Dice: perché ai sassaresi li chiamano «magnacàula» e non, per esempio, «mangiacoccòiddu» o «mangiazimino»? La risposta sta forse nella storia. Ed è che mentre degli orti sassaresi si parla sin da diversi secoli fa, l’abitudine di mangiare i «pezzi» arrosto o le diverse, mirabili specie di lumache è recente. E se non è recente, ha sempre dovuto faticare a superare le obiezioni della legge e le preoccupate ordinanze dei sindaci. Faccio due soli esempi, togliendoli dal nuovo volume delle «Cronache municipali» (Libreria Dessì Editrice), in cui Nino Manca racconta, come dice il sottotitolo, la «vita quotidiana e le lotte politiche a Sassari». Il primo volume andava dal 1897 al 1904, questo va dal 1904 al 1911: e già è in cottura – a stare a quello che lo stesso Nino Manca dice in premessa – un terzo che andrebbe dal 1912 al 1925 (credo). Bene, da due notizie di questo secondo volume si apprende che la carne di cavallo, tanto per dire di un ingrediente usuale della gastronomia sassarese, non si poteva mangiare, in città, prima del 1907. E che le lumache furono, nel 1910, oggetto di un duro contenzioso a Palazzo Ducale che rischiò di farle scomparire dalle mense cittadine. La carne di cavallo. Il primo a venderla, ci ragguaglia Nino Manca, fu un certo Giovanni Cossiga, che ne ottenne licenza nel marzo del 1907 dopo aver presentato regolare domanda. Questo Cossiga era di Ploaghe, e a Sassari aveva sposato Antonietta Usai, proprietaria di una famosissima locanda con alloggio per cavalli detta «La Murighessa». La locanda stava alla confluenza fra la via Pettenadu e quella che si chiamava, allora, via del Teatro Civico (cito a memoria, ma mi ricordo una molto bella poesia intitolata «L’Usthera di la Murighessa»: può essere che sia di Dino Siddi, o sto facendo confusione? Prometto altre notizie). In Consiglio comunale si discusse sulla domanda e il consigliere Ricci (uno dei più attivi nella Sassari giolittiana) affermò che studi recenti avevano dimostrato che la carne di cavallo era particolarmente nutriente. La sua vendita, dunque, andava addirittura incoraggiata. Il Comune diede licenza, con l’obbligo che la vendita si svolgesse in una bottega a sè. Nell’ottobre del 1910 una improvvida ordinanza del sindaco vietò la vendita di ogni specie di lumache. Ci fu una insurrezione, soprattutto dopo che una gran quantità di raccoglitori-venditori furono fermati, perquisiti e multati dalle guardie del dazio all’ingresso della città. Nino Manca ce ne ha lasciato anche l’elenco nominativo: sono una quarantina di persone, cui furono sequestrati carichi che andavano dai 15 al mezzo chilo. Avevano in media una cinquantina d’anni (un giovane di 30 è una eccezione), il più vecchio arrivava a 67. Il sindaco si dovette arrendere dopo pochi giorni. Fece, come si direbbe oggi, un passo indietro, e autorizzò la vendita delle lumache. Ma con una serie di limitazioni. Intanto, si potevano vendere in un punto soltanto della città, la piazzetta della Frumentaria, orario di… apertura dalle 7 alle 21. In più, i gusci dovevano essere «sufficientemente strofinati» e le lumache «monde da ogni materia impura». Da allora, strofinando e spurgando, migliaia di sassaresi hanno mangiato milioni di lumache, e le mangeranno anche nel Duemila.
Titolo originale: “Alle origini Sassaresi mangiacavoli, ma le lumache…”,
di Manlio Brigaglia,tratto dalla “Nuova Sardegna” del 26 agosto 1999

