Sassari nell'Ottocento

Lo sciopero delle tabaccaie

Nei primi mesi del 1901 la “Nuova Sardegna” aveva dato notizia di uno sciopero delle operaie dei tabacchi pubblicando anche una sorta di intervista ad alcune scioperanti. Il cronista, in quella occasione, transitando in piazza del Diavolo (lu Patiu di lu Diaulu) incontra un gruppo di scioperanti alle quali chiede i motivi dello sciopero; una ragazza, sostenuta da una compagna, così racconta: «Da 5 settimane lavoriamo nei magazzini del tabacco. Siamo 62 operaie, non minori di 15 anni e non maggiori di 20. Il numero delle richieste a suo tempo inoltrate per essere assunte superava il centinaio. Furono scelte, nell’ambito delle necessità dell’azienda, quelle che sapevano leggere e scrivere. Il lavoro era organizzato sulla base di 6 squadre: la prima squadra faceva la cernita del tabacco in buono e cattivo; la seconda lo distingueva in ordinario e difettoso; la terza lo classificava scarto maturo, immaturo, leggero, leggero maturo ecc. Due squadre erano preposte all’affascicolamento delle suddette qualità, la sesta e ultima squadra faceva la divisione dei tabacchi secondo i colori, pesante, maturo, chiaro, scuro ecc.

«L’orario di lavoro era il seguente: dalle 7.30 alle 12; un’ora di sosta per la colazione, che si consumava sul posto; ripresa alle 12 fino alle 17.30. Durante la giornata – continua il racconto – eravamo severamente sorvegliate da parte di alcune signorine in cappellino. Un semplice risolino a fior di labbra tra compagne rappresentava un’infrazione al regolamento. Ad esempio era vietato parlare nel nostro dialetto; due nostre compagne furono sospese per tre giorni dal lavoro e dal salario per una risatina innocua; una terza fu sospesa per quello stesso periodo per avere pronunciato una frase in campi danese; ogni sera, prima di uscire dal magazzino, venivamo sottoposte ad una scrupolosa e minuziosa perquisizione personale. Più scrupolosa ancora, però, era una controvisita  che si faceva ugualmente ogni sera per estrazione: venivano imbussolati i nomi delle 62 ragazze per estrarne sette, alle quali nel corso della perquisizione venivano tolte anche le scarpe e il busto.

«Dal 20 aprile percepivamo una retribuzione di 0,50 lire al giorno. I superiori, mentre eravamo intente nel nostro lavoro, ci spiegarono che un certo Buzzi (Duca degli Abruzzi, ndr) era andato nel ghiacciaio ed aveva perduto un dito e che per curarlo si faceva una sottoscrizione in tutta l’Italia e si pensava anche di coniargli una medaglia. Quindi ci dissero che era conveniente mettere anche noi la nostra quota per questa opera buona. Ciascuna, infatti, sottoscrisse cinque o dieci centesimi per il povero Buzzi. Anche il dottore ci esortò a fare opera buona. Inoltre, ci fecero pagare il vestiario di lavoro che ordinarono da Milano: un grembiule 1,95 lire; una cuffia 1,25 lire; un cestino 0,50 lire. Come già detto, eravamo pagate a giornata; questo sino al sabato.

«Però un giorno il direttore, il magazziniere e il dottore ci imposero di lavorare a cottimo, perché il lavoro sarebbe stato più intenso e i guadagni maggiori. Così facemmo la prima prova. Tutte speravamo in grandi guadagni perché ciascuna, lavorando senza misericordia, potesse arrivare a guadagnare oltre una lira. Ebbene, ecco il guadagno della giornata: io con altre 11 compagne preparammo ben 11 kg. di tabacco e poiché ci pagavano in ragione di 0,85 lire al quintale percepimmo la bellezza di 1,26 lire! A ciascuna toccavano 10 centesimi; la rimanenza non l’abbiamo ancora divisa. Alla ripresa del lavoro – continuava il racconto delle ragazze – il magazziniere signor Posta, aperto un registro, ci lesse la quantità del tabacco preparato da ciascuna squadra. Dalla lettura si apprese che nessuna squadra era arrivata a guadagnare 15 centesimi in nove ore e mezzo di lavoro. Dichiarammo quindi di voler lasciare il lavoro. A questo punto, visto che le cose prendevano una brutta piega, ci promisero per quel giorno 50 centesimi ciascuna, a condizione, però, di riprendere a lavorare a cottimo dal giorno successivo. Noi rispondemmo dando le spalle per tornarcene a casa, dove almeno, pur restando senza lavoro, non ci logoriamo la salute e stiamo in famiglia. Gli studenti, che a quell’ora erano sulla piazza Università, improvvisarono una piccola dimostrazione, ignorando forse il motivo del nostro sciopero. Alcune restarono al lavoro, forse per guadagnarsi i 50 centesimi promessi.

«Siamo comunque certe che domani non riprenderemo il lavoro, malgrado siamo strette dal bisogno».

Pare impossibile che si dessero 10 centesimi alla giornata ad una persona che lavorava circa 10 ore al giorno. Come si faceva a vivere? (Basterà ricordare che, sulla base dei calmieri discussi in Consiglio comunale un paio di anni prima, un chilo di pane costava 45 centesimi e un chilo di manzo da 1,25 a 1 lira. Una copia della “Nuova Sardegna” costava 5 centesimi). La buona giovinetta con le compagne si mostrò decisa a non voler più ritornare al magazzino per morire dalle coliche e dalla fame. Ecco invece come il cronista commenta l’intervista: «Questo racconto ci lascia stranamente sorpresi e ci rivela una pagina oscura della vita di tanti miseri lavoratori che lavorano in silenzio. Per chi lavora 10 ore al giorno è già una miseria, una vera ironia, il salario di 50 centesimi. Ma quando si ha il coraggio di sopportare ancora queste miserie, di lesinare sul pezzo di pane nero dei poveri lavoratori, quanto questi 50 centesimi si riducono a 10 non si fa più una canzonatura, ma si commette un delitto di lesa umanità.

«Noi non possiamo elogiar questo sistema di coniar medaglia sulla miseria; abbiamo ragione di protestare contro i falsi patrioti che per avere le croci, le commende, i canonicati pingui non si vergognano di prelevare 10 centesimi da un magro salario e di privare del latte quotidiano una povera operaia. Rileviamo ancora che i superiori diretti delle scioperanti si sono mostrati non solo inumani, ma anche privi di qualsiasi tatto politico; infatti, mentre tutti si augurano che i molti scioperi scoppiati in Italia in questi giorni si appianino, con vantaggio del capitale e del lavoro, mentre tutti si adoperano a portare acqua alle fiamme avvampate, questi superiori provocano quasi a bella posta questo sciopero e portano la miccia nella polvere. Noi ci dorremmo che 62 operaie perdano anche quel pezzo di pane nero ed i cinque centesimi dei latte, ma ci rallegriamo che questo sciopero abbia messo a nudo le miserie che crescono all’ombra dei regolamenti».

Sulla vicenda delle operaie in sciopero interviene sul giornale, due giorni dopo, il dottor Fucella, agronomo della locale Agenzia Tabacchi, che racconta al cronista la sua versione sulle lagnanze delle operaie che avevano attuato lo sciopero: «Il lavoro di queste operaie si deve a noi – esordisce -. Esso ha avuto inizio il 26 marzo del corrente anno. Negli anni precedenti, il tabacco della provincia di Sassari veniva tutto spedito a Cagliari. Fummo noi che pensammo di utilizzare quel tabacco, parte assegnandone per confezionare i sigari sardi, parte da confezionare come tabacco da fiuto. È vero che alle ragazze, a cominciare da ieri, il lavoro fu dato a cottimo, ma vi sono ragioni da cui non si può fare astrazione. Il lavoro a cottimo, come da noi venne imposto, supera di un terzo quello imposto nei diversi magazzini. Non è vero quindi che a mala pena col lavoro a cottimo si possa guadagnare quindici centesimi. I risultati che dicono una parte delle operaie nel lavoro a cottimo non è certo dai pi confortanti. Ma è un fatto che fu detto loro che mai avrebbero avuto un salario giornaliero inferiore a cinquanta centesimi; le operaie che hanno scioperato – continua il dottor Fucella – erano le più indisciplinate, tanto è vero che la maggior parte, cioè 42, rimasero al lavoro ed al posto delle scioperanti abbiamo provveduto con nuovo personale. Non è possibile che quelle che scioperano possano essere riaccettate.

«Le perquisizioni cui vanno soggette indistintamente le operaie sono una garanzia necessaria, altrimenti chiunque potrebbe asportare il tabacco che vuole. Esse però vengono eseguite esclusivamente da donne e non alla presenza di alcun impiegato». Infine il dottor Fucella assicura di non avere mai imposto sottoscrizioni di sorta.

Dopo queste dichiarazioni il cronista continua l’intervista sulla questione della produzione del tabacco nella provincia di Sassari; «Non è che noi ostacoliamo la produzione del tabacco indigeno – egli esclama – tutt’altro! Se questa produzione non può dare i frutti che se ne speravano e non viene incoraggiata, la causa è che questi coltivatori non seguono i metodi di coltura e di concimazione suggeriti dalla scienza. Si è fatto qualche cosa, per esempio i capannoni, ma non basta».

«Riservandoci di ritornare per conto nostre sull’argomento delle coltivazioni locali – conclude il cronista – esprimiamo intanto l’auspicio che la questione dello sciopero sia composta equamente e senza inopportuni rigori».

Ancora due giorni dopo il cronista scrive, in una breve nota: «Il signor direttore dell’Agenzia dei tabacchi è irremovibile nel non voler riammettere al lavoro nessuna delle operaie scioperanti… A quanto pare vuole dimostrare la propria indipendenza, facendo il tirannello fuori di proposito. E ci riserviamo di parlare di lui. Della questione si è occupato anche l’on. Garavetti, presso le locali autorità: Intendenza di Finanza e Prefettura». Anche il direttore dell’Agenzia Coltivazione Tabacchi interviene, con una lettera alla “Nuova”.

Pochi giorni dopo lo sciopero delle operaie dei tabacchi la Camera del Lavoro, aderendo all’invito della consorella di Milano, si fa iniziatrice di un’agitazione in Sardegna a favore del progetto Kuliscioff sul lavoro delle donne e dei fanciulli, che riguarda la regolamentazione dei seguenti problemi: 1) 48 ore di lavoro settimanali; 2) divieto di lavoro notturno; 3) divieto di lavoro nell’ultimo mese di gravidanza; 4) 75% del salario in questo periodo e nel primo mese di puerperio.

(Tratto da “Cronache municipali – Vita quotidiana e lotte politiche a Sassari 1897-1901” di Nino Manca)