qualche individuo avesse violato la legge, ciò non dava diritto ad estenderne la solidarietà a coloro che menomamente non vi parteciparono».

• Notizie diverse

Nel rimanente dell’anno non vi fu nulla di notevole, tranne gli arresti di cittadini per il fatto dei bersaglieri, che continuarono sempre alla spicciolata. Nell’aprile fu deciso di servirsi della torre di Porta Nuova per il deposito militare delle polveri. Il Municipio rappresentò il pericolo che si correva, e specialmente per la fucina di un fabbro che abitava al dissotto. Si mandò via il fabbro, ma le polveri vi furono depositate! Un R. Decreto del maggio autorizzava l’ammissione agli esami universitari della gioventù studiosa; ma trovandosi nei locali dell’Università acquartierato il battaglione del 17°, si propose di mandarne una parte al piano superiore della Frumentaria, e l’altra al Camerone del vecchio convento di S. Paolo.

• Giorni festivi

L’11 giugno il Municipio scrive all’Intendente: « – Le disposizioni Viceregie intorno all’osservanza dei giorni festivi, dettate in tempi dai quali speriamo progressivamente allontanarci, e che vennero richiamate dalla Circolare del Ministro dell’Interno, sono gravose al pubblico ed al commercio. Si hanno molte lagnanze perché se ne esagera il rigore. Si desidera l’ordine e l’osservanza delle leggi, ma senza oltrepassare i limiti, acciò la libertà dei cittadini non sia lasciata alla discrezione dei subalterni, che usano restrizioni superflue e odiose». Ecco per esempio una dichiarazione franca, contro vecchie provvidenze ridestate da un ministro costituzionale!

• Elezioni

Nell’annunziare le elezioni fatte in luglio, si scrive ai giornali di Cagliari, che esse riuscirono favorevoli ai liberali, nonostante le mene della fazione che col nuovo sindaco parteggiava per la pressione politica e lo stato d’assedio. – Ecco il segreto delle molte adesioni partite da Sassari, e di cui si fecero forti tutti i ministri e il deputato Decandia.

• Qual prodezza?

Un cavaliere, nel 2 luglio, chiede al Municipio un attestato comprovante la sua valorosa condotta (?) nell’infausto giorno 24 febbraio. Il Sindaco gli risponde, che non avendo egli cognizione di quel fatto, ne ha riferito in Consiglio, ma nessuno dei membri sa di che si tratta; aggiunge che, tra i fatti esposti nella seduta che seguì all’infausta giornata (cui assistette l’Intendente) nessuno fece menzione del cavaliere. – Di qual valore s’intendeva parlare? – Mistero!

• Malattia dell’uva

Il Municipio, nell’agosto, rende noto all’Intendente, che essendosi, per quanto si crede, sufficientemente sviluppata la malattia delle uve in questo territorio, ha creduto acconcio diffondere i migliori metodi curativi sinora conosciuti, e che vengono suggeriti nell’esemplare d’istruzioni popolari testé ricevute.

• Punizione

La prepotenza dei militari, dopo lo stato d’assedio, non aveva limiti. Il 18 ottobre il Tribunale di prima cognizione condannava il maggiore Candiani a lire cento di multa per ingiurie verbali a un attuario dello stesso tribunale, in esercizio di sue funzioni.

• Busto ad Azuni

Il Sindaco Suzzarello, in seduta del 22 dicembre, propone far eseguire, per pubbliche sottoscrizioni e iniziativa del Municipio, un busto in marmo rappresentante Domenico Alberto Azuni da collocarsi nell’Aula, o nell’atrio dell’Università; inoltre di battezzare una via della città col nome dell’illustre cittadino. Il Prof. Guttierrez propone invece una statua da collocarsi nella Carra Grande. Si delibera per il busto, e si nomina una Commissione, per le sottoscrizioni, così omposta; il Sindaco presidente – Prof. Guttierrez – medico Canu – Prof. Sanna Tolu – e Teologo Marongiu (l’attuale Arcivescovo di Sassari) – Il Municipio sottoscrisse per L. 250.

• Ceramica

Nella stessa seduta del 22 dicembre si deliberano incoraggiamenti ed elogi ai fratelli Delongiave, che hanno offerto al Municipio, come saggio, alcune stoviglie, tubi e pianelle, provenienti da una fabbrica impiantata nel loro Stabilimento, verso Portotorres.

• Finisce l’assedio e l’anno

Essendo cessato lo stato d’assedio in virtù del R. decreto 9 dicembre, il Municipio prega che vengano demoliti i chiusi e doppie strette nell’interno della città; e ciò perché sono d’inciampo agli abitanti, e perché cessi lo sconcio delle immondezze che colà si sono raccolte. (!)
Negli ultimi di dicembre il Municipio chiede all’Intendente l’autorizzazione di poter mettere in pratica la deliberazione presa sin dal 1848; di stabilire cioè la quota di L.1.20 per chi vuol esimersi dalle visite del capo d’anno; e ciò a imitazione dei paesi civili, e a benefizio dei pii istituti.

• 1853. Diverse notizie

L’11 di gennaio il Municipio accorda la cittadinanza sassarese al capitano del Genio militare Don Giuseppe Bruschetti.
Il 18 aprile gran festa in piazza Castello per l’ascensione di un grosso pallone. L’areostata salì in aria salutando la folla, col sigaro in bocca. – Il 20 aprile si discutono in Consiglio le condizioni del progetto di Catte, rappresentante la Ditta Picherig, per la costruzione di un tronco di ferrovia da Sassari a Portotorres.
L’8 di giugno il generale Biscaretti, nuovo comandante militare di Sardegna, passa in rassegna in piazza Castello il 12° Fanteria stanziato a Sassari.
Il 13 luglio il Municipio ricorre al Governo per il rimborso delle spese ordinate a farsi dalla cassa civica pendente lo stato d’assedio. Il consigliere Ferracciu consiglia farsi il ricorso dopo l’esito del dibattimento, che avrà luogo a Cagliari.

• Guardia Nazionale

Nell’aprile il Municipio riforma i ruoli per il ripristinamento della Guardia Nazionale, sanzionato con R. Decreto del 10 marzo. Per Sassari era stabilita una Legione, divisa in due battaglioni di quattro Compagnie ciascuno. Vi erano 2 maggiori, 9 capitani (compreso l’aiutante maggiore in primo) – 18 Luogotenenti (compreso l’aiutante maggiore in secondo) – 18 Sottotenenti (compreso il Porta bandiera) – 2 Furieri maggiori – 2 Caporali maggiori – 8 Sergenti furieri – 8 Caporali furieri – 48 Sergenti – 96 Caporali – 828 militi – Totale 1.076. I militi al servizio della Riserva erano 835.

• Processo per i bersaglieri

Durante l’anno 1852 si erano continuati gli arresti; l’ultimo si era eseguito il 15 gennaio 1854, in persona di G. M. Innocenti. 
Il 17 febbraio si trovavano complicati nei casi di Sassari 36 individui, di cui 27 gemevano da molti mesi in carcere, e 9 latitanti.
Per curiosità vi trascrivo il numero totale di essi, divisi per condizione civile. Furono imputati: tre avvocati, un procuratore, un notaio, un chirurgo, un poeta, due proprietari, tre studenti, uno scultore, un musicante, sei ebanisti o falegnami, tre scarpari, tre viaggianti, due muratori, un cappellaio, uno stagnino, un barbiere, un liquorista, un giardiniere, un ortolano, e due facchini; totale 36, di cui 26 appartenenti alla guardia nazionale, cioè: un Aiutante Maggiore, un Capitano, un tenente, due sottotenenti, un furiere, un caporale, un caporale tamburo, e diciassette militi.
Il 17 febbraio 1853 il Magistrato d’Appello ne scartò 14, per insufficienza di prove, ordinando la scarcerazione degli undici che erano detenuti. Rimasero quindi da giudicarsi 23; cioè, 18 già detenuti, e 5 latitanti.
Eccovi i nomi:
Detenuti: Dettori F. M., letterato, d’anni 35 (Aiutante Maggiore della guardia nazionale). – Sanna Antonio, d’anni 50, organaro ed ebanista, (Tenente). – Lobino Giuseppe d’anni 42, barbiere, (Caporale tamburo) – Ciusa Giovanni, d’anni 32, notaio, (Ufficiale) – Virdis Francesco, avvocato, d’anni 31, (Tenente) – Mureddu Salvatore, avv., d’anni 24, (Capitano) -Innocenti Gio. Maria, d’anni 34, proprietario (bersagliere nazionale) – Martinelli Paolo, avvocato, d’anni 31, (milite) – Bini Gavino, chirurgo, d’anni 38, (Chirurgo nazionale) – Muntoni Vincenzo, d’anni 27, stagnino – Mannazzu Michele, d’anni 37, liquorista, (milite) – Sechi Antonio, falegname, d’anni 26, (milite) – Dettori Salvatore, scarparo, d’anni 31, (bersagliere nazionale) – Maccioccu Salvatore, di anni 35 – Carta Antonio Vincenzo, d’anni 34, viandante, (milite) – Faedda Gianpaolo, d’Ittiri, d’anni 50, (milite) – Pinna Fiori Giovanni, falegname, d’anni 21 – Frassetto Giovanni, d’anni 30, studente – (Tutti di Sassari, meno uno).
Latitanti: Basso Giuseppe, procuratore, d’anni 22, (furiere) – Oggiano Carlo, giardiniere; Suzzarello Ignazio, ebanista; Sussarello, figlio del precedente; Solinas Alberto, falegname; (tutti militi e di Sassari).

• Il dibattimento

I detenuti erano stati maltrattati, e rinchiusi in stanze anguste, luride, prive d’aria e di luce. La maggior parte di essi erano stati arrestati due o tre settimane dopo i fatti del 24, epperò languivano in carcere quasi da un anno e mezzo. Tre mesi circa prima che cominciasse il dibattimento, i prigionieri tutti furono traslocati alla torre dell’Elefante, in Cagliari.
Tutti si aspettava ansiosi 1’esito del dibattimento, ed i detenuti inspiravano generalmente un senso di pietosa simpatia; perocché ben si sapeva che essi erano incapaci delle infamie di cui erano accusati. Fu una gara di gentilezze e di cortesie quella usata dai cittadini di Cagliari ai prigionieri di Sassari; cortesie e gentilezze che si tradussero più tardi in una solenne e pubblica dimostrazione di affetto, il cui ricordo non deve mai spegnersi nell’animo dei sassaresi.
Ho già raccontato i fatti genuini del 1852, quali mi risultarono dai cento e dodici testimoni, di cui 94 fiscali (fra i quali gli stessi bersaglieri assalitori) e 18 di difesa; è inutile quindi che io faccia delle ripetizioni. Dirò soltanto che l’esito del dibattimento  rispose alla generale aspettazione; molte vili accuse caddero colpite dalla verità dei fatti; altre sfumarono nel ridicolo. Le arringhe degli avvocati, a difesa degli imputati sassaresi, furono quasi tutte capolavori, e quali convenivano all’importanza del processo, per il quale erano forti impegni dalle due parti; il magistrato però fece giustizia! Sovratutte belle, calde, ragionate, le tre arringhe di Serafino Caput, Giuseppe Siotto Pintor, e Gavino Fara, avvocati distintissimi del foro cagliaritano.
Al lettore ho brevemente esposta la discussione della Camera a proposito dei fatti dei Bersaglieri; espongo ora i primi periodi dell’atto di accusa, formulato dal Sostituito Fiscale Generale, il 28 febbraio 1853. Esso comincia così:
« Fin dai primi giorni del carnevale dello scorso anno 1852 manifestavasi nella città di Sassari, ad instigazione di alcuni nemici dell’ordine e sistematicamente avversi alle Autorità costituite, lo spirito di turbolenza e 1’impegno di sconvolgere la tranquillità pubblica. Manoscritti anonimi divulgavansi dalle maschere, nei quali denigravasi la riputazione di persone le più accreditate; attaccavasi apertamente ed indistintamente i provvedimenti del governo e delle Autorità costituite; esageravasi la gravezza dei pubblici pesi; e finalmente un deciso impegno manifestavasi di porre in discredito l’esercito, tacciandolo d’inetto ed infingardo, mettendo in ridicolo i militari che componevano la guarnigione ivi stanziata. Frequenti mascherate facevansi allusive ai medesimi Questi semi di discordia, sparsi con arte nella moltitudine, non tardarono a produrre il loro funesto effetto; ed i primi sintomi dei fomentati malumori si manifestarono nel teatro nelle sere del 18 e 22 febbraio, ecc. ecc. »
E così, di questo passo, una trentina di pagine manoscritte! – Insomma, lo abbiamo detto, vi era tutto l’impegno perché una semplice rissa, proveniente da un ubriaco, comparisse come una ribellione di carattere politico, come una scossa rivoluzionaria per far uscire dai gangheri il governo costituito.
La questione non doveva essere che una sola: o i sassaresi per i primi avevano provocato i bersaglieri – o i bersaglieri per i primi avevano provocato i sassaresi. La colpa non poteva essere divisa per metà, (e questa, forse, sarebbe stata la vera giustizia!) quindi la convenienza politica di salvare il prestigio dell’esercito – E così si fece!
Dunque, scritti incendiari, mascherate allusive, strage di soldati, e crollo di Governo!
Abbiamo veduto la strage dei cittadini e dei bersaglieri, ottenuta coll’aumentata vendita delle polveri; abbiamo veduto la ribellione politica; vedremo ora le scritture e le mascherate, quali risultarono nel pubblico dibattimento.
Vennero all’alto tribunale presentati i famosi scritti incendiari, consistenti in due o tre giornalucci manoscritti, dov’erano brevi articoli senza salsa, senza lingua, senza spirito, dove si tentava di far dell’umorismo. In uno di essi il Pubblico Ministero trovò che i bersaglieri erano chiamati bersaglia-bicchieri. Era questo tutto l’incendio, ma nessuno volle accorgersi che in quei giornali si faceva allusione con più frequenza ai corteggiatori di una donna, la quale, in fondo, era il vero microbio della ribellione!
Le famose mascherate allusive furono due: quella della forza pubblica, che consisteva in tre individui vestiti da gendarmi, che simulavano l’arresto d’un brigante; e la satira dei cannoni, consistente in un vaso da notte e in una sorbettiera, tirati sopra un carretto. E notate che quest’ultima mascherata (caso curioso!) era stata fatta da due buoni piemontesi, chiamati come testimoni nel dibattimento.
Per provare poi la premeditazione della rivolta, si parlò della cresciuta vendita delle polveri nei giorni 22, 23, e 24 febbraio; e anche quest’accusa andò in fumo nel dibattimento, perché risultò che polvere non se n’era venduta in più, né in meno! D’altra parte abbiamo veduto la polvere consumata nel triplice combattimento di S. Apollinare, dove nessuno fu ferito di piombo, ma tutti a sassate, o a colpi di daga.
Concludendo sul dibattimento dirò, che il Magistrato d’Appello assolveva tutti dall’accusa di ribellione, ecc. condannando solo, o per il porto della pistola, o per resistenza ai carabinieri, o per minacce, il Francesco Michele Dettori, Michele Mannazzu, Antonio Secchi e Salvatore Dettori – il primo a un anno, il secondo ed il terzo a sedici mesi, ed il quarto a sei mesi di carcere, computando per tutti il sofferto. E siccome tutti avevano scontato il carcere per maggior tempo di quello cui erano stati condannati, così furono messi in libertà nello stesso giorno (17 luglio) e fatti segno alle vive acclamazioni dalla popolazione cagliaritana, che li colmò di gentilezze e di attenzioni, durante il loro soggiorno a Cagliari.
Quando essi si accinsero a far ritorno a Sassari, una folla immensa li accompagnò fino alla diligenza; e là abbracci, proteste d’affetto, entusiasmo indescrivibile.
Erano finalmente liberi, dopo 507 giorni di prigionia. Il Dettori li aveva contati ad uno ad uno, dedicando ad essi molte poesie, nella sua raccolta di versi pubblicata sotto il titolo Canti d’un prigioniero.

• Il popolo e i bersaglieri

Se voi oggi parlate della famosa rissa del ‘52, taluno vi dirà che i bersaglieri morti furono oltre cinquanta; che ne erano piene le cantine; che si seppellirono i cadaveri nel silenzio e nel mistero; che il Governo aveva interesse, per il decoro della stessa Arma, di nascondere il numero dei soldati mancanti; che essi cadevano a terra come mosche. Mi fu riferito da un operaio, aver veduto egli, coi propri occhi, portare sulle spalle non so quanti cadaveri! Ma nessuno pensò mai, che il Governo sarebbe stato quasi superbo (perdonatemi la cruda espressione) di una tale carneficina; non già per la strage inumana, ma per poter giustificare uno stato d’assedio proclamato con imperdonabile leggerezza contro una popolazione di 28.000 abitanti – anzi contro un’intiera provincia!
Ma purtroppo è nella natura umana magnificare le proprie gesta nei sanguinosi conflitti, anche quando si ha la coscienza di aver trasceso. L’uomo, pur confessando il suo torto, si piace vantarsi d’aver bastonato il suo avversario, anche ingiustamente; preferisce, naturalmente, dire di averne più date, che ricevute. E dicendo natura umana, intendo dire natura civile e natura militare!
Come abbiamo veduto, il famoso processo, tanto aspettato, si ridusse ad una bolla di sapone! Eppure non mancò chi volle approfittare della circostanza luttuosa per mettere in mala vista presso il Governo il partito dei liberali, accusandolo d’una congiura macchinata nell’ombra; non mancò chi scrisse e pubblicò che il popolo era geloso dei bersaglieri, perché i loro ufficiali venivano accolti gentilmente nelle famiglie patrizie; non mancò infine chi fece due parti in commedia, incoraggiando gli assalitori, per poi vilmente denunziarli. – Dall’altra parte – bisogna esser giusti – non mancarono malevoli che trassero occasione dal bonetto di un ufficiale o dalla daga di un ubriaco per eccitare i compagni all’odio, seminando il lutto in paese; non mancarono infine i tristi di tutti i luoghi e di tutti tempi, i quali si piacciono dei commovimenti popolari per sfogare i loro istinti brutali, sapendo all’occasione far ricadere ogni colpa sui cittadini innocenti, che scontano ben sovente i peccati degli altri.
Conforta soltanto il considerare, che fra tanta strage non si ebbe a lamentare che la sola morte del cavalleggiere. Il bersagliere Dorato, dato per morto nelle relazioni ufficiali del sindaco e del Comandante Saint Pierre, guarì dalla sua ferita, e visse. Onde può dirsi – non solo che si nascosero i morti per interesse del Governo – ma che anzi si esagerarono i rapporti ufficiali, perché di morti non ve n’è stato che uno. Una sola scarica, fatta dai bersaglieri o dalla guardia nazionale in Sant’Elisabetta, sarebbe bastata perché molte vittime si fossero lamentate in quella rissa, nata da una donna, battezzata da un cappello, cresimata da un ubriaco, e seppellita dal Magistrato d’Appello.

• La vittima

Un tasto doloroso or devo toccare, come a nota finale, come a complemento dei luttuosi fatti, sui quali ho dovuto troppo a lungo fermarmi.
Fra gli accusati ed assolti per il fatto dei bersaglieri, uno solo non era stato giudicato: l’ebanista Ignazio Sussarello, latitante. Il suo avvocato Siotto Pintor lo consigliò di presentarsi, assicurandogli che, al pari de’ suoi compagni, sarebbe stato assolto. Il Sussarello si costituì in carcere, e aspettò, fidente, il suo giudizio.
Fu riaperto il dibattimento; e gli stessi giudici, che nel luglio assolvettero il Dettori e i coinvolti, condannarono il Sussarello a venti anni di lavori forzati, con generale sorpresa e dolore. Si può immaginare la viva impressione prodotta da questa severa sentenza. Pareva che la bizza, per l’assolutoria dei ventidue compagni accusati, si fosse tutta scatenata sul povero Sussarello! – L’avvocato Siotto Pintor ne morì di crepacuore. La Gazzetta Popolare di Cagliari, annunziando la sua morte, scriveva: «Come la Trasfigurazione a Raffaello, così il dibattimento per i casi di Sassari gli fu lenzuolo mortuario. Il voto che tolse la libertà a Sussarello, tolse anche la vita al suo avvocato».
Fin qui la storia, a tutti palese. Molte interpretazioni però si diedero al verdetto del Magistrato; e, fra tutte, una prevalse insistente.
L’esito del dibattimento per i fatti di Sassari, che si proclamò coll’assolutoria degli accusati, dispiacque molto al Governo, il quale non poteva giustificare lo stato d’assedio, vivamente combattuto in Parlamento. Si disse che Cavour rimproverasse uno dei Magistrati sardi per aver fatto perdere prestigio al Governo; e che lo stesso Magistrato gli avesse risposto che si era in tempo per ripararvi in parte. E per riparavi, non si fece altro che indurre il Siotto Pintor a far presentare il suo cliente, dietro la promessa d’un’assolutoria – Questo fatto è troppo orribile, per prestarvi fede, e bisogna lasciarne tutta la responsabilità all’Ignazio Esperson (presidente onorario di sezione di Corte d’Appello) che lo pubblicò duramente nel 1878.
Tutta la deputazione sarda si presentò più tardi da Cavour per la grazia; ma Cavour resistette tenacemente. Allora il coraggioso deputato Sulis, presolo di fronte, gli fece sentire in termini più che espliciti che egli, in quella circostanza, era come la lancia fatata di Achille, che feriva… e guariva. Il Cavour capì, e la grazia sovrana non tardò a comparire. – Così continua il menzionato Esperson, che forse lo apprese dallo stesso Sulis. In quanto a me credo impossibile che, tanto un ministro come Cavour, quanto qualsiasi magistrato sardo (supposto che fra loro due venisse concertato quel piano infernale) abbiano lasciato trapelare ad altri un segreto di quella fatta!
Il fatto è uno solo: che il povero Sussarello fu l’unico capro espiatorio della luttuosa rissa; e quando gli arrivò la grazia sovrana, egli aveva già scontati parecchi mesi di lavori forzati!
Gli altri suoi compagni furono invece accolti in patria con mille feste e mille dimostrazioni; e nell’agosto si volle dare una prova di stima al valente ebanista Antonio Sanna, eleggendolo a gran maggioranza di voti consigliere comunale. L’elezione però fu annullata.

• Scuole

Grandissima indignazione, e malumori a Sassari contro i professori continentali, perché nell’agosto, di novantacinque studenti di prima e seconda grammatica, uno solo era stato approvato.

• Lazzaretto

Nel 16 e 20 settembre si delibera di concorrere per il quarto della spesa (di L. 70.000) alla costruzione del nuovo Lazzaretto sul molo di ponente di Portotorres. La proposta era stata fatta dal Consiglio Provinciale; il progetto del Lazzaretto era dell’ingegnere Poggi. – (Si era pur deliberato in proposito nella seduta del 3 gennaio 1852).

• Intendente generale

Nel settembre, divulgandosi la notizia di un progetto di legge per una nuova circoscrizione amministrativa, per la quale verrebbe ristretto il numero degli Intendenti Generali dello Stato, stabilendo altrove Governatori civili, il Municipio deliberò di ricorrere, perché venisse a Sassari conservato l’Intendente, anche dovendo sottostare a sagrifizi.
La povera Sassari era sempre in continui timori!

• L’asfodello

Il Municipio, nell’11 novembre, dopo lunga discussione, concede all’avv. Marcello Lucet la facoltà di poter raccogliere il bulbo delle piante dell’asfodello, le quali crescono nei terreni incolti e liberi di proprietà del Comune; e ciò per estrarne dello spirito. La concessione è stabilita per cinque anni; e si accorda in vista dei capitali stranieri che attirerà la nuova industria in paese, e in considerazione della larga occupazione della classe misera, nelle attuali strettezze.

• 1854. Date storiche

Prima di riprendere le diverse notizie che concernono la città di Sassari, credo conveniente dare un sunto degli avvenimenti più memorabili di storia italiana, dal 1854 al 1861.
1855. Il 26 gennaio si conchiude il trattato per la spedizione sarda in Oriente. Il Piemonte vi mandò 15.000 soldati sotto il comando di Alfonso Lamarmora. Il maggior vantaggio di questa guerra, suggerita da Cavour, fu la libertà che lo stesso Cavour potè avere nel febbraio del 1856 al Congresso di Parigi, dove espose le dolorose condizioni politiche della Lombardia e di altre parti d’Italia; memorandum che fu l’origine dell’intervento di Napoleone III e della liberazione dell’Italia dagli austriaci e dai principi di casa Borbone.
1858. Attentato di Orsini contro Napoleone III.
1859. Nell’aprile rottura delle ostilità fra il Piemonte e 1’Austria; la Francia viene in soccorso degli Italiani; battaglie e vittorie di Palestro e Magenta; battaglie di S. Martino e Solferino vinte dai francesi e dagli italiani. – Il 12 luglio è decretata l’unione della Lombardia al Piemonte.
1860. Maggio 10, sbarco dei Mille a Marsala; 29 maggio, la Camera approva la unione di Nizza e Savoia alla Francia; 7 settembre, ingresso di Garibaldi a Napoli; 18 settembre, battaglia di Castelfidardo; 29 settembre capitolazione d’Ancona; 7 novembre entrata di Vittorio Emanuele a Napoli; 1 dicembre, entrata del re a Palermo.
1861. Vittorio Emanuele è riconosciuto da tutte le potenze quale re d’Italia, col nome di Vittorio Emanuele II. Il 27 marzo la Camera proclama Roma Capitale d’Italia.

• Al solito

Anche per l’anno 1854 (come per i precedenti) si ebbero lamenti per i malandrini e per la pubblica sicurezza. Si tornò alle petizioni e alle deputazioni per la conservazione della Corte d’Appello e dell’Università – eterni ritornelli cui ormai non faremo che accennare di volo, riservando a richiamarli nel secondo volume di quest’opera.

• Statuto

15 maggio, gli ufficiali della Guardia Nazionale festeggiano lo Statuto con un ballo al Teatro dei dilettanti. Il 20 gran serenata al nuovo deputato di Nuoro Francesco Sulis.

• Cresima imponente

Il 26 di maggio l’Arcivescovo Varesini cresima a S. Nicolò 1.200 individui: un’intiera popolazione!

• Telegrafo

Il 17 di giugno il Municipio supplica il Ministro dei Lavori pubblici perché la linea del telegrafo (già a buon punto fra Cagliari e Sassari) sia prolungata sino a Portotorres, e ciò per considerazioni anche politiche, oltre le commerciali. I lavori d’impianto del telegrafo in Sardegna erano cominciati nel febbraio, per conto della privilegiata Compagnia Brett, sotto la sorveglianza governativa dell’Ingegnere Giuseppe Panzarasa.  

• Amore e morte

Lui era un giovine ed avvenente ufficiale; lei una bellissima e buona fanciulla; entrambi appartenevano a due famiglie patrizie. Michele Delitala e Minnia Quesada si erano veduti ed amati. In lei l’amore era soave come la sua anima; in lui era ardente come il suo carattere; quello di Minnia era l’amore della domestica colomba; quello di Michele l’amore di un tigre nel deserto.
Si vedevano spesso; ed egli spesso frequentava la casa della fanciulla, della cui famiglia era amico. Se però i genitori di Minnia nutrivano della stima per Michele, non la nutrivano a segno da affidargli il destino della loro figliuola.
Un giorno Michele si fece coraggio e chiese per due volte alla madre la mano della fanciulla. La madre per due volte gliela ricusò recisamente, dicendo essere altra l’intenzione della famiglia.
Michele credette diventar pazzo. Era lontano dall’idea d’un rifiuto! Sentì il sangue salirgli alla testa, e uscì di casa in preda ad un’agitazione febbrile. Si diede a correre per le vie come un forsennato, giurando in cuor suo di sterminar tutta la famiglia, ove non gli si fosse concessa la donna ch’egli adorava.
La mattina del 30 agosto, si armò d’uno stile e di due pistole e corse alla casa Quesada con propositi feroci. Chi sa? Forse si era ingannato; forse la madre, pentita del rifiuto, aveva in animo di riparare alla sua durezza.
Suonò il campanello, e gli venne aperto. Per la prima gli si presentò la madre; a cui egli ripetè con calma la domanda. N’ebbe la stessa risposta; e allora, senz’altro, tolta una pistola la puntò verso di lei. La figlia Minnia, che vide il movimento, gettò un grido, e corse a mettersi dinanzi alla madre per salvarla. Il colpo partì, ed il piombo penetrò nel seno della fanciulla, verso la spalla. Né il pallore di Minnia, la quale vacillava, né il sangue che da lei usciva a fiotti bastarono a calmare il furore del tigre. Michele era cieco d’odio e di rabbia; e tratta la spada, ferì la madre, ferì la domestica che gridava al soccorso, fece altro sparo sul padre e sullo zio che erano accorsi al rumore, e poi tentò più volte di togliersi la vita.
La povera fanciulla, in mezzo a quel massacro, non faceva che correre dall’uno all’altro dei feriti, invocando da Dio soccorso per essi e dimenticando sé stessa.
Tuttala città fu profondamente impressionata da questo tristo caso e compianse la povera fanciulla, tanto amata e stimata in paese per le rare doti di cuore e di mente. Ella sostenne con coraggio e rassegnazione lo strazio del coltello cerusico che le estraeva il piombo! Tutti gli altri erano stati feriti, più o meno leggermente; a Minnia sola – a 19 anni e nel fior della bellezza – toccò scendere nelle ombre del sepolcro, compianta dall’intiera popolazione. Morì il 5 di settembre, dopo sei lunghi giorni di spasimi, e dopo aver perdonato a lui – all’uomo che l’aveva colpita.
Michele fu subito arrestato; e, tre anni dopo – come vedremo – scontò sul patibolo il suo atroce delitto.

• Timori di cholera

Nei primi di agosto comincia a circolare in paese la notizia di molti casi di cholera in Italia, e il Municipio se ne occupa molto. Fin dal 20 luglio si erano pubblicati manifesti con prescrizioni d’igiene e con raccomandazioni di pulitezza per la città. II 21, impressionati dal cholera in Francia, i consiglieri implorano dal Ministero di venir ridotto ad uso di Lazzaretto il Bagno, o Quartiere di Portotorres. Scoppiato il cholera nel continente italiano, si creano cinque Commissioni parrocchiali di 5 individui per ciascuna, le quali, con visite giornaliere, debbono sorvegliare la pulizia delle case, delle vie, e provvedere. Si domandano all’Intendente cinque militari, anche del Corpo invalidi, per accompagnare le Commissioni, non potendo distrarre le sei Guardie Civiche, appena sufficienti per la beccheria, pescheria, mercato e servizio trasporto immondezze. Il 2 si forma un Comitato di sorveglianza per la salute pubblica. – Si scrive per pulir cessi; si pensa alla somministranza del pane, che mancava. Il 23 agosto giunge la notizia del cholera alla Maddalena; si esagera; si scrive a Luras, Martis, dove si credeva fossero morti degli individui; giunse intanto la notizia di alcuni casi a Cagliari. Il Consiglio si riunisce il 23, e delibera di far assoggettare al soffumigio la valigia, e a quarantena i passeggieri di Cagliari; le autorità vi si oppongono, e si scrive al Ministro dell’Interno. – Il 7 settembre il Consiglio delibera di inviare due medici a Cagliari per studiarvi la malattia che vi domina.
Insomma, per tutto il rimanente dell’anno, non vi fu quasi altra preoccupazione nel Municipio; basti accennare, che il 9 dicembre si scrisse all’arcivescovo, perché, in vista della minaccia del morbo, si concedesse la facoltà di poter far uso dei cibi grassi nella quaresima del prossimo anno 1855!
Oh, se l’attività spiegata nel 1854 si fosse spiegata nell’anno seguente, forse questo terribile morbo, non avrebbe mietuto tante vittime nella città di Sassari!

• Garibaldi a Sassari

La sera del 15 dicembre, un insolito movimento notavasi lungo il Corso. La notizia dell’arrivo di Garibaldi, il quale veniva per visitar Sassari, aveva chiamato molti curiosi verso Campo di Carra e Porta S. Antonio. Tutti volevano conoscere il prode nizzardo, che a Roma, nel 1849, aveva valorosamente combattuto contro le truppe francesi, capitanate da Oudinot. Giuseppe Garibaldi attraversò a piedi il Corso, in compagnia di sua figlia e di due amici inglesi. Vestiva alla cacciatora, in modo singolare; aveva un fucile ad armacollo. Chi mai, in quel modesto viaggiatore, avrebbe presentito il futuro Duce dei Mille, o il fiero leone d’Aspromonte, di Mentana, di Digione?
Garibaldi e gli altri ospiti presero alloggio nella Locanda d’Italia di fronte all’attuale via di S. Chiara. All’indomani, sull’imbrunire, gli si fece una serenata, a cui assistette una gran folla.

• 1855. Diverse notizie

L’anno 1855 è memorabile per il cholera, che a Sassari fé strage nel mese di agosto. Dovendo alquanto soffermarci su questa dolorosa rubrica, diamo brevemente alcune notizie di fatti, che precedettero la comparsa del terribile morbo. Il 6 di gennaio si fecero le prime prove del telegrafo, ch’ebbero un risultato soddisfacente. La popolazione tutta, e in ispecie i commercianti, plaudirono a questa nuova istituzione apportatrice d’immensi benefizi.
Nel giro di quattro settimane si fecero a Sassari quattro solenni funerali: – il 12 febbraio quello della regina Maria Teresa, madre di Vittorio Emanuele, morta il 12 gennaio; – il 16, quello della regina Maria Adelaide, moglie dello stesso re, morta il 20 di gennaio: – il 3 marzo quello del Duca di Genova, fratello del re; e finalmente il 20 marzo i funerali del Prof. Giuseppe Siotto Pintor, morto a Cagliari il 7 dello stesso mese. Quest’ultima fu un’affettuosa commemorazione fatta dalla cittadinanza in omaggio al Deputato cagliaritano, il quale sostenne la causa dei Sassaresi per i fatti del ‘52.
Il 3 marzo inaugurazione della nuova strada da Sassari ad Alghero. Il Municipio sassarese scrive al Sindaco della città sorella, facendogli auguri e complimenti. Il 24 marzo nuova lettera del Municipio ai Deputati di Sassari per la solita soppressione della Corte d’Appello. Il 21 giugno il Municipio, spinto dal Gremio degli agricoltori, si rivolge all’Arcivescovo pregandolo di chiamare con le preci la pioggia, raccomandando ai preti di recitare nella messa la solita orazione: pro aeris serenitate