Fra il tanto senno, giustizia e umanità che guidarono i nostri antichi padri alla compilazione delle leggi contenute nel Codice della Repubblica, il qual Codice, secondo Manno, è un monumento della sapienza dei Sassaresi; – secondo Boullier, una costituzione en avant de son siecle; – secondo Valery, un libro che onora qualunque Stato; – e secondo Sclopis, un’illustrazione del Governo Sassarese; – non mancano qua e là traccie di quelle barbarie che rendono così famoso il Medio Evo.
Tre cose principali dispiacciono nella raccolta di queste saggie leggi: – la schiavitù, che divideva gli uomini in due classi distinte, liberi e schiavi; – la tortura, che strappava dal labbro dei poveri infelici una colpa che ben sovente non avevano commessa; – e gli accusatori, un basso spionaggio innalzato quasi a virtù, o meglio mascherato sotto il manto del più scrupoloso dovere. Amore di verità mi costringe a mettere in rilievo questi tre nei, ad ognuno dei quali voglio dedicare un apposito capitolo.
SCHIAVITÙ. L’ho detto: – la società era allora divisa in liberi e servi (liveros, et servos o anchillas). Servo o serva allora voleva dire schiavo. Di questa schiavitù a noi oggidì non è pervenuto che il nome – un brutto nome che suona insulto, e che la civiltà moderna non è ancora riuscita a togliere dall’uso e dal vocabolario. Invece di dire il mio servo, e la mia serva, non sarebbe forse più nobile per la natura umana dire il mio domestico o la mia domestica? – o almeno non si potrebbe farne un servitore devotissimo?
Tornando a bomba, dunque dirò, che sulla coperta del nostro famoso Codice, quantunque informato a clemenza e ad umanità, non si possono scrivere le parole: la legge è uguale per tutti. La legge della Repubblica Sassarese, che punisce con pene severe anche lo stesso Podestà per semplici falli di negligenza, e che in molti articoli non ha riguardo, né rispetto agli stessi chierici (è tutto dire!), ha invece due pesi e due misure quando trattasi di signori o di servi. Lo abbiamo già osservato in piccole pene – ed ora lo vedremo nel criminale.
Parlando dell’omicidio, all’art. 1, è detto: «Chi uccide o ferisce alcuno mortalmente, sia condannato alla morte. Però, se per avventura alcun uomo libero avesse ad uccidere un servo od una serva d’altri, non potrà aver luogo la condanna capitale, ma basterà che al feritore si facciano pagare lire 50 per quell’eccesso (sic), e lire 25 per satisfachimentu (soddisfazione) del servo o della serva; e ciò entro il termine di tre mesi dall’omicidio, nel qual tempo starà in carcere. Se l’uccisore non pagasse in quel tempo, sia tratto a morte».
Tutto questo rigore e questo risarcimento non è che a totale benefìzio e a soddisfazione del padrone che ha perduto un servo od una serva. Tiriamo innanzi.
«Se poi alcuno ucciderà il proprio servo o la propria serva, oppure troncherà loro qualche membro, oppure li batterà con frusta, bastone o ferro, nessun processo gli si possa fare, né sia condannato».
Mi pare che quest’articolo non abbia bisogno di ulteriore spiegazione!
Abbiamo già veduto all’articolo “La Donna”, come una libera possa passare alla condizione di serva quando ha la disgrazia di perdere il marito, e di essere debitrice di qualche somma. Essa è allora obbligata di andare a servire il creditore per 12 soldi all’anno; e non adattandosi essa al servizio, era in facoltà del padrone costringerla coi ferri!
Nelle ferite che cagionavano la perdita di un membro abbiamo veduto applicata la legge dell‘occhio per occhio, dente per dente. Ciò però, da libero a libero, o da servo a servo di diverso padrone. Se però ad un libero piaceva di rompere un braccio o di cavare un occhio ad un servo, non poteva perdere il somigliante membro, ma si toglieva ad ogni fastidio pagando la miseria di 20 lire: la metà, cioè, per il Comune, e l’altra metà per indennizzare il padrone del servo inservibile!
TORTURA. In tutto il Codice, è vero, non si parla che in due o tre articoli della tortura, e sempre in modo da dinotare che se ne servivano di raro, e forse non se ne erano mai serviti. Ciò non toglie però che della tortura si facesse menzione; e se un pensiero deve consolarci, è solo quello, che gli Spagnoli ce la fecero più tardi gustare in tutta la pompa dei più raffinati supplizi, e che gli Spagnoli ebbero imitatori in tutti i Re di Casa Savoia, da Vittorio Amedeo II ai primi anni di regno di Carlo Alberto.
L’art. 22 parlando dei ladri di strada e delle orribili pene da applicarsi ad essi, dà ampia facoltà al Podestà, nelle investigazioni dei furti, di perseguitare i malfattori accusati o denunziati, e di procedere contro di essi pro martiriu, od altro, come meglio crede.
Parlando degli usurai all’art. 44 si concede al Podestà di potersi accertare dell’usura con diversi mezzi, a suo arbitrio, non però per martirio.
L’art. 30 dice a chiare note: «Nessuno può marturiare né tormentare una persona libera, e chi farà contro sia condannato dal Podestà in lire 10 ciascuna volta».
Da quest’articolo risulterebbe, che i padroni potevano, quando loro piacesse, dare la tortura ai servi ed alle serve. Non posso però tacervi, che quest’articolo mi sembra un po’ sibillino; e forse per marturiare e tormentare non si deve intendere la tortura propriamente detta, ma bensì il maltrattamento verso coloro che nacquero servi.
L’ultimo, infine, e il più esplicito di tutti, è l’art. 154, nel quale è detto: «Il Podestà non può torturare persona di Sassari o del distretto per verun malefìzio, salvo per omicidio o per furto; né può torturare alcuno, solo per essere stato nominato da un torturato. In questo caso non si poteva procedere; e se il Podestà processava, era punito colla multa di lire 100. »
La tortura dunque era riservata ai soli casi d’omicidio e di furto, ed era vietata ogni qual volta derivava da denunzie di altro tormentato.
«La qual eccezione – nota il Manno – indica per sé sola, come i compilatori di quel Codice stimassero poco accettevole una imputazione corrotta dalla violenza».
Ad ogni modo, di tortura si parla nei precedenti articoli, né so comprendere come l’illustre archeologo Spano abbia potuto scrivere nelle Delizie della tortura: «Al tempo del Governo Nazionale non era conosciuta; non se ne fa menzione nella Carta de Logu, né nel Codice della Repubblica Sassarese».
DENUNZIATORI. Ben si comprende che in una piccola Repubblica, come quella di Sassari, i cittadini dovevano essere solidari fra loro; quindi, tutti soldati, tutti impiegati, tutti carabinieri, e tutti polizzotti. Ognuno aveva il dritto ed il dovere di denunziare i delinquenti, di accusare al Podestà chi non era galantuomo, di arrestare chi si era reso colpevole di un delitto, e di uccidere o rompere un membro ad un bandito in campagna.
Pure non si può negare, che questa continua inquisizione reciproca doveva generare un po’ di diffidenza fra galantuomini, e raffreddare i rapporti d’amicizia e d’interesse. Ma passi anche ciò in grazia dei sagrifizi che deve fare un onesto patriotta per conseguire il bene e la prosperità del proprio paese. Ciò però che dispiace, è il prezzo assegnato a questa specie di delazione, cioè a dire, la metà delle multe che toccavano all’accusatore; e più ancora le misteriose parole che accompagnano sempre la formula dell’articolo: «Di questo bando la metà sia del Comune, e l’altra metà dell’accusatore, e sia tenuto segreto. E ciascuno possa accusare, e sia credulo il suo giuramento».
Viene subito in mente un birbaccione, il quale, quando sapeva di aver troppo asciutto il borsellino, andava subito per le vigne a spiare chi saltava un muro, chi portava via un palone, ecc. ecc. e correva di filato al Palazzo di città per buscarsi la giornata, ben sicuro di scansare l’odio dell’accusato, in grazia del manto di segretezza che gli prestava il Comune!