La questione delle cariche e degli impieghi fu sempre una delle più spinose per la Sardegna. In ogni tempo, così sotto la Spagna, come sotto il Piemonte, essa fu fomite di discordie, rappresaglie, malumori e vessazioni di ogni genere.
« Premi ed incitamenti al bene i sardi non avevano; – scrive il Tola – e quali essi potevano averne da un governo che schiavi li reputava, e come una frazione spregevole della grande monarchia spagnuola? Gli uffizi pubblici, per antico e disumano costume, tutti o quasi tutti erano occupati dagli stranieri. Essi le sedi arcivescovili, le eminenti cariche civili e militari, i minori impieghi e i più abbietti occupavano: – essi tutti gli affari dell’isola trattavano, tutti gli stipendi dell’erario sardo dividevano. Alcuni buoni ve n’erano; ma molti ancora miseri, cenciosi e dal bisogno assottigliati venivano, e dopo alcuni anni vissuti in Sardegna, i ben pasciuti corpi e le borse gravi di pecunia ai domestici lari riportavano.
I sardi, esclusi per sistema dai pubblici impieghi della patria loro, queste cose, per essere già ausati al servaggio, con indifferenza riguardavano; e il volgo che facilmente persuadevasi nelle sole menti spagnuole risiedere i lumi ed il senno, cotesti stranieri d’ogni condizione, di ogni ordine, uomini credeva di diversa e di più perfetta natura… Acciò un sardo potesse avere un seggio nel Consiglio Supremo di Aragona ci vollero le istanze di un Parlamento. Si avvilivano gli animi per la certezza di non poter mai giungere agli onori, alle preminenze, alle illustri cariche della nazione privilegiata; e compresi dall’ingiuriosa esclusione, o non osavano contendere al bene, o non avanzavano nel bene 1′ infingarda mediocrità… »