Sassari Spagnola

• 1665. Carlo II

Per la morte di Filippo IV, il trono spettava a Carlo II, di età illegittima, di spirito debole ed ignorante. Inetto, egli non governò popoli; – governò per lui la mamma, Maria Anna d’Austria – e per la mamma i suoi Ministri. Intenta nella guerra di Francia, questa donna non si ricordò mai dei Sardi, se non per domandar loro danari e vettovaglie. I cattivi rappresentanti del Re e i pessimi ufficiali regi abusarono del potere; e gli animi esacerbati dei Sardi prorrompevano in odi privati, fazioni e uccisioni.

• Le chiavi d’argento

Appena il Viceré di Cagliari partecipò che prendeva possessione del Regno in nome di Carlo II, il Sindaco di Sassari presentava subito colà le chiavi d’argento ed un donativo; precisamente come si era fatto per Filippo IV. Pare che il Sindaco di Sassari avesse sempre le chiavi d’argento in tasca, nella speranza che un nuovo Re accordasse finalmente il desiderato favore di poter riunire il Parlamento nella capitale del Logudoro!

• 1668. Il Marchese di Laconi a Sassari

Il 20 aprile di quest’anno, di ritorno da Madrid, entrava in Sassari, per la via di  Portotorres, Agostino Castelvì marchese di Laconi (di cui abbiamo fatto menzione nell’anno 1656). Egli veniva accolto dai Sassaresi con molti onori, e salutato col nome di Padre della patria.
Accompagnato quindi da molti nobili, il Laconi fece un giro per il Logudoro, e dovunque si ebbe ovazioni, onori e chiassose dimostrazioni di affetto. Tanta gloria non aveva mai illustrato alcun altro sardo scrisse l’Angius. Dopo un mese di giro, di villaggio in villaggio, si ridusse a Cagliari, dove arrivò il 20 Maggio.
Siccome in quest’ultima città si svolsero i tristi avvenimenti in cui il suddetto personaggio ebbe una delle parti principali, credo conveniente tornare indietro di due anni per raccontarvi in succinto il dramma più lugubre che abbia funestato il secolo XVII: – dramma complicato, di cui qualche filo fece capo anche a Sassari.

• Un passo indietro

Siamo in Cagliari. Si erano convocate le solite Corti generali. Marianna d’Austria (che reggeva la monarchia spagnuola in nome di Carlo II, allora fanciullo) avendo urgente bisogno di soldi per le spese della guerra colla Francia, pensò pure alla Sardegna, e le chiese sussidi.
Il Marchese di Laconi, di cui abbiamo più sopra parlato, il quale era allora prima voce, ossia Capo dello Stamento militare (composto di tutta la baronìa e nobiltà sarda) alzò la voce da vero patriotta; e disse, che i soldi si sarebbero dati, a condizione però che il Gabinetto di Madrid garantisse all’Isola gli antichi privilegi, e ne concedesse dei nuovi – primo dei quali la solita privativa delle cariche civili e prelature dell’Isola che dovevano concedersi ai Sardi: – vecchia domanda fatta le mille volte, e lasciata sempre in asso. I Sardi – in poche parole – coglievano la circostanza delle strettezze del Governo, per ottenere da esso ciò che non avevano ottenuto in tempi di benessere.
Accadde qui un po’ di battibecco negli Stamenti. Il viceré Camarassa, che naturalmente stava col Governo, si formò un partito, ponendovi a capo il Marchese di Villasor. Il Laconi, dal suo canto, formò l’altro; e la sua voce fu così fiera e dignitosa, che prevalse sulla maggioranza. Egli stesso fu eletto Sindaco presso la Corte di Madrid per trattare gli interessi della Sardegna, e nel febbraio del 1667 si portò nella Spagna per offrire alla Regina i sussidi ed i patti.
Per un anno e parecchi mesi il Laconi stette in Ispagna; picchiò, parlò, ma fu un gridare al vento. Marianna stette dura, e rispose ai Sardi: non possumus: danari a me, si! – privilegi a voi, no! Il Laconi allora lasciò la Spagna per tornarsene in Sardegna.
Sbarcò in Portotorres, e noi lo abbiamo veduto in Sassari e nel Logudoro, salutato da tutti per la fermezza dei suo carattere e per l’energia del suo vero patriottismo.

• Il Laconi a Cagliari

Sbarcato in Portotorres, fatto un giro nel Logudoro, e arrivato a Cagliari nel 20 maggio 1668, il Laconi vi fu ricevuto con molti onori. Si presentò al Parlamento, che ancora era aperto. Le discussioni si fecero più vive, clamorose; e il viceré Camarassa, vedendo ormai inutili tutti i suoi mezzi usati per ricavare danaro dalla Sardegna, sciolse addirittura le Corti. I nobili ed il popolo, irritati da una risoluzione così violenta, mormorarono contro il Viceré, chiamandolo superbo, insolente, e peggio – e il Viceré, rendendo pan per focaccia, contraccambiò e nobili e popolo con disprezzo insolente e con invettive. Egli rappresentava il Governo e doveva fare così!
Eccovi dunque il viceré Camarassa e il Marchese di Laconi, l’uno in faccia all’altro, nell’atteggiamento di due feroci mastini, sotto gli occhi di tutti i Sardi. Lasciamoli cosi. Vedremo come di un tale atteggiamento seppe giovarsi qualcuno.
Penetriamo ora nel santuario degli affetti domestici, dove fu covato il nero dramma.

• La moglie e l’amante

Il suddetto Marchese di Laconi, già vedovo di Giovanna Dexart (la figlia dell’illustre Giureconsulto) aveva sposato in seconde nozze Francesca Satrillas dei Conti di Settefuentes, di Cuglieri – una bellissima donna, piena di spirito, romantica e capricciosetta. Non so dirvi, se l’affetto e la concordia regnassero in questo matrimonio: – so dirvi solo, che il Laconi, oltre la qualità di marito, aveva pur quella di zio della Francesca – e di più una sessantina d’anni sulle spalle.
Giungeva intanto in Cagliari, dalla Sicilia, Don Silvestro Aymerich, il quale possedeva tante bellissime qualità: – aveva 24 anni, era avvenente, capitano dei fanti spagnuoli, e per giunta cugino della bella Marchesa.
L’elegante Don Silvestro fu subito colpito dall’avvenenza della cara cugina, e non mancò di farle una corte feroce.
La bella Francesca (che forse da qualche tempo cercava il suo Paolo) si lasciò intenerire dalle languide occhiate del giovane innamorato, al quale non fu certo avara di sguardi e di sorrisi. Questi piccoli attestati di simpatia presero allarmanti proporzioni, e i due bei cugini finirono per amarsi teneramente, celando nel silenzio e nel mistero i palpiti del loro cuore.
Il diavolo però, che si diverte a mettere la coda fra le gambe della gente, soffiò in queste due fiamme, e creò l’occasione. E l’occasione fu la partenza del predestinato Marchese di Laconi per la Spagna. Durante l’assenza del marito gli amori dei cugini presero serie proporzioni; non si badava più tanto per il sottile, né si cercava di deludere la curiosità del pubblico; motivo per cui tutta Cagliari era a giorno della corrispondenza illecita del Capitano colla Marchesina Laconi.
E pur troppo era così! Mentre il povero marito perorava presso la Regina di Spagna gli interessi della sua patria, la moglie infedele comprometteva in Cagliari gli interessi del Marchese col giovane Aymerich. Ricompensa questa di tutti gli ambasciatori del mondo!
E per un lungo anno e più mesi splendette la luna di miele sul cielo dell’amore, non turbato da una nube importuna – cioè a dire, dalla presenza del marito.

• Il ritorno del marito

Tornò intanto il Laconi dalla Spagna per dar conto al Parlamento dell’esito della sua missione.
Egli gioì nel sentirsi chiamare dai Sardi padre della patria – ma non tardò ad accorgersi che aveva cessato d’essere il marito di sua moglie!
Gli bastarono pochi giorni per accertarsi del cambiamento della moglie e del nuovo affetto che ne era stata la causa. O forse, (ed è più probabile in simili casi!) non gli sarà mancato il nemico affettuoso che l’avrà messo a parte di tanta novità. Il povero Marchese si accorò e ne pianse; e, rassegnandosi al suo destino, sacrò tutto il suo amore alla donna che mai lo aveva tradito – alla sua patria.

• L’assassinio di Laconi

L’amore di Francesca e di Silvestro si era fatto gigante. Il ritorno del marito aveva diminuito le occasioni – e da ciò ansie, crucci, disperazione. Alla loro felicità si era opposto un ostacolo – – un ostacolo insormontabile: il consorte. Che fare? – Un pensiero infernale attraversò la mente dei due amanti: – togliere di mezzo quell’ostacolo.
Ma come? – Il momento era opportuno, poiché la loro buona stella aveva provocata l’occasione. Furono prezzolati dei sicari. Era appena da un mese arrivato il marito, ma non bisognava più oltre diferire. L’Aymerich, freddamente, aveva tutto calcolato; egli voleva allontanare ogni sospetto nella cittadinanza, e ne trovò il facile mezzo.
Le Corti erano sciolte – l’odio tra il viceré Camarassa e il Marchese di Laconi era noto a tutti: – l’assassinio per amore doveva prendere il nome di assassinio politico.
E il 20 giugno di quell’anno stesso,1688, a un’ora dopo mezzanotte, fu consumato il delitto. Mentre il Marchese, in compagnia di due servi, usciva da una conversazione e si dirigeva alla sua casa, veniva ferito a morte dal ferro d’infami sicari.
E la voce pubblica (come avevano previsto i due cugini) non tardò ad accusare il vero assassino di Laconi: il viceré Camarassa, anzi i coniugi Camarassa, perché si sapeva che anche la moglie di quest’ultimo aveva qualche ruggine contro all’ucciso per private cagioni. Non mancò pure chi dell’assassinio incolpasse il drudo e la moglie infedele, dicendo che: «non l’animoso oratore dello Stamento militare, ma il marito infelice essere stato dai sicari colpito».

• Congiura a Cagliari e tumulto a Sassari

Spento il Marchese di Laconi, i suoi fautori pensarono subito a vendicarlo.
Si cospirò contro il Camarassa, e si scelse per convegno la casa della vedovella, la quale sedusse e trasse dalla sua parte il vecchio Marchese di Cea, Don Antonio marchese di Villacidro, Don Francesco Cao, Don Francesco Portoghese e Don Gavino Grisoni.
Nella congiura presero parte anche molti sassaresi e logudoresi; fra i primi, si indica da qualche storico lo stesso Pietro Vico (figlio dello Storico) Arcivescovo di Cagliari, il quale, (dice l’Angius) dimenticando la sua carica, avrebbe voluto che il popolo avesse svenato molte vittime. Complici dell’uccisione del Laconi furono riputati fra gli altri Antonio Molinos e Gasparo Nino, che il Viceré, incautamente, aveva congedati perché si salvassero nella Spagna.
In Sassari qualcheduno aveva sospettato che i suddetti fuggitivi (che veramente si designavano come due cattivi soggetti) invece di essere partiti per la Spagna, fossero sbarcati in Portotorres per nascondersi nella casa di un Matteo Pilo, amicissimo del Molinos.
Questo sospetto si sparse rapidamente per la città, già indignata per l’assassinio del Marchese – e tutta la popolazione si alzò a tumulto, volendo vendicare il padre della patria, e conoscendo il Pilo come nemico del Laconi e delle sue idee generose. Armarsi, correre a Portotorres e domandare al Pilo i due ospiti, furono cose di un momento. Se alcuni cittadini rispettabili di Portotorres non avessero frenato la moltitudine, certo quegli arrabbiati avrebbero fatto a pezzi e bruciato il Pilo. Fatto è, che il poveretto, tremante dalla paura, dovette starsene per sei lunghi mesi nascosto in un cantuccio, e mantenere molti armati per guardare l’ingresso della sua casa, che più volte avevano tentato di sforzare.
Il Sindaco di Sassari, appena udita l’uccisione del Laconi, lasciò Cagliari e se ne ritornò prestamente in patria, temendo che lo cogliesse il pugnale assassino che aveva spento il suo amico; e per paura che non lo avvicinasse qualche misterioso emissario, stipendiava e teneva intorno a sé molti armati.

• Assassinio del Viceré

Il grido della vendetta sorgeva da tutte le parti; si domandava il sangue del supposto assassino del difensore dei dritti della nazione. I congiurati stimolarono il venerando Marchese di Cea, stretto parente del Laconi, e gli commettevano la vendetta. Il Conte di Sedilo, per animarlo, gli proferiva le sue sostanze e il suo sangue con una lettera che gli mandava per mezzo di un frate minore; il quale frate aggiungeva nuovi stimoli, dicendogli essere venuto da Sassari per trucidare il Viceré, come di un’azione meritoria. Vedete bene com’erano turbate le menti, anche delle persone religiose!
Era un vero fanatismo. Pareva che coll’assassinio del Viceré dovessero per tutti spalancarsi le porte del Paradiso!
Il colpo veniva affidato ad un certo Antioco Dettori di Cuglieri, servo di Don Antonio Brondo e vassallo dell’avvenente vedovella; il quale Dettori, ricevuta la somma di duecento e più scudi dalla Francesca, raccolse a sé d’intorno i suoi bravi, e aspettò dalla sua casa il passaggio del Viceré.
Il 21 luglio del 1688 (un mese dopo l’assassinio del Laconi) mentre il viceré Camarassa, colla moglie e quattro figliuoletti, tornava in carrozza dalla Novena del Carmine, si udirono dalla casa del Dettori le detonazioni di cinque carabine, e il Viceré cadeva estinto fra le braccia della moglie, colpito da diciannove ferite.
Assassinato il Viceré, Capo del Governo, partì subito da Sassari, per Cagliari, Don Bernardino di Cervellon per assumerne il comando; e, complice coi rei (perché stretto parente del Marchese di Cea, e di fama sinistra) studiò cuoprire gli autori del delitto, infamando il defunto Camarassa come mandante dei sicari che avevano spento il Laconi. Egli cercava di salvare tutti; anzi consigliò il Marchese di Cea a ritirarsi in Sassari, fra quei cittadini devoti alla causa nazionale; e di là portarsi in Ozieri, dove doveva raccogliere molti armati per atterrire il nuovo Viceré, se per caso fosse stato rigoroso.

• Il Marchese di Cea

Questo rispettabile vecchio, meritatamente amato e stimato da tutti, che era stato per circa quarant’anni Procuratore Reale e Giudice del Reale Patrimonio, fu per fatalità trascinato in questa brutta faccenda, e costretto a correre di qua e di là, affascinato dalla sua carissima e bellissima nipote che aveva sempre creduto un fiore di virtù.
Docile al suggerimento del Cervellon, si recò per mare ad Alghero, e da Alghero a Sassari. Fu accolto con grandi onori. Uscirono a riceverlo i Consoli del Municipio; e tutto il popolo, gli stessi preti ed i frati lo lodarono, acclamandolo vendicatore dell’atroce ingiuria patita dalla nazione. Per salutarlo, concorrevano a Sassari tutti i baroni, cavalieri e ragguardevoli personaggi del Capo Settentrionale, e gli proferivano tutti aiuto d’armi e di danaro, eccitandolo quasi a muovere verso Cagliari e ad impadronirsi del Governo. Il Marchese però titubava, poiché, da qualche lettera anonima ricevuta (secondo l’Angius) o da un frate cappuccino di Cuglieri (secondo il Manno) aveva conosciuta a punto fisso la tresca della sua nipote, vedova di Laconi, col cugino Silvestro Aymerich, nonché la vita scandalosa che questi facevano a Cuglieri; e cominciò a sospettare dei veri assassini del povero Marchese. «Può pensarsi (dice molto bene il Manno) in qual abisso sia allora piombato l’infelice vegliardo, trovandosi, non più vendicatore di chi aveagli ucciso il nipote, ma complice e protettore di chi glielo aveva disonorato!».

• La giovane vedova

Lasciando il Marchese di Cea coi suoi pensieri ed il rimorso di averla fatta grossa, torniamo alla coppia dei felici amanti. La giovine e bellissima vedova Laconi, che era la causa occulta di questi fatti luttuosi, usciva tranquillamente da Cagliari, e insieme al suo diletto cugino, e colla di lui madre, si ritirava nel suo Marchesato di Sietefuentes, nelle vicinanze di Cuglieri, per godere de’ suoi dolci amori sotto il suo cielo natio. Non aveva neppure il pudore di occultare le sue tresche; acciecata dalla passione, e nella ebbrezza della voluttà, si faceva vedere in pubblico con un’allegra brigata di amici, folleggiando, ridendo, e suonando la chitarra – di null’altro preoccupata che delle carezze e dei baci del suo caro cugino.
Lasciato scorrere un po’ di tempo, fece correre voce di voler sposarsi a Silvestro.
Avvisato il Marchese di Cea della decisione della nipote, pensò subito di porvi riparo, prevedendo che quel matrimonio, oltre dar fede alle voci che correvano per la perfidia verso l’assassinato marito, finirebbe per indebolire il partito. Scrisse molte lettere alla nipote, pregò, pose in opera la sua autorità di zio, ma tutto fu vano: – la vedovella stette salda. Finalmente il Marchese tentò un ultimo mezzo.
Cercò lusingare la vanità della vedovella, proponendole la mano del potente e gentilissimo Conte di Sedilo, il quale da molto tempo s’era innamorato della bellezza e dello spirito della Francesca Satrilla. Anzi il Conte era partito da Sassari per Cuglieri collo scopo di rivederla ma fu ricevuto con sfregi e modi inurbani. Essa finì per minacciare il Conte pretendente e l’amatissimo zio, e decise senz’altro di sposarsi col suo Silvestro per togliersi a tante seccature.
Il Marchese di Cea, vedendo nella divisione degli animi la sua rovina, pensò che il meglio che gli restasse a tentare era una riconciliazione; e diffatti ebbe la debolezza di far la pace e colla Marchesa e coll’Aymerich. Si recò in casa loro, e concertò forse il modo di nascondere il delitto, o di evitare la pena.
Un delitto tirò l’altro. La Satrillas fece uccidere il suo vassallo Dettori, il Capo dei sicari impiegati nell’assassinio del Viceré; e ciò perché si era lasciato uscire di bocca qualche espressione che la comprometteva.
La Regina di Spagna intanto, spediva nell’agosto a Cagliari, con pieni poteri, il Duca di San Germano per punire inesorabilmente e con grande esemplarità i colpevoli dell’uccisione del viceré Camarassa. Bernardino Cervellon e l’arcivescovo Pietro Vico, saputa la nomina di un uomo energico come il San Germano, esortarono il Marchese di Cea perché levasse il vessillo della rivolta e corresse, senza perder tempo, ad occupar Cagliari. Come vedesi, il Governo Spagnuolo era stato sempre in uggia ai Logudoresi. Il Marchese però non volle far ciò. Nell’animo del buon vecchio si era per fermo spento il giovanile entusiasmo di far valere i dritti della sua patria. Ben la sua coscienza gli diceva, che era stato la vittima di un crudele inganno!

• 1669. Si comincia la caccia

Il viceré San Germano aspettò che cessassero alquanto i turbamenti, quindi si pose all’opera.
Per scemare la potenza dei profughi congiurati cominciò col promulgare un indulto per ogni sorta di delitti, meno quello di crimenlese.
Nominò quindi tre Commissari: Don Giacomo Alivesi, Don Nicolao dell’Arca e Don Antonio Pedrassa, incaricati di perseguitare le masnade.
L’Alivesi suddetto, di cui parleremo più tardi, era stato assolto de’ suoi misfatti perché si era esibito alla nobile impresa: da perseguitato divenne persecutore. Radunata la Giunta patrimoniale in Cagliari il 1 luglio, gli avevano fatto consegnare 260 scudi per le spese del viaggio. I congiurati, fra cui l’arcivescovo Vico e Cervellon, per mezzo del Marchese di Monteleone, spinsero il Marchese di Cea a tendere insidie al Marchese di Villasor, ad assalirlo, e a ritenerlo in ostaggio della comune salvezza. E il Cea mandava l’Aymerich, il Portugues e il Cao con duecento cavalli. Ma il Villasor, avvertito, non uscì da Cagliari.
I suddetti tre Commissari si erano accinti all’opera, e nel loro viaggio fecero per dispetto molte grassazioni ed anche omicidi.
Dalla Spagna e da Napoli arrivarono intanto truppe regie, e il Viceré cominciò allora le sue operazioni contro i complici, e mandò a perseguitare il Cea nel Logudoro.

• Un primo pentimento

La bella adultera, che trovavasi sempre presso Cuglieri, avvertita che era cercata, balzò una notte dal letto, e, mezzo discinta, seguita da pochi servi, andò a ricoverarsi in una spelonca, maledicendo il suo seduttore che era assente. Richiamato egli in Cuglieri da sua madre, lasciò subito Cagliari dove si trovava, ed ebbe ad udire gli acerbi rimproveri dell’amante che lo ricevè nella spelonca. Il bel cugino portò allora la sua bella in luogo sicuro, sulle cime di una montagna, e la fece guardare da pochi suoi fedeli, aspettando una favorevole occasione per trasportarsi oltre mare.
L’occasione non tardò a presentarsi; e i due amanti, col mezzo di una gondola, riuscirono a toccar Livorno.

• Sentenza

Pertanto dai congiurati (primo dei quali l’arcivescovo Vico, sassarese) si tramarono contro il San Germano dei tranelli che andarono a vuoto. E per farla finita, lo stesso Viceré, ai 18 di Giugno, pubblicò la sentenza contro il Cea, Aymerich, Brondo, Portugues, Cao e Grisoni, come assassini del Camarassa, lasciandoli alla pubblica vendetta, e ordinando pene severissime a chi li difendesse o favorisse. Promise poi seimila scudi a chi consegnasse vivo il Cea nelle mani della Giustizia, oltre la propria salvezza, e quella di dieci altri inquisiti e condannati.
Qui è da notare un fatto degno di menzione. Fra i moltissimi banditi che allora funestavano il Capo Settentrionale, non ve ne fu uno che abbia tentato redimersi a prezzo di un sì turpe tradimento.
Il Cea era difeso dagli Ozieresi – e gli Ozieresi erano preparati a difenderlo da qualunque persona; né la minaccia del Viceré di saccheggiare il loro paese, bastò a rimuoverli dal loro proposito.
Il Cea lasciò Ozieri, e si ritirò nei boschi di Montenero; poi si celò nelle rovine dell’antico castello d’Orgari, protetto da tutti i banditi della Gallura e del Logudoro. Tentarono prenderlo, ma invano.
Furono violate le celle dei Cappuccini di Ozieri, dove il Cea si era celato, ma sempre inutilmente. Il Viceré in persona andò sul luogo, minacciò, promise ricompense e perdono – ma né per minaccia, né per perdono i banditi sardi tradirono il loro ospite.
Lasciato il Montenero, il Cea coi suoi colleghi vennero in Sassari; il Marchese si occultò nella casa di un amico, e gli altri ripartirono per Cuglieri, e di là fecero vela per Alassio, e da Alassio se ne andarono a Nizza, dove la Francesca e il caro cugino Silvestro si unirono finalmente col santo vincolo del matrimonio. Il Manno dice, che il matrimonio dei due amanti assassini si era celebrato regolarmente in Cuglieri; il Gazzano e l’Angius invece li fanno sposare in Nizza, ciò che mi pare più probabile. Il primo di questi ultimi storici dice anzi, che a Nizza si fecero le pratiche col Papa per la dispensa, la quale fu loro accordata il 13 Novembre 1669.

• 1670. Cominciano le pene

Dopo essere stato tre mesi a Sassari, nel nascondiglio della casa del canonico Uselli, suo intimo amico, la quale era continuamente adocchiata dai soldati, il Marchese di Cea si portò di nuovo nelle selve di Monteacuto e in Gallura. Il Viceré, in quel frattempo, ordinò la vendita di Cuglieri e di Escano contenuti nel Marchesato della Francesca Satrillas.
Il vecchio Marchese di Cea, sempre inseguito come una belva, vagava nel Logudoro, da montagna in montagna, da bosco in bosco, fra i disagi di una durissima vita. Una notte, finalmente, del mese di giugno, travestito da marinaio e in compagnia di un solo servitore, riuscì a toccare la terra di S. Bonifacio in Corsica, e di là s’imbarcò per Nizza, dove raggiunse i suoi compagni di delitto e d’infortunio.
Disperando il perdono, i congiurati tentarono di far cadere la loro patria in potere della Francia. L’iniziativa di questo pazzo disegno toccò a Don Silvestro, il quale si recò da Ippolito, comandante di una squadra francese, ed esposte le condizioni della Sardegna, supplicò per sé e per i compagni, che loro conciliasse il Re, e lo persuadesse ad accettare l’offerta.
Si continuava sempre a dar la caccia ai banditi. Allora, come in altri tempi, si usava questo mezzo morale; disperando di cogliere i malviventi, i Regi Ministri invitavano gli inquisiti all’arresto dei loro compagni, dando loro ampia facoltà di vagare dappertutto colla sicurezza di non essere arrestati!
Il Re cominciò pertanto a lanciare i suoi fulmini sui congiurati. Il Cervellon, già governatore del Regno, veniva gettato nelle prigioni di Stato, a Cagliari; il Zonza, sassarese, già generale comandante le milizie logudoresi, incatenalo e condotto da Sassari alle prigioni di San Pancrazio in Cagliari, e poi esiliato col suo concittadino Francesco Cao, uditore della sala comunale nella Regia Ruota; Pietro Vico, sassarese, arcivescovo di Cagliari, chiamato in Ispagna; e così dì molti e molti altri. E tutti i Sardi si lamentavano contro le atrocità e iniquità del Viceré che spingeva all’eccesso il suo rigore. Bastava la relazione di una semplice spia (che talvolta era il piùvolgare assassino) perché rei o innocenti fossero presi e torturati. S’impiccava, che era un piacere! Per avere un’idea delle iniquità commesse, basti solo sapere, che il Vescovo di Ampurias, nel seguente Parlamento, ebbe altamente a dolersi perché nell’angustissima piazzetta di Castellaragonese (Castelsardo) si erano lasciati appesi per lungo tempo i cadaveri dei condannati, e i loro quarti, che viziando l’aria con intollerabile fetore, potevano nuocere alla salute pubblica.

• 1671. Un nuovo Ramengo da Casale

In quest’anno doveva compiersi lo scioglimento del lugubre dramma incominciato cogli amori della bella Francesca Satrillas.
Don Giacomo Alivesi, da noi già menzionato, uomo di trista natura che aveva macchiata la sua vita con ogni sorta di misfatti, e che aveva assunto il vile incarico di perseguitare e dare in mano della Giustizia i complici dell’assassinio del Camarassa, pensò di compiere il suo disegno col più infame dei mezzi.
Essendo egli venuto a conoscenza, che Don Francesco Cao, uno degli imputati, trovavasi a Roma, l’Alivesi si portò colà; e avvicinato il Cao, si disse fuggitivo e tenero della sua causa e di quella dei suoi compagni. Insomma, impiegò tant’arte, dimostrò tanta amicizia per il Cao, che questi finì per accordargli tutta la sua confidenza. L’Alivesi allora fìnse svelare al povero illuso il suo progetto, che era quello di tornare in Sardegna, di raccogliere gli amici che già aveva a sua disposizione, e per mezzo di essi, o trattare il perdono, o correre alla capitale per opprimervi il tiranno Viceré. Il Cao si lasciò convincere, e seguendo il consiglio del falso amico fece vela per la Corsica. Di là chiamò da Nizza il Marchese di Cea e Don Silvestro, i quali, poco dopo, furono raggiunti dal Portugues che si trovava in Costantinopoli.
Eccoli tutti riuniti in Corsica, per poter meglio indirizzare le cose nella vicina Sardegna – come diceva l’Alivesi. La sola Francesca Satrillas era rimasta in Nizza, aspettando un avviso per portarsi nell’Isola. Riuscito in questo primo piano, il vile traditore si rivolse ad un suo intimo confidente, Don Gavino Delitala, raccomandogli di tenersi pronto colla squadriglia armata nel porto di Lixia; ciò che il sicario eseguì fedelmente. Lo stesso Alivesi si teneva intanto in segreta corrispondenza col Viceré, informandolo minutamente dello stato delle cose.
Poco a poco, con arti ed astuzie, il falso amico indusse i quattro congiurati ad avvicinarsi all’Isoletta Rossa, di fronte a Castellaragonese.
Attorno a quello scoglio, celate e pronte ad un suo cenno, stavano alcune barchette colla squadriglia di Don Delitala.
Si appressava la notte. I cinque individui, compreso il Giuda, cenarono allegramente presso ad una capanna, e si parlò del terrore che avrebbe provato il Viceré quando li avrebbe veduti a capo di tanti armati. La stanchezza finalmente li vinse, e presero un po’ di riposo.
Era verso la mezzanotte del 26 maggio. Tutti dormivano – meno l’Alivesi. Ad un suo cenno Don Gavino Delitala fece accostare le barche – e, poco dopo, quello scoglio solitario e silenzioso risuonò di armati.
I quattro disgraziati non ebbero che il tempo di aprir gli occhi. Il  Marchese di Cea, che si voleva vivo, fu legato dallo stesso Alivesi coll’aiuto d’altri sicari; agli altri tre, dopo averli feriti nel cuore, fu mozzato il capo.
Ciò fatto, s’insilarono sulle picche le teste dell’Aymcrich, del Cao e del Portugues; e, preceduta da quest’orribile trofeo, la schiera vigliacca capitanata dal trionfante Alivesi si pose in marcia, conducendo legato il vecchio Marchese di Cea.

• La marcia trionfale

La sera di quello stesso giorno, 26 maggio, il valoroso Alivesi colla schiera dei prodi vincitori entravano in Sassari, dopo una lunghissima marcia a piedi.
Il domani fu eretto un apposito palco appiè dei gradini della chiesa di Santa Catterina (oggi Piazza Azuni). Su quel palco fu esposto il pallido ed affranto Marchese di Cea in mezzo alle tre picche che sostenevano le tre teste sanguinose.
I pubblici Banditori, di tanto in tanto, gridavano con quanto fiato avevano in corpo i nomi dei quattro infelici, il loro delitto e la pena, per servire di esempio al popolo che, inorridito, era stipato nella Piazza Santa Catterina e lungo il Corso. Esso fremeva d’indignazione compassionando la sorte del povero tradito, e imprecando con orrore al traditore Alivesi, che chiamavano la vergogna della loro città!
Da Sassari, a piedi, il Marchese fu portato in Alghero, e da Alghero a Cagliari, sempre esposto alla berlina, sempre preceduto da quelle tre teste, le quali, dopo una marcia di dodici giorni, erano orribili a vedersi! Al mezzodì del 15 giugno 1671, nella Piazzetta, in Cagliari, il carnefice troncava la testa al Marchese di Cea, vecchio di 65 anni.
«Il povero Marchese – dice il Manno – mostrò nella rassegnazione dell’animo e nella dignità del volto, essere un uomo tale, che non meritava, né di essere spinto al delitto con un inganno, né di essere condotto al supplizio con un tradimento».

• Chiusura del dramma

E l’adultera? – e il traditore? La Francesca Satrillas, unica causa di tanto eccidio, rosa dai rimorsi, si chiuse in un monastero di Nizza per espiare il suo delitto; e la cronaca dice, che morì nella sua cella in odore di santità. Il Duca di Savoia e la madre di Carlo II la protessero. Furono restituiti al suo figlio Gabriellantonio i beni e l’onore della famiglia.
Quanto a Don Giacomo Alivesi, in ricompensa del suo ingegnoso tradimento, fu investito dal Governo dei feudi del tradito. Tutti indignati protestarono: i baroni non soffrendo un disonorato nella loro casta – i vassalli del Cea non volendo riconoscere per signore un cattivo soggetto di tal fatta – i cittadini sassaresi mal soffrendo che si premiasse un uomo che si era reso indegno della terra che gli avea dato la culla. L’Alivesi accettò l’onorificenza e fece orecchie da mercante. Anche Don Gavino Delitala domandò una ricompensa; e fu pagato con sollecitudine dal Governo!
Né fu lasciato indietro il Conte di San Germano. Egli venne premiato del suo feroce rigore. Con patenti del 2 aprile 1671, il Governo lo riconfermò nella carica di Viceré dell’Isola per un altro triennio.

• Giudizi degli storici

I giudizi a proposito dell’assassinio del Marchese di Laconi sono disparati. La maggior parte degli storici non osano pronunciarsi; vorrebbero salvare la Satrillas – e al tempo stesso alleggerire il Camarassa e sua moglie del livore contro il Laconi.
Sentiamoli brevemente:
Il Gazzano, nel 1777, senza riguardi di sorta, addita, come i veri assassini del Laconi, la moglie e l’amante.
Il Cossu, nel 1780, dubita; e dice, che difficilmente si riuscirà ad accertare questi fatti «stante le contrarie memorie trasmesse dai nostri predecessori. »
Il Manno, nel 1825, espone le due voci che corsero in Cagliari in proposito, e poi tira innanzi dicendo, che «qualunque sia la verità di queste opposte asserzioni, i fatti mostrano che la credenza della reità del Viceré s’infisse in molti». Però, nel 1868, lo stesso Manno è di parere contrario, e accusa addirittura la Satrillas e l’Aymerich.
Don Ignazio Aymerich, Marchese di Laconi, testé morto volendo rivendicare l’onore e la fama dell’Aymerich e della Satrillas, suoi antenati, risponde al Manno, e fa ricadere la colpa sul Camarassa od altri. Il Tola, nel 1836, sta col Cossu e col Manno, e scrive: «Se del sangue di Laconi fosse reo il Camarassa o l’Aymerich, è uno dei giudizi più difficili riserbati alla Storia di Sardegna».
L’Angius, nel 1841, è addirittura col Gazzano, e accusa senza misericordia i due amanti come rei della morte del Laconi.
Il Martini nel 1855, dice col Tola: che la Storia non potrà mai deciferare, se in quell’assassinio intingessero il dito il Viceré e la Viceregina, oppure la moglie di Laconi e il suo drudo.
Il Pillito finalmente (che scrive sempre con documenti alla mano) nel 1874, esterna la sua opinione, che è quella del Gazzano e dell’Angius.
Dopo tutto risulta, che, in fondo in fondo, quello che ha più ragione è sempre il primo storico; e ciò per quella certa debolezza che hanno in generale gli storici – di divorarsi 1’un l’altro.
Ma perché, si domanderà, tanta esitanza nell’accusare la Marchesa di Sietefuentes?
La risposta è facile: – perché una bella e giovane donna, la quale pecca per amore, si vuol sempre perdonare ad ogni costo.
Dinanzi alla bellezza ed alla gioventù lo storico non è mai imparziale.
L’orrore del delitto non ha potuto offuscare le figure di Francesca da Rimini – di Beatrice Cenci e di Maria Stuarda. Esse – come la Francesca Satrillas – erano belle, erano giovani, erano amanti!

• 1673. Convento

Si fonda in Sassari il convento delle Cappuccine nel sito ov’era la chiesa di San Salvatore.

• 1676. Parlamento (?)

Nella petizione del Sindaco di Sassari al Parlamento, fra le altre suppliche erano le seguenti:
«Che dai danari del donativo si fabbricasse un quartiere sicuro nelle carceri, ad uso (!) dei cavalieri e delle persone notevoli; e che intanto si desse loro un luogo conveniente nel palazzo di città, o si tenessero agli arresti in casa loro.
«Che nessun cavaliere, o abitante di Sassari, fosse chiamato a Cagliari nella stagione delle intemperie. (E questa domanda fu fatta anche nel Parlamento del 1687).
«Che i Consiglieri, stando in chiesa, potessero tenervi il cappello.
«Che si concedesse a Sassari la giurisdizione, nella forma che l’aveva Cagliari, contro i suoi debitori; come, per esempio, far Pregoni, Ordinanze, ecc., con pene pecuniarie e corporali, compresa quella di morte (!?)».

• 1677. Giurisdizione

Carlo II, re di Castiglia, d’Aragona e di Sardegna, cede e vende per tremila scudi ai Consiglieri e Probiuomini della città di Sassari la Giurisdizione Civile in prima instanza salvi l’appellazione e il ricorso alla Regia Udienza e al Viceré dell’Isola. Quando la Spagna aveva bisogno di danari (o per guerra, o per altro) trovava sempre il mezzo di procurarsene: vendeva tutto il vendibile – gli onori, le cariche e anche la Giustizia!

• 1687. Botteghe ambulanti

Nel mese di Luglio di quest’anno il Conte di Monteleone comunicava alla Giunta Patrimoniale una Carta Reale del Novembre 1686, che proibiva le botteghe portatili ed ambulanti, nelle quali in certe occasioni, si mettevano in vendita, per i villaggi dell’Isola, diverse merci. La Giunta rappresentava al Viceré il grave pregiudizio che siffatta proibizione apprestava all’Azienda, al pubblico ed al commercio; e faceva notare il poco senno della città di Sassari, la quale, non solo era favorevole a simile proibizione, ma ne aveva fatto speciale istanza a Sua Maestà.
Per avere un’idea di un po’ di commercio a quei tempi, eccovi alcuni brani del rapporto che faceva la Giunta Patrimoniale di Cagliari al Viceré, in odio ai Sassaresi, perché questi, come abbiamo detto, erano favorevoli alla proibizione delle botteghe- ambulanti. È dal Pillito che io li riporto:
«… La città di Sassari è favorevole a siffatta proibizione più per perfidia, che per ragione, non essendovi ombra di verità in tutto quanto rappresentano quei Consiglieri; mentre nessuna città, ove fossero state reali le cose esposte da quella di Sassari, avrebbe tralasciato di fare altrettanto – e Cagliari specialmente che, come primaria, ha sempre procurato e procura l’incremento, il benessere e la conservazione del Regno, e dalla quale, in occasione di feste e di fiere nei villaggi, parte maggior numero di dette botteghe, che non dalle altre città prese assieme. La ragione per cui questo commercio debbasi considerare per un gran bene comune salta agli occhi (se viene a los ojos) sulla considerazione che, quanto più attivo è il consumo delle merci che il villico acquista collo scambio dei suoi prodotti, maggiore diventa il commercio e più ne vantaggiano i popoli e l’Azienda che perceve i dritti. E fa veramente pietà il vedere che, mentre in altri Regni e Provincie si formano Commissioni allo scopo di creare nuove industrie, sola fonte della ricchezza dei popoli, la città di Sassari pretenda invece di restringere ed annullare quel poco che havvi nel Regno, non riflettendo alla estrema miseria ed alla totale rovina a cui verrebbe spinto, ove si adottassero tali restrizioni…».
«… Né si deve tacere, che la città di Sassari non possiede più quel commercio che un tempo aveva, e ciò per le violenze e vessazioni usate nel 1679 verso i pochi commercianti e negozianti di quella piazza, ai quali, sotto pena di far loro pagare il doppio delle gabelle civiche, venne loro imposto di voler estrarre effetti per una somma uguale al valore delle merci che importavano; tutto all’opposto di quanto fa Cagliari e le altre città del Regno, le quali, per attivare vieppiù il commercio, ribassano di oltre la metà i diritti suddetti, a misura che la piazza trovasi provvista di robe e merci. A ciò devesi anche aggiungere il rischio che corrono le navi pel cattivo stato di quel porto, le tante vessazioni che fanno si soffrire ai forestieri che giungono in quella città, il diffìcile smercio delle mercanzie, il difetto di capitali, le astuzie che adoprano quegli abitanti per defraudare i dritti regi, mentre servendosi del Reale Privilegio che esonera i Sassaresi dal pagamento dei dritti di Dogana, tutte le merci che i forestieri introducono ed estraggono, s’intestano ai nativi di quella città, oltre alle mercanzie che vengono introdotte di sfroso, nelle quali infrazioni si aiutano a vicenda secolari ed ecclesiastici, senza che mai siansi potuti estirpare questi sconci, per esservi compromesse ragguardevoli persone, i cui nomi, se vengono taciuti in questo memoriale, vennero già comunicati a voce all’Eccellenza Vostra…».
Passando sopra la solenne lavata di capo data alla città di Sassari dalla Giunta Patrimoniale di Cagliari, in tempi in cui le gare di campanile erano nel loro pieno fervore, bisogna pur convenire che, a riguardo delle botteghe ambulanti, le ragioni esposte dai Cagliaritani erano buonissime – mentre la pretesa dei Sassaresi era proprio strana. Dio sa il motivo che indusse i nostri Consiglieri a votare per l’abolizione delle botteghe ambulanti! – Un che ci doveva essere!

• 1690. Convento

Si fonda in Sassari il convento dei Padri Scolopi.

• 1693. Contrabbandi

Il viceré Conte di Altamura, nel settembre, venne in Sassari collo scopo di verificare e mettere in qualche modo riparo ai contrabbandi che vi si facevano in pregiudizio del Fisco e di quel Tesoro Municipale, senza che mai si fossero dalle autorità locali potute sradicare le frodi e punire i colpevoli; e ciò, stante gli interessi che ne ritraevano persone ragguardevoli, non esclusi i membri del Santo Ufficio e gli altri ecclesiastici, massime quelli del clero regolare nei cui conventi serbavansi le merci provenienti da’ contrabbandi.

• 1698. Il solito Parlamento

Il solito Parlamento in Cagliari, dove tornano a galla le solite questioni delle dignità e impieghi da conferirsi agli isolani. In un secolo e mezzo, già in una quindicina di Parlamenti, si era discusso di queste benedette cariche – ma i regi ministri facevano sempre i sordi, e pronunciavano le sacre parole del Re: – si stia alla consuetudine!

• I cavalieri

Nel Parlamento celebrato in quest’anno il Sindaco di Sassari ebbe il coraggio civile di fare le seguenti osservazioni:
«Che la nobiltà si deturpava, concedendosi il cavalierato ai villici ricchi, i quali soggiornando nei villaggi vi stavano senza alcun decoro.
«Che mentre la nobiltà statuita nella città si struggeva per mantenersi in dignità, quella dei villaggi aumentava, non solo dei villici, cui si era venduto il privilegio della nobiltà, ma anche di quella della città che si ritirava nei villaggi; motivo per cui era avvenuto nei Parlamenti (o Corti), che il maggior numero dei voti dello Stamento militare fosse di cavalieri villici, tra i quali alcuni accusati di furto, di resistenza alla giustizia, di essere capi di squadriglie, protettori di malviventi, ecc., ecc.».
E domandava perciò, che Sua Maestà provvedesse.
Lo stesso Sindaco di Sassari, dinanzi a tutti i cavalieri che l’ascoltavano meravigliati, disse pure: «che per il tenue prezzo con cui si poteva comprare la nobiltà, erano oramai i cavalieri troppo cresciuti di numero. E accusava i ministri del Re, i quali, nell’insaziabile loro avarizia, commettevano una vergognosa baratteria vendendo una decorazione che doveva solo darsi alla superiorità della mente e alle virtù non comuni».
Vedete bene che oggigiorno abbiamo torto quando gridiamo: –  che tempi immorali! Prima le decorazioni si davano al merito – oggi invece la Corona d’Italia brilla anche sul petto del più umile portinaio. Gli ambiziosi sono sempre stati; e finché vi saranno ambiziosi, vi saranno croci e onorificenze!
A proposito di cavalieri: anche il Procuratore del Capitolo di Ampurias, presentò al Parlamento la sua petizione. Egli voleva che il Re mandasse in dono ai Canonici un diploma di cavalierato e nobiltà, che essi potessero vendere al maggior offerente, chiunque si fosse, e col prezzo restaurare la cattedrale. Numerato il danaro, si sarebbe scritto nello spazio bianco lasciato nella formula il nome del compratore, il quale senz’altro era nobilitato sino alla decima, ventesima e millesima generazione, – E postochè sono tra i cavalieri, ci sto.
Dovete sapere, che le Monache Cappuccine di Sassari, come tutti i monasteri e i conventi, domandavano sempre qualche sussidio o qualche privilegio al Re. Orbene, nel 1680 avevano ottenuto il dritto di libera estrazione dall’Isola (senza pagar gabella) di 12.000 starelli di grano. Ne avevano diggià estratto per 4.000, e ne rimanevano da estrarre altri 8.000. Non volendosi a questi lasciare la libera uscita, forse per ragioni di strettezze finanziarie, il Re in compenso accordava alle Monache un diploma di cavalierato e nobiltà, perché ne disponessero a favore di una persona dell’Isola (s’intende mediante pagamento!)
Questa grazia la certificava Don Francesco Dalmao Casanate, segretario nel Supremo Consiglio di Aragona, incaricato degli affari e Carte di Sardegna, in data 19 aprile 1691, da Madrid.
Siccome questa vendita si faceva con molta circospezione, ignorasi il nome del fortunato sardo che fu fatto cavaliere dalle Monache Cappuccine di Sassari!

• 1700. Morte di Carlo II

Carlo II morì nel novembre di quest’anno; e con lui si spegneva la dominazione dei Principi d’Austria nelle Spagne.
Il 3 dicembre i Consiglieri di Sassari si riuniscono in Giunta e si dà lettura della lettera che annunzia la morte del re Carlo e il suo testamento, con ordine che si facciano le stesse funzioni fatte per la morte della Regina madre. – Il 7 dello stesso mese il Giurato Capo esponeva: – che avendo la Città invitato il Capitolo Turritano perché si facessero solenni funzioni, quello rispose che le farebbe, ma colla condizione si pagassero ottanta scudi. Il Consiglio mostrò allora al Capitolo l’Esemplare per le funzioni della morte della Regina madre, per la quale non si erano richiesti che soli cinquanta scudi. Il Capitolo però, stette duro; e allora fu discusso se si dovesse sborsare la somma richiesta, oppure scegliere un’altra chiesa per fare la funzione. La maggior parte dei Consiglieri fu di parere di preferirsi la Cattedrale e di pagare ciò che si domandava. I preti avevano ragione: – un Re pesava più d’una Regina, e quindi costava assai di più!